Non è solo una questione che riguarda i libri, quella di ritenere che qualsivoglia prodotto vada a priori adattato a una presunta legge di mercato. Chiacchierando ieri con Giorgio Airaudo è emerso con chiarezza che questo è un concetto che sembra inestirpabile nella concezione della vita e del lavoro. Sembra perché viene proposto come unica possibile via: se il nuovo avanza, occorre adeguarsi senza dire “ah”.
Dunque, ieri ho letto su Facebook questa nota di uno sceneggiatore italiano, Aaron Ariotti. Mi sembra importante da condividere: rientra nello stesso discorso fatto nei giorni scorsi:
Ieri mattina ho rilasciato un’intervista ad una neonata web tv sul mestiere dello sceneggiatore. Alla fine non ero molto soddisfatto, ma non riuscivo a capire perché. L’ho capito adesso, a distanza di qualche ora. Non ero soddisfatto perché non avevo detto realmente quello che pensavo. Asservito da anni ad un sistema in cui se dici tutto quello che pensi sei destinato all’emarginazione, avevo inconsciamente attivato il risponditore automatico. Insomma, sono stato troppo buono. Avrei dovuto dire quello che pensavo realmente, che in molti lavoratori del settore pensano ma pochi hanno il coraggio di dire, e cioè che la fiction italiana è brutta. Ed è brutta di una bruttezza endemica. Un restyling fatto bene richiederebbe un rovesciamento totale delle attuali strategie produttive. Esiste, certo, un problema relativo alla qualità della scrittura (scriviamo male, a volte malissimo), così come esiste un problema di regia e un problema di recitazione (casting compresi). Ma il vero nodo della questione, quello più difficile da sciogliere, non ha nulla a che fare con i lavoratori del settore. Non c’entra niente con gli sceneggiatori, con i registi e con gli attori. Ha a che fare col sistema produttivo.
Qual è il “sistema di produzione della fiction” in Italia?
Anni fa, quando le fiction avevano successo (non esisteva Sky, non esisteva l’offerta multipla del digitale terrestre), ma erano comunque brutte, nessuno si preoccupava. Il pensiero comune di tutti noi era più o meno il seguente: che ce ne importa se le fiction sono brutte, la gente se le guarda lo stesso e noi continuiamo a lavorare. Oggi che la produzione è drasticamente calata così come gli ascolti, improvvisamente ciò che era brutto prima ci appare ancora più brutto. In realtà il sistema produttivo italiano è sempre stato molto debole, anche quando produceva tanto. E questa debolezza spiega in parte la scarsa qualità delle nostre produzioni. Dopo un periodo di vacche grasse, siamo tornati agli albori, quando i broadcast italiani si distinguevano sul mercato più come acquirenti che come produttori. Ma quando ancora si produceva, lo si faceva a prescindere dalla qualità. Lo si è sempre fatto per motivi squisitamente finanziari. Ricordo che quando frequentavo il Corso di Sceneggiatura a Mediaset, un giorno venne un signore del marketing a spiegarci per filo e per segno le strategie editoriali. Con grafici alla mano pronunziò la seguente frase: “Se il pubblico televisivo si accontentasse di guardare solo la pubblicità, noi, la fiction non la produrremmo nemmeno”. E stava parlando ad una platea di potenziali sceneggiatori!
Questo è il punto. A nessuno frega niente dei contenuti. A nessuno importa realmente qualcosa della qualità. E poi c’è l’altra questione, imprescindibile: la natura commerciale dei committenti (Rai è pubblica solo per modo di dire) diventa una sorta di alibi: “Bisogna dare ai telespettatori quello che vogliono”. Il che significa riprodurre quello che è già successo e che ha avuto già successo. Ecco perché la fiction italiana non fa esperimenti.
La prevalenza di “tatticismi” nella produzione porta a indicazioni evanescenti o, molto spesso, contraddittorie. E così non è raro che su uno stesso progetto si sedimentino intenzioni diverse rendendolo incoerente e confuso. In una parola: brutto. E la bruttezza arriva fino dove non dovrebbe arrivare: nelle sceneggiature, prima, sul set e in sala di montaggio, poi.
La fiction italiana è mortificante perché è mortificante il contesto in cui nasce e si sviluppa. Un contesto dove gli illuminati e i lungimiranti purtroppo non abbondano.
Ricordo che anni fa, “Dr. House” fece un botto di ascolti su Italia Uno, affossando gli ascolti della rete ammiraglia (Canale 5). Gli intelligentoni al potere decisero che “Dr. House” andava spostato su Canale 5. Risultato: calo drastico degli ascolti sia di Canale 5 sia di Italia 1. E magari queste persone sono ancora lì, al loro posto, sempre che non siano state promosse. Sono gli stessi che dalla sera alla mattina ti chiedono di trasformare un personaggio di sesso maschile in uno “equivalente” di sesso femminile perché così è meglio…
In un sistema del genere è evidente che gli sceneggiatori (non esenti da colpe, sia chiaro) sono l’ultima ruota del carro e che la narrazione è punita da uno stato di fatto: non essendo il discriminante su cui si compiono le scelte, la sceneggiatura è l’elemento che subisce più manomissioni nel corso del processo di produzione. Tutti vogliono dire la loro e, possibilmente, avere l’ultima parola: broadcast, produttori, attori e registi intervengono a vario titolo, a più riprese, con diverse intenzioni, su un progetto. Da qui la sensazione di incoerenza e approssimazione di certi prodotti, la bruttezza endemica di cui parlavo prima. E’ chiaro che il sistema televisivo andrebbe riformato, se non addirittura rovesciato. Parliamoci chiaro: la televisione ormai la guardano soltanto i vecchi e i bambini. Le serie tv straniere in televisione non hanno successo perché il pubblico le scarica dalla rete molto prima che vadano in onda (spesso ciò avviene in concomitanza con la messa in onda dei Paesi d’origine) e le guarda in lingua originale sottotitolate. Perché lo facciamo? Perché attraversiamo con nonchalance il labile confine tra legalità e illegalità solo per guardare delle serie tv? Semplice, perché sono belle. Sono fatte bene. Hanno un senso, cosa che il 90% della roba che produciamo (o forse sarebbe meglio usare il passato) in Italia non ha.
Qualcosa si salva anche qui. Mi viene in mente “Boris” (che, guarda caso, con ironia dissacrante fa a pezzi proprio il conformismo della nostra industria televisiva). In generale, e generalizzando, la fiction generalista italiana è inguardabile.
“Ciò che ha successo è giusto”, diceva quell’esperto di marketing al Corso di Sceneggiatura.
Ecco, allora, dal momento che si produrrà sempre meno, perché non cominciare a mandare in onda quelle belle serie tv straniere sottotitolate?
Mi rivolgo ai broadcast: compratevi ‘sti quattro diritti, non abbiate paura. Il giuoco vale la candela! Prendereste i proverbiali due piccioni con una fava: la qualità (per una volta potrete parlarne a ragion veduta) e la palma di strenui avversari della pirateria.
E tutti gli sceneggiatori in fabbrica. Quali fabbriche? Ah, già, non ci sono più neanche quelle”.
Ps. (qui il podcast della conversazione con Airaudo)
E… cosa dicono ai corsi per produttori? Esistono corsi per produttori, qui da noi? Se non ricordo male, un sacco di serie britanniche culto (tipo Life on Mars) sono state prodotte da under 40…
“un alibi è una ragione con una brutta fama”,scriveva il sindacalista Doug larson,citato in una rivista specializzata(selezione reader digest,da cess).E a proposito viene da chiedersi,viso che a quanto mi risulta persino i ghostwriter hanno un sindacato,come si muovano coloro che sono per l’appunto deputati alla difesa del lavoro quando ancora c’è:in difesa dello stesso qualunque esso sia oppure verso la sublimazione?(anche a proposito dell’Ilva e similari,certo.Forse è il caso di procedere verso un cammino di novelization che ci racconti di quanto nella realtà il ruolo di questi agenti istituzionali che operano per la difesa di soggetti svantaggiati per forza di cose col tempo sia andata ad annacquarsi.Possibilmente senza affondare)
http://www.youtube.com/watch?v=RdZeaWHiUKk
parole sante
Se si ragiona per “prodotti” e per “produzione”, dunque se il lavoro è determinato dall’economia, dunque dalla crescita generale e dai ricavi marginali, dunque dal tasso di crescita di un’economia e dai profitti, dunque dal PIL e dalla Quantità per il Prezzo, ne consegue che quella sia l’unica strada. L’altra è anti-economica, dunque pone un serio vincolo a quello che è ritenuto, oggi, il benessere di una persona, che è largamente vincolato alla sua busta paga. Non è un credo inventato da qualcuno, ma una constatazione.
Lo sceneggiatore, e tanti altri, forse non vedono chiaramente il mondo che abitano. Un artista, in un mondo fatto così, ha a disposizione due opzioni: fare una scelta personale, cioè accettare la povertà, oppure compiere una rivoluzione, cioè fare accettare la povertà a tutti gli altri.
Se si parla di bello e commerciale, o si parla di casi straordinari, o si parla di qualcosa che probabilmente non è bello.
P.S E poi basta con le balle: a produzione industriale in percentuale di Pil, stiamo sopra a Regno Unito e Stati Uniti. Per essere occidentali, siamo ancora molto industriali.
Ma perché DonRodrigo, Dr. House non è un prodotto commercialmente valido? E Mad Men e The Wire e Sherlock e Modern Family e Brothers & Sisters e decine di altre serie e miniserie? Sono prodotti commercialmente validi e in più credibili da un punto di vista professionale. Non è arte, può essere, ma questo che c’entra? Coniugare la qualità di una rappresentazione narrativa e il suo successo commerciale è possibile con una produzione seria, come dimostrano le produzioni americane e inglesi degli ultimi tempi. Punto e basta.
Tutto giusto.
A rendere ancora più cupo il panorama, c’è che gli autori dello spettacolo non hanno (qualora le abbiano mai avute) energie e volontà per affrontare la situazione – leggi “scioperare”.
Non sono d’accordo, DonRodrigo. Nella musica, nel cinema, nella letteratura e in tutti i campi creativi bello e di successo possono benissimo andare d’accordo: Non è un paese per vecchi o Vacanze di Natale, Don Matteo o Dr. House, la Pimpa o i libri tipo Tony Wolf, un disco dei Cure o uno di Luis Miguel, sono tutti stati prodotti di successo…
Proprio un paio di sere fa, qui dalle mie parti, in un incontro in biblioteca con un noto romanziere/sceneggiatore televisivo, si è parlato degli stessi argomenti esplicati nel post di oggi. Riporto uno dei tanti temi emersi nel confronto tra produzione italiana e americana: la ragione per cui in Italia la rappresentazione delle forze dell’ordine è sempre positiva (a fronte di investigatori serial killer, corrotti, tossici, etc… dei serial stranieri, figure complesse, sfaccettate) e banale è la collaborazione delle suddette forze armate alla realizzazione della fiction tramite prestito del materiale di scena utile. Una rappresentazione non edificante del poliziotto o del carabiniere di turno porterebbe a una assenza di supporto logistico (divise, elicotteri, automobili) da parte delle forze dell’ordine e i costi di produzione della serie aumenterebbero. Ecco, siamo messi così.
Non dico nulla di nuovo poiché questa situazione è arcinota, tuttavia è esemplare: si tratta di uno dei tanti meccanismi che ostacolano la creazione di un prodotto televisivo di qualità. Un altro problema è la NON diversificazione del prodotto: le fiction italiane si assomigliano un po’ tutte.
a proposito di sbirri in TV, ricordo che a Coliando dei Manetti fu negato l’appoggio della Polizia… tanto per contestualizzare quanto dice Anna Luisa.
Non abbiamo bisogno della confessione di un addetto ai lavori per convincerci che la fiction italiana faccia pena. Però non dimentichiamoci di aggiungere che è esattamente quanto la platea dei telespettatori si merita, visto che a milioni e milioni in Italia si continua a guardare quella roba in TV. La gente la sera è capace di qualsiasi cosa piuttosto che uscire, leggere, o semplicemente chiacchierare con chi gli abita accanto.
Mandiamo giù di tutto, noi, quindi non vale la pena darsi da fare a produrre fiction di qualità, perchè quello che c’è è “prodotto di successo”.
Per le produzioni straniere poi abbiamo il problema della lingua, come qualsiasi altro paese del terzo mondo, non riusciamo a seguire un film in Inglese, abbiamo bisogno del doppiaggio, altro che dei sottotitoli. E qui i costi di produzione crescono, no, non ne vale la pena: si proceda dunque con Don Matteo 32, tanto se si mescolano un pò di puntate vecchie con quelle della nuova serie non se ne accorge nessuno: lei dorme, lui è attaccato all’altro TV a guardare la partita.
Forse non vi accorgete che il presupposto da cui partite è proprio la commercializzazione. Dunque la legge del mercato. Dunque la vince il mercato. In Inghilterra i consumatori non hanno gusto per il cibo, hanno perso le tradizioni culinarie, e quindi i pasti tendono a fare schifo. Questo è quello che succede anche alla cultura. In generale, quando si accettano le regole del commercio, si accettano anche i gusti della maggioranza, che si fondano su quanto c’è. Dunque, tendenzialmente si va verso il basso. Tendenzialmente, perché alcuni paesi hanno delle eccezioni. Tuttavia se tutti ragionassero in termini commerciali, se il bello fosse sottoposto alla sua commercializzazione, cioè se non vi fossero artisti, cioè gente che accetta la possibilità della povertà, i gusti della maggioranza tenderebbero allo zero, perché non saprebbe giudicare. Forse è proprio questo che accade al sistema culturale italiano e meno in altre parti del mondo, dove esistono ancora artisti che, per l’appunto, mantengono acceso il timido fuocherello dell’arte, rischiando la povertà, e che, magari alla fine della loro vita, riescono ad assistere a una miracolosa commercializzazione della loro opera.
Ma se non avessimo le nostre letture, sapremmo davvero capire la differenza fra una fiction e l’altra? E allora forse è proprio questo il problema. Non una discussione sul meno peggio, che fra qualche anno sarà spostata ancora più in basso.
Da quello che dice questo sceneggiatore nel post e dalle informazioni che altri danno nei commenti (Anna Luisa, per esempio) mi sa che possiamo prosaicamente e tristemente ricondurre tutte le ragioni del fenomeno a due dei più grandi mali del nostro paese: il conformismo, per cui si preferisce l’usato sicuro al nuovo fino al limite estremo del suicidio politico e/o commerciale; e la desolante incapacità degli “imprenditori” nostri compatrioti di intraprendere alcunché, a meno che non si tratti di farlo con i soldi dello stato. Cioè nostri, che possono essere tranquillamente sperperati nei progetti strampalati che questa gente contrabbanda per innovativi. Non chiedetegli di rischiare in proprio, per carità, che gli viene l’orticaria.
Forse conveniva un po’ a tutti l’abbassamento di livello, certe produzioni tutte uguali e i cinepanettoni di successo sono un perfetto esempio di “minimo sforzo – massima resa”.
Forse la cuccagna sta finenendo sia per il fenomeno delle serie americane che riabituano alla qualità, e un po’ per il momento critico (una banda di cafoni che fa le vacanze di lusso ricorda troppo la cronaca politica).
Anche qui, come in letteratura, si è arrivati a due estremi: commercialità becera oppure autoralità fine a se stessa.
A Venezia ci sono state le solite polemiche per il leone mancato all’italia, io ho visto sia il vicitore che Bella Addormentata di Bellocchio. Non c’è gara.
Pietà di Kim Ki Duk è un film d’autore che parte innanzitutto da una storia, e da lì va a costruire una riflessione sul tema della pietà, ma ci da dentro di phatos, invenzioni, e scene madri (tutte cose che l’autorame italiano sembra schifare).
Un film girato senza grandi mezzi, ma che sa pensare in grande.
@Giorgia P.
🙂 Hai dipinto il quadro domestico dei miei suoceri (Don Matteo 32 e la partita o il poliziesco/sparatutto)… Oppure l’unico sabato in cui mio figlio è stato da loro la nonna gli ha proposto un format sui bambini canterini. Quante volte si dice ma se non ti piace o è di cattiva qualità, spegni. Il problema è che ad una certa età piace.
Quoto Maurizio il cambiamento dovrebbe venire da menti illuminate e desiderose di rischiare in proprio, ma l’epoca degli Olivetti è tramontata ere fa.
@Don Rodrigo
I Britannici avranno perso anche le tradizioni culinarie ma la BBC -pur essendo scaduta molto- non ti propina la solita sbobba e non affida la divulgazione scientifica alla famigghia Angela o a chi soffre di insonnia, insomma si può ancora scegliere se attivare i neuroni o meno. (Non ho la tv eppure su youtube trovo una quantità di trasmissioni targate bbc davvero stimolanti, certo un po’ di inglese lo devi masticare, e come giustamente ha fatto notare prima Giorgia, questo è un nostro limite).
La fiction italiana è esattamente uno dei motivi principali per cui ho smesso da anni di guardare la televisione. Se non proprio il principale.
Una piccola considerazione in merito a quella legge della domanda che secondo alcuni sarebbe scolpita nella roccia. Nello spaventoso smaronamento che ci hanno propinato sul genio di Steve Jobs, una cosa almeno vale la pena di trattenere: la sua capacità di crearla, la domanda, a partire da bisogni latenti che spesso le persone non hanno ancora razionalizzato e non sanno neppure di avere. Lo sceneggiatore del post ci racconta del manager – formatore – praticone, che avendo avuto la fortuna di trovarsi al posto giusto nel momento giusto (estrapolazione mia) pensa che il trucco per vendere, sempre valido, sia quello di continuare a somministrare quello che si è passato ieri, manco fosse un antibiotico. Ma chiunque si sia davvero occupato di marketing sa che non è così che funziona, che per stare sul mercato devi continuamente lambiccarti il cervello alla ricerca di qualcosa di nuovo e di meglio sia di quello che hai venduto ieri, sia di quello che la concorrenza sta facendo bollire in pentola. E forse è questo un altro dei motivi di tanto scadimento, il fatto che in TV di concorrenza non ce ne sia affatto, in questo paese. Tanto che i due maggiori incumbent – RAI e Mediaset – appaiono letteralmente presi di sorpresa da quello che la rete sta sfornando, come se queste “novità” non fossero state ampiamente annunciate da anni. Certo questi cosiddetti manager fanno parecchio ridere, nella loro dabbenaggine e nelle loro contraddizioni: da una parte idolatrano il citato Steve Jobs e recitano la parte degli iperliberisti, dall’altra dicono che non c’è domanda. Dovrebbero saperlo, che secondo il loro stesso vangelo è l’offerta a creare la domanda (legge di Say, corso di Economia I, giorno 1). Nella pratica lavorativa sposano tutti l’aborrito Keynes? O sono solo ignoranti, punto e basta, e non sanno niente né di Say, né di Keynes e tanto meno del mercato?
M. è quello che dico. Ma cosa c’è dietro le produzioni bellissime della Bbc? Shakespeare. La cultura del teatro, la cultura del viaggio e della scoperta, i tanti artisti che non hanno paura della povertà, una cultura storica pubblica (non statale, non commerciale, semplicemente pubblica) e la solidità dell’azienda. Non tanto il successo economico di certe produzioni di qualità, fatte da persone affette da solipsismi autoriali che incassano denari pescati dalle tasche dei cittadini. E’un modo di ragionare diverso dal nostro. Noi mandiamo a male l’azienda attraverso pessimi amministratori, al posto di parlare di pubblico, parliamo di stato, come se fosse un nostro possedimento (la roba, la roba), e poi pensiamo di salvarci vendendo “cose di qualità”, finanziate senza criterio, a gente che non saprebbe da che parte iniziare per valutare.
e aggiungo. Noi mettiamo nel ruolo di coprotagonista la starlette di turno passata dal divano/letto/mercedes del potente.
il 90% degli attori della BBc – e parlo di questa rete poichè vedo ormai solo le loro produzioni – sono bravi e hanno alle spalle anni di teatro e gavetta. Da noi, a parte pocho attori, si pesca nei reality show -.-“
Commento del tutto O.T., ma vorrei sfatare un pregiudizio. Non è vero che la cucina inglese fa schifo o che si mangi male – se non altro perché la loro società multiculturale consente loro di importare senza ritegno piatti delle cucine di tutto il mondo. In UK ho mangiato il miglior sushi di sempre (battuto solo da quello cucinato da giapponesi veri), ottimi piatti indiani e libanesi, ma anche piatti tradizionali rivisitati e ripensati (ricordo bene una ‘surprise carrot cake’ da urlo, che era di fatto preparata con la barbabietola, insalate di mango e crostacei, il pesce fresco delle channel islands – oltre che le ottime tazze di té, chiaro). Marks & Spencer, una semplice catena di supermercati, vende cibi preparati si’, ma con un approccio fusion che noi ce lo sognamo – e vendono l’hummous già pronto (un OTTIMO hummous già pronto, per inciso), a volte anche in pratiche porzioncine con bastoncini di carote e sedano, mentre in Italia devo piangere greco per trovare anche solo il tahini.
Gli inglesi hanno sicuramente alcune glorie nazionali, letterarie e non, uno spirito patriottico che a volte risulta imbarazzante (tutte quelle tazze-regalo di William e Kate ne sono la prova) ma sono anche in grado, culturalmente e gastronomicamente, di riprendere, adattare e a volte persino migliorare cio’ che di buono arriva dalle altre culture e dalle loro semplici tradizioni.
Io, questa caratteristica, non la disprezzerei troppo…
non è un caso che quando si parla di eccellenza del servizio pubblico sempre si finisce per citare la BBC. cos’ha di diverso l’emittente inglese dalle altre emittenti? rispetta le regole. che c’entrano le regole con la produzione televisiva, sia pur essa fiction? c’entrano. i prodotti televisivi di buona qualità, addirittura “artistici”, in certi casi, sono realizzati dai produttori indipendenti che lavorano assieme agli sceneggiatori, agli attori e ai registi in libertà. non sottomessi alle spinte suicide di dirigenti televisivi, obnubilati dalla necessità di far tornare i conti della politica o delle raccomandazioni, quando “commissionano” una fiction. il sistema produttivo è debole, non solo per l’opportunismo del dirigente di turno, ma anche per la voracità dell’ormai ex monopolista in tema di acquisizione dei diritti. è strano, perché in italia avviene il contrario di ciò che avviene in tutti gli altri paesi: le emittenti si tengono tutti i diritti delle opere che producono, depauperando le società di produzione che non patrimonializzano (olivetti? e chi è costui?) e non si rafforzano. e il pluralismo dell’offerta non c’è. e invece di scandalizzarci, sentiamo solo di revanchisti che vorrebbero riportare la produzione tutta all’interno, come fosse una proposta rivoluzionaria. le regole che le emittenti devono rispettare, primo. poi dei produttori forti, motivati, sperimentatori, capaci di esportare. poi i libri, gli scrittori, gli sceneggiatori, i registi, gli attori, le troupes, gli spettatori: è un sistema, che se gli tagli la testa, non cammina. e come mai, in un ventennio berlusconiano, siamo ancora al medioevo della tv? chissà…