Sono accadute molte cose in questi due giorni. Ne parlerò. Nel frattempo, come promesso, riporto l’articolo di Raffaella De Santis per Repubblica sui TQ, in attesa dei documenti dei medesimi.
Prova del nove per la generazione TQ. Il “movimento” formato da scrittori, editori, giornalisti e intellettuali “tra i trenta e quarant´anni” esce dalla lunga riunione che si è tenuta ieri a Roma, alla sala Arrigoni nel quartiere San Lorenzo, con un manifesto e dei documenti. La discussione è andata avanti fino a notte inoltrata: ottanta le presenze in sala e decine le persone collegate in rete. Giorgio Vasta e Alessandro Grazioli, tra i promotori della prima ora, hanno votato in streaming.
Per il gruppo “generazionale” nato lo scorso 29 aprile durante una riunione nella sede romana dell´editore Laterza è arrivata dunque la fase della concretezza. Il terzo atto, dopo il battesimo e l´incontro con gli occupanti del teatro Valle, è quello dell´approvazione di documenti sull´editoria, gli spazi pubblici e l´attività audiovisiva. Documenti che dovrebbero essere resi pubblici in giornata. La discussione nella sala è stata attenta ai particolari. Ci si è soffermati su cavilli del tipo: «È meglio parlare di lavoratori della conoscenza o della cultura?». O anche: «Si può denunciare il degrado dell´informazione o solo di certa informazione?». L´elaborazione linguistica è stata capillare.
“Intellettuali”, “impegno”, “etica”, “cultura”, sono le parole circolate durante il dibattito. «Siamo qui anche per chiederci se queste sono o meno categorie ancora valide» dice Andrea Cortellessa, che ha proposto di inserire nel documento sull´editoria un emendamento sull´antitrust: «Produzione, distribuzione e vendita non possono essere gestite dallo stesso soggetto». Ma può bastare? «No certo, sono tanti gli interventi possibili, tra cui quello di promuovere i libri di qualità». E qui evidentemente viene chiamata in causa la proposta di Marco Cassini, minimum fax, di “pubblicare meno, pubblicare meglio”.
«Non siamo un´avanguardia, ma persone che si occupano di cultura e cercano di trovare un codice etico per darsi dei principi di responsabilità», spiega Christian Raimo, animatore dei TQ fin dai primi passi. Qualche esempio? «Non si dovrebbero scrivere recensioni per un amico, non dovrebbero essere pubblicati libri brutti e bisognerebbe tornare a occuparsi di politica. Manca purtroppo una narrazione del presente. La verità è che non sempre sappiamo raccontare la realtà». Ma è l´anima “politica” ad infiammare i TQ. Il documento sugli “spazi pubblici” trasuda voglia di partecipazione. Voglia di occupare spazi culturali, non solo giornali o editoria, ma anche scuole, piazze, librerie. Qualcuno si è perso per strada, come Antonio Scurati e Mario Desiati. La “linea d´ombra” però è stata oltrepassata. Inizia un´altra fase.
beh – magarti ci ha delle lacune, magari si può dire quello liù puzzone, quell’altro si fa pippe inutili, a sti intellettuali, magari c’è tanto da fare e non basta – ma insomma, a me sembra una bella cosa.
Io condivido e ci sto dentro idealmente e anagraficamente.
Mi sembra un giusto slancio verso la concretezza, un rifiorire dopo le ceneri delle ideologie e del postmodernismo; è senza dubbio una bella cosa dopo i bluff culturali dell’armiamoci e partite, della sinistra dei salotti ormai alla deriva rispetto alla realtà popolare vera.
Condivido il voler ritornare (dopo trenta quarant’anni) ad un cultura che si sporca le mani con la storia, la politica e la morale, senza il giogo dell’ideologia e della militanza forsennata. Una cultura creativa e produttiva che ha fatto la pace col mercato con l’artigianato e con la gente, che pretende rispetto e giusta paga, mantenendo una lucida tensione verso l’opera e contro le ipocrisie del protagonismo e della politically correctness per interesse.
Non esisterà mai un movimento perfetto e, ancora una volta, nella piazzetta italia, chi si alza per indicare qualcosa verrà coperto di insulti da chi si pasce e crogiola nello status quo, però certo anche a me sembra proprio una bella cosa.
D.
“Voglia di occupare spazi culturali”
Detto da redattori di “Minimum fax” o di “Nuovi argomenti” fa veramente ridere. Ma non vi basta mai?
O forse l’egemonia sui luoghi privilegiati della Rete è ancora poco rispetto a un talk show in prima serata?
Scurati si è defilato. E’ perchè sta preparando “Officina-galassia” o perchè ha avuto un (tardivo) rigurgito di pudore?
La narrazione del presente c’è e sta bene. In altri lidi, naturalmente. (ma già, quella è monnezza 🙂 )
Ora, spero di interpretare il senso di molte cose che si sono dette ieri in quest’incontro che è durato fino alle due e mezzo di notte, che è stato straordinario per il livello di collaborazione e di qualità del dibattito; e che avrà una seconda sessione oggi. E provo a rispondere a Valter Binaghi, prevenendo possibili critiche in tal senso. Cosa è TQ starà scritto nei manifesti, che saranno pubblicati a breve. Gli articoli che stanno uscendo in questi giorni sono ovviamente straparziali, e spesso danno adito a molti fraintendimenti. Chi vorrà aderire ai manifesti perché si sente rappresentato da quelle idee, bene. TQ non è una setta, non è un circolo, non è un gruppo che si contrappone ad altri gruppi, non è una cricca, Santo Cielo. Speriamo di fare pressione e dibattito rispetto a delle questioni, a delle battaglie politiche e culturali, non per occupare posti! E quando qui si scrive di “occupare gli spazi”, per esempio, si intende, direi, occupare gli spazi nel senso della Sala Arrigoni occupata o del Teatro Valle occupato di varie altre possibili agorà, piuttosto che occupare le redazioni culturali di questo o quel giornale, di questo o quel premio, etc… Ma anche questo sarà esplicito nei documenti.
Narrazione del presente… mannaggia. Uno dice una cosa e subito diventa slogan… un po’ frainteso. Per me e per altri occorre una responsabilità anche nell’impegno a partecipare a un’elaborazione di un’immaginario collettivo, che non può essere delegato a un’informazione minzoliniana, per dire, o alle fiction televisive. C’è un paese percepito, e un paese reale. Siccome nel paese reale ci viviamo tutti, sarebbe bello capire come è fatto e come raccontarlo, tutto qui.
Secondo una statistica diffusa, gli italiani pensano che in Italia la percentuale di immigrati sia del 23%, mentre è del 7% circa. Distorsioni del genere nello sguardo sul mondo si può provare a correggerle o no? Non è una battaglia politica e culturale cruciale?
Si, ma cosa c’entra il familismo generazionale?
Christian: ci sono narrazioni di genere che raccontano il presente (e lo fanno in maniera forte, creativa e artisticamente valida) da anni. Se poi siccome si tratta di “monnezza” non la si vuole vedere, è un altro paio di maniche.
Non so se sono ammessi al dibattito anche coloro che hanno superato i limiti di età. Qualora, mi sembra che la proposta di Cortellessa non sia la soluzione definitiva, ma almeno è concreta. L’ideologia va bene, ma a piccole dosi. Come il vaccino. Persino Marx, alla fine di interminabili riunioni dove si disegnavano i piedini delle mosche, sbottava a dire: “sì vabbe?, ma mo’ s’arimboccamo le maniche e famo quarcheccosa de pratico o continuamo a sparasse le pippe?”. Magari lo dceva in tedesco, ma il senso era questo.
Pur avendola osservata finora solo a distanza, la discussione intrapresa è per me di grande interesse, per la qualità e la partecipazione che esprime e per le premesse da cui viene lanciata. “Fare pressione e dibattito rispetto a delle questioni, a delle battaglie politiche e culturali” in quanto “persone che si occupano di cultura e cercano di trovare un codice etico per darsi dei principi di responsabilità” sono premesse in cui mi riconosco pienamente e le critiche che ho esposto nella lettera aperta a Marco Cassini spero potranno contribuire al dibattito.
GL, non è una battaglia estetica, quella che si vuole portare avanti. È una battaglia per il pluralismo dello sguardo, attraverso per esempio la bibliodiversità, la tutela dell’indipendenza, etc…
Enrico, TQ ha come nucleo seminale una serie di persone della fascia 30-40. Si spera bene che ci siano tante persone di ogni fascia di età con cui si possano fare certe battaglie culturali e politiche.
Valter, te prego, non attaccarti alle parole. Che familismo generazionale? Tra qualche ora usciranno sti benedetti documenti, se ti piacciono certe idee e ti sembrano delle battaglie condivisibili, siamo contenti.
Christian: sinceramente a me sembra giusto una battaglia per avere un po’ di pubblicità, tutto qui. Bibliodiversità, indipendenza… parole molte belle e condivisibili, ma l’unico modo per conquistarsele (perchè sono cose che si devono conquistare, ahimè) sta nel costruire libri e narrazioni che funzionino. Il resto, per come la vedo io, è un bel gioco di ruolo in cui ognuno si costruisce la propria identità (che sia intellettuale, sbarazzina, accademica, seriosa, quel che vuoi tu) (non molto diversa da quella della pletora di autopubblicati che invece di voler scrivere vogliono aver scritto qualcosa per finire in libreria) pretendendo di essere presi sul serio.
va bene christian, aspiri all’appoggio esetrno come un vecchio governo della D.C.. Se mi convinci lo avrai 🙂
GL, come dice qualcuno più credibile di me, omnia munda mundis.
Libri belli, riviste interessanti, dibattiti culturali, convegni di qualità ne abbiamo fatti a piovere in questi anni.
Ora vorremmo occuparci un po’ più della struttura dell’industria culturale.
Se non ti convinceranno le proposte, pace.
Oggi De Michelis dichiara:
“il rischio che si annuncia all’orizzonte è quello della disintermediazione, ovvero di un mercato editoriale in cui gli autori propongono direttamente ai lettori le loro opere, oppure per il tramite di retailer come Amazon – che una tentazione del genere l’ha già manifestata chiaramente – saltando un anello della filiera, le case editrici, che in prospettiva sarebbero quindi destinate a scomparire..”
A parte i presenti che ci lavorano e ovviamente non ne sarebbero felici, qualcuno mi spiega perchè gli autori e i lettori dovrebbero vedere questa scomparsa delle case editrici come “un pericolo”?
Christian: nessuna voglia di fare polemica, ovviamente. Semplicemente dalla letteratura “non di genere” italiana non ho ancora trovato libri belli o stimolanti. Peggio: ho visto solo piccole furberie, comode poltroncine e ben poca narrazione del presente. Pace a te.
Eccotela tiè.
Arrivano subito i bastian contrari a dire che questa cosa già puzza e che alla fine puzza come il mondo che si cerca di cambiare. Guardatevi allo specchio e ammettete che attecchereste qualunque iniziativa perché vi piace così e via.
Il solito paesello dove tutti sono allenatori di calcio o partigiani del nulla.
Fate critiche serie e circostanziate anziché spingere con la solita cantilena in cui tutti i gatti di notte sono grigi.
La discussione è aperta, diventa una setta solo se chiudete i cancelli dal di fuori.
@g.l. scusa se mi intrometto, ma che vuol dire che non hai trovato libri non di genere belli o stimolanti?
D.
@ binaghi,
Walter non so se te ne sei accorto ma la cultura popolare è assente dalla rete, radio tre è un bene di nicchia incomprensibile ai più.
Se accendi la tv generalista sembra di vedere attraverso una macchina del tempo…
Quella enorme ciofeca delirante che è la tv generalista nutre le menti degli italiani il resto è aria fritta e se non si interagisce con i media veramente di massa allora non cambi nulla.
d.
Daniele: che quelli che ho letto (e ne ho letti parecchi) non mi hanno lasciato nulla. Vale più una virgola di Valerio Evangelisti di tutta la bibliografia “mainstream” degli ultimi vent’anni.
G.l.
La tua mi sembra un’opinione un po’ parziale e superficiale, come fai a distinguere una differenza di genere con una di qualità?
Se a te piace di più il giallo rispetto al romanzo esistenziale mica questo può essere una discriminante oggettiva sul valore del genere e men che mai delle singole opere…
Credo che il genere sia un linguaggio per parlare della vita, comunque, e certamente ci sono opere che affrontano il presente ma questo discorso si accompagna, permea e integra col TQ, dove lo vedi il conflitto?
Perché Carmilla on line non è una rivista di carta venduta in tutte le edicole e letta nei licei ed università ma solo un sito di nicchia con pochi lettori? Perché le rubriche fantastiche di Alessandra Daniele non sono patrimonio conosciute da tutti anziché da quei pochi che approdano su carmilla?
Anche questa è la riflessione del TQ secondo me.
Va bene creare delle riserve e dei rivoli alternativi ma poi il golem culturale va affrontato prima o poi e affrontato occhi negli occhi.
D.
@ Daniele M.
dire che carmilla è “un sito di nicchia con pochi lettori” è, dal punto di vista della quantità dei lettori, inesatto. Il che non vuol dire che quello che pubblichiamo su carmilla sia di qualità (solo) perché c’è la quantità dei lettori, né che un prodotto di nicchia non ha qualità solo perché non ci sono le masse a seguirlo (o viceversa: che la scarsa quantità sia una imprescindibile precondizione della qualità). Se carmilla fosse (com’era alle origini) una rivista fisica, non sarebbe quella che è: per la semplice ragione che nel fare carmilla cerchiamo una coerenza tra la forma della comunicazione (e dunque il fatto che quel che esce, esce on line, con possibilità di linkare, rivolgendosi a un pubblico che tende a frequentare la rete, ecc.) con il contenuto. Insomma, la forma del contenuto e del contenitore di carmilla non è una (auto)limitazione, né una privazione: almeno, non per noi.
@ valter binaghi,
(prima però bisogna precisare che il De Michelis in questione è Jacopo [editor della narrativa della Marsilio], non Gianni),
De Michelis (che – tra parentesi – è decisamente contrario alla proposta della decrescita editoriale) non parla di pericolo ma di rischio, e usa il grimaldello del rischio (della perdita di posti di lavoro) per sottoscrivere quanto detto da Ferrari (Gian Arturo, non Enzo buonanima).
Conviene parlare anche di questo, sì. Del ruolo di una casa editrice. Che è, principalmente, culturale. Una casa editrice è mediatrice tra un autore e il suo potenziale pubblico di lettori.
Potrei chiederti (se posso permettermi): perché devo mandare i miei figli a scuola? Perché devo affidarli a un insegnante? Non potrei mettergli dei libri in mano e lasciare che apprendano da soli?
A che servono i contadini? Non potrei coltivarmi da sola frutta e verdura?
Queste strade di ragionamento conducono inevitabilmente a un vicolo cieco, a mio parere.
Una casa editrice sceglie e aiuta un autore a “tirare fuori il meglio”.
Nessuno scrittore, nessuno, può ragionevolmente dire di essere in grado di scrivere un libro valido nella più completa solitudine. Parla con qualcuno dell’idea iniziale, con qualcun altro dei personaggi; ne fa leggere delle parti; si rivolge a consulenti o esperti se deve trattare di argomenti che non conosce. Per quanto la si voglia dipingere come un’attività solitaria, la scrittura è affollata di attori. Sono tutti necessari. Se ne manca qualcuno, il libro zoppica. E se alcuni di questi – invece di essere la nonna, lo zio, il vicino di casa – sono professionisti, abbastanza distaccati da dare pareri il più possibile oggettivi, perché no?
Perché lasciare autori e pubblico ad “affrontarsi” da soli?
Mi è capitato di fare la redazione di un testo, tanto tempo fa. L’autore, non abituato agli interventi, si è arrabbiato moltissimo, chiedendo di ripristinare il suo originale e riempiendo le bozze di insulti e improperi nei miei riguardi. Ma la volta seguente, ha chiesto che mi occupassi della redazione di un altro testo che doveva pubblicare con la stessa casa editrice. E ha seguito i miei suggerimenti.
Anche da queste interazioni nascono bei libri.
Jacopo De Michelis, invece, dice che, diminuendo le novità annuali, ci sarebbero meno traduzioni affidate, meno bozze da correggere, quindi i precari dell’editoria vedrebbero drasticamente peggiorare le loro condizioni.
Anche di questo conviene parlare. Perché forse è il momento di cominciare a pagare redattori, correttori di bozze, traduttori, non “a cartella”, non “a ore”. Come ho già avuto occasione di dire, poter lavorare con maggiore calma a un testo, consente di lavorarlo meglio, e di offrire un testo migliore ai lettori. I refusi, sempre più massicciamente presenti nei libri, sono “colpa” di tempi di lavorazione che dire stretti è poco…
ecco il link a proposito di Jacopo De Michelis
http://affaritaliani.libero.it/culturaspettacoli/amazon_gli_scenari_futuri_editoria_libraria250711.html
@girolamo
Carmilla è un esempio di contenuti di valore distanti dalla massa, a prescindere dai discorsi sulla coerenza di voi che la fate io vorrei che i contenuti significativi come questi arrivassero ad un pubblico di massa non mi sembra che ci sia qualcosa di male.
D.
Il problema è che si sta parlando dell’industria culturale come se fosse un mondo a sé, senza comprendere che è parte di un sistema che ha sue proprie dinamiche. E che non si può cambiare un ingranggio senza distruggere l’intero motore. Le buone intenzioni, i codici etici e i principi di responsabilità rishiano di essere presto travolti se il mutamento non è radicale, e investe l’intero sistema. Certo, anche le battaglie perse meritano di essere combattute.
Le cose mutano continuamente. Non siamo nel mercato libero? Ci sono milioni di lettori potenziali che non comprano alcun libro che potrebbero leggere altre cose senza danneggiare alcuna industria.
Ci sono milioni di ragazzi che potrebbero accedere ad una industria culturale alternativa senza scossoni per l’attuale.
Gli scrittori sono ben in grado di proporsi direttamente se l’editore non partecipa alla produzione, distribuzione e promozione dell’opera in modo capace.
Gli editori che non rappresentano un valore aggiunto si estingueranno, ma prima le proveranno di tutte per restare a galla, sopravviveranno solo quegli editori che avranno un vero progetto e un vero pubblico.
D.
@Danae
“Una casa editrice sceglie e aiuta un autore a “tirare fuori il meglio”.”
Questo si può dire di un buon editor (nel senso di revisore di testo), quando c’è e la casa editrice sceglie di utilizzarlo. Ma è roba che oggi possono permettersi solo i grossi e per libri che si sa già che venderanno molto (per l’autore già affermato o l’argomento). In generale è un costo che la maggior parte degli editori non si accolla più. Meglio sparare tanti titoli a casaccio, con scarsa cura e ridicoli investimenti (pubblicità zero e anticipi agli autori – spesso gli unici soldi che vedranno mai – ridotti al minimo, 500, 1000 euro) e poi sperare nella botta di culo. Se l’editore non è piccolo ma medio l’anticipo può arrivare a 3000 e la revisione del testo a una passata frettolosa un mese prima di andare in stampa.
@daniele marotta
potresti spiegarmi per quale motivo, secondo te, “contenuti di valore” risultano “distanti dalla massa”. Da chi sarebbe composto questo “pubblico di massa” al quale fai riferimento?
Dal mio punto di vista e per la mia (limitata) esperienza l’accesso a contenuti “di qualità” (altro termine di cui mi farebbe piacere conoscere i criteri attraverso cui verrebbe determinata) è tutt’altro che difficoltosa. Spesso e volentieri è la voglia di confrontarsi con questa massa critica che manca.
Sulla letteratura di genere concordo con G.L, ci sono molti autori che sono stati capaci di proporre una narrazione del presente che fosse capace di rompere l’immaginario collettivo eterodiretto dai mezzi di distrazione di massa (la narrazione minzoliniana a cui si faceva riferimento più sopra). Troppo spesso però sono stati considerati monnezza per ragioni varie (snobismo, spocchia, difficoltà a confrontarsi con una produzione che faceva riferimento a universi culturali e teorici distanti da quelli di una certa critica e accademia e via dicendo). Ora che certi discorsi e certe necessità appaiono evidenti si cerca di recuperare il terreno perso, ma pensare che ogni operazione di questo genere debba essere accolta con favore per il semplice fatto che ha luogo mi pare una forzatura…
Il mio ragionamento non era di gusto, ma di valore. Per il resto la penso come Flavio.
Se vogliamo fare un discorso industriale facciamolo, ma potrebbe essere pericoloso, visto che giocoforza si inizia col dire che uno scrittore “mainstream” che vende 500 – 1000 copie del suo libro (spesso supportato da giornali e siti “culturali”) ha più visibilità di un testo di narrativa di genere che ne fa 10000. E, aggiungo, ci sarebbe anche da chiedersi come mai lo scrittore mainstream sul prezzo di copertina guadagna percentualmente molto di più rispetto a uno di genere.
Aggiungo:
“Una casa editrice sceglie e aiuta un autore a “tirare fuori il meglio”.”
Mi sa che Danae non ha mai avuto a che fare con un editore 🙂
Ehm, GL, Danae lavora in una casa editrice, da quanto intuisco. Per il resto sono d’accordo sull’indifferenza del mainstream ad altri filoni.
Daniele Marotta: vedo che sei nella fase “esuberante”. Però, onestamente, l’affermazione su Carmilla è priva di senso.
Stiamo a posto 🙂
Io sarò anche nella fase “esuberante” come mi ricorda gentilmente Loredana Lipperini, ma la gente della strada non conosce Carmilla on line, come non conosce Lipperatura, non so vogliamo provare di fare un giro al supermercato e chiedere quanti leggono gli articoli di carmilla on line o i post qui?
Mi sembra che TQ si interessi anche a questo baratro che c’è tra gli italiani e la cultura ma forse non ho capito io.
Io vorrei che si fruisse più una realtà culturale come queste piuttosto che quelle che propinano i mezzi di comunicazione di massa, se però ve la prendete non lo dico…
.d
@daniele
nessuno se la prende, ma penso che nel tuo discorso ci siano delle semplificazioni troppo radicali.
Come cantavano i Jam: “the public wants what the public gets”, frase che esprime il un punto di vista da cui si sostiene che esiste una vasta fascia di pubblico che non ha i mezzi soprattutto culturali per accedere al pensiero critico e si limita a recepire quello che i mezzi di comunicazione di massa (e anche su questo punto sarebbe giusto discutere) offrono senza nessuna capacità critica; ma anche “the public gets what the public wants”, che è il lato della medaglia troppo spesso ignorato quando si parla di industria culturale. Il pubblico, anche e soprattutto quello della strada, non è acefalo, esprime delle scelte che, ci piaccia o non ci piaccia, sono in buona parte consapevoli. Se non prendiamo atto di questo semplice dato di fatto continueremo a incorrere nell’errore di considerare l’uomo della strada un cervello vuoto o pieno di cose “sbagliate” da educare o riprogrammare (alla matrix per intenderci: pillola rossa o pillola blu).
Su questo tema mi pare che convergano gli spunti di girolamo e di G.L., entrambi interessati al rapporto tra forma e contenuto. Se vogliamo raggiungere “l’uomo della strada” è anche necessario trovare delle forme con cui veicolare determinati contenuti che possano incrociarne lo sguardo e solleticarne l’intelligenza. Troppo spesso, per i motivi che ho esposto fin troppo velocemente nel mio primo commento, autori che hanno tentato di lavorare in questa direzione sono stati marginalizzati in determinati ambienti (la monnezza a cui si riferisce G.L) ed in determinati dibattiti…
Flavio: ti devo una birra.
G.L. se non erro siamo concittadini, e una birra non si rifiuta mai 😉
“Se vogliamo raggiungere “l’uomo della strada” è anche necessario trovare delle forme con cui veicolare determinati contenuti che possano incrociarne lo sguardo e solleticarne l’intelligenza. ”
Vedi che diciamo la stessa cosa?
Le forme non sono solo le opere di genere e popolari su cui non ci piove e chi ancora ghettizza un opera per la sua forma anziché per la qualità dovrebbe smettere di scrivere e di parlare di arte e letteratura…
Ci sono anche altri modi e visioni per immaginare di sovvertire lo status quo della cultura in italia…
Io semplifico con degli esempi…
Gli scritti di Alessandra Daniele, su carmilla, il grande pubblico non li conosce eppure mezza italia li amerebbe se potesse accedervi, la stessa mezza italia che si sciroppa la spazzatura in televisione. Cito carmilla, ma potrei citare recensioni e commenti o opere e scritti o fumetti o filmati di decine di blog e siti.
TQ per me è anche un modo di pensare a un attacco frontale ai muri culturali da parte di una generazione come pensare che Lipperatura o Carmilla o altre realtà web possano essere un modello per la tv e cultura di massa del futuro.
Non so se è chiaro…
Il pubblico non ha quello che vuole, io credo che questa sia una bufala, come quando Maurizio Costanzo al suo show diceva che tanto la gente ha il telecomando per cambiare canale…
Se fosse così non si spenderebbero milioni in pubblicità…
Il pubblico bruca quello che gli capita perché ha una vita dura e poco tempo per rilassarsi, non è educato a cercare il piacere ma abituato a venire bombardato di cose a buon mercato e soprattutto vuole abitare la piazza del paese vedere i personaggi del momento, seguire l’attualità e la moda.
Il pubblico vuole condividere quello che la maggioranza fa per appartenere al proprio tempo, parlarne la mattina dopo in ufficio e sognare un sogno familiare per tutti.
Anche i cosiddetti colti sono uguali solo che cambia la piazza e il contenuto.
Internet in italia è usato dal 30% della popolazione, i lettori abituali di libri sono anche meno secondo me.
Esiste un paese considerevole che non legge nulla, mai, che non si informa mai e che mai attinge a altro che non sia tv. Il problema è della gente o della cultura? Vogliamo dire che questo non sarebbe un mercato e un pubblico per una cultura nuova in grado di diventare veramente popolare? Oppure va bene così? Va bene parlare di editoria in crisi o di letture quando i lettori sono meno degli scrittori? La cultura editoriale, artistica, museale in italia è una casta di pochi incapaci di raggiungere le persone e soddisfatti del proprio status quo, specialmente quando corrisponde ad un conto in banca sostanzioso e ad una solida rete politica di sostegno. Armiamoci e partite.
Il mondo della cultura italiana mi sembra la prova di una rivoluzione fallita e spesso ipocrita.
d.
Daniele,
ora capisco meglio il tuo discorso e ne condivido alcuni presupposti. Forse, chi si sporca le mani con la cultura ragiona e si scervella sempre e soltanto intorno ai problemi che stiamo discutendo qui.
Per parte mia ho smesso di cercare “algoritmi” per capire cosa vogliano o non vogliano gli interlocutori a cui mi rivolgo, quelli che mi piace pensare come il “mio” pubblico (faccio volontariato in uno sfigatissimo cineforum di provincia), piuttosto procedo per tentativi avendone in cambio sia delusioni che piacevoli sorprese
Detto questo, mi pare che tu veda in TQ l’opportunità per operare un cambiamento concreto. Spero sia così, ma, vuoi per deformazione personale, ignoranza, snobismo o pregiudizio, per parte mia ho diverse riserve di fronte a progetti di questo tipo.
Che in Italia, ad oggi, si senta l’esigenza di una cultura genuinamente popolare mi pare che sia indubbio, ma quanti intellettuali, compresi alcuni che fanno parte (si può dire?) di TQ, hanno realmente chiaro davanti agli occhi cosa comporta tenere fede ad una premessa come questa? Quanti sapranno rendersi conto di che cosa è già, qui ed ora, cultura popolare e che spesso ai loro occhi resta invisibile?
Come vedi ho poche certezze e molte domande, come anche tu, d’altronde.
rispondo solo ora, scusate…
@valter binaghi, sono d’accordo: è proprio questa la situazione che attualmente abbiamo in Italia (nella maggioranza dei casi). Per questo, non sarebbe meglio diminuire il numero delle novità sfornate ogni anno, in modo da seguirle meglio?
@G.L.,
sì, lavoro per una casa editrice 🙂
E comunque, cercavo di guardare a quello che una casa editrice potrebbe/dovrebbe essere. Se un editore non accompagna un libro e il suo autore, non è un editore. Su questo possiamo essere d’accordo?
@danae
Temo che l’abbattimento dei costi di produzione, a fronte di un aumento poco sensibile dei lettori, abbia creato una proliferazione di editori e di titoli forse poco adattabile alla ricerca di qualità. Da qui si esce solo differenziando il tipo di promozione, cioè restituendo a ciò che vale di più uno spessore diverso (ma gli uffici stampa, costano anche quelli e le recensioni non spostano vendite, specialmente quando gridano tutte al capolavoro). Quando ti senti dire dagli editors che “quest’anno si cerca la storia forte, che parli della realtà”, viene però anche il sospetto che i masters per l’editoria, da cuio questi editors TQ sono usciti, abbiano creato tanti signori Catalano. E infatti i libri tendono a somigliare tutti a tre-quattro tipologie ben riconoscibili.
Farne meno? Può essere, ma solo nel mainstream di qualità. Il lettore di genere ha una voracità diversa. Io d’estate mi rileggo un Maigret ogni due giorni, per dire. Credo che gli approcci dovrebbero essere più differenziati, e la professionalità delle redazioni orientata di conseguenza.
@ valter binaghi,
d’accordo su tutta la linea!
Dal mio punto di vista, fare meno libri significa cercare maggiore qualità, migliore retribuzione, lettori più soddisfatti…
@ Daniele
per avere un mondo in cui le masse leggono carmilla (e non solo, si spera) non bisogna cambiare la forma o il formato di carmilla: bisogna cambiare il mondo. D’altro canto, essere una web-zine che fa cultura d’opposizione comporta l’essere minoritario: il che, come Deleuze insegna, non è in alcun modo limitativo. E non solo per ragioni “politiche”: fare una rivista o un blog sul web, in quest’ultimo decennio, ha significato, almeno per un certo numero di esperienze, non un ripiego in attesa della rivista cartacea, ma una cosa diveersa dalla rivista o dalla terza pagina del quotidiano. Guarda solo al ruolo di custodi dell’ortodossia che hanno avuto, sulla carta stampata, certi soloni della critica letteraria ufficiale (e i/le loro alliev@ saltat@ direttamente dalla laurea ai sessant’anni d’ufficio), e al ruolo innovativo che invece ha avuto la rete.
Sono solo un lettore abbastanza forte,(15-20 libri al mese circa) non uno scrittore, editore o lavoratore della conoscenza (?)
Alcune frasi di questo articolo mi hanno colpito molto, in negativo.
“promuovere i libri di qualità”, “pubblicare meno, pubblicare meglio”, “non dovrebbero essere pubblicati libri brutti”.
Pronunciate da alcuni dei maggiori critici/ scrittori italiani mi hanno fatto venire il dubbio di non averne colto la profondità.
Mi sembrano banalie ove non lo fossero basate su un concetto elitario di cultura che non concepisco.
Parlare, oggi, di libri belli e brutti mi fa ancora pensare. Non dovrebbe essere pubblicato Moccia quindi?? in questo mondo? uno che vende molti libri? chi lo decide? ma sopratutto chi glielo dice a Feltrinelli?.
L’editoria forse sta morendo, forse no, ma non credo che fenomeni come questo, a naso perchè ancora non ne ho letto bene le istanze, le facciano del bene. Mi ricorda la storia dei cento autori del cinema, che chiedevano solo qualche soldo in più per fare i loro film…
Dopo quella del TQ, s’è svolta la riunione dedicata al T9, il movimento formato da scrittori, editori, giornalisti e intellettuali che si fanno comporre i testi dal cellulare. ”Tvb”, ”xkè”, ”omg”, e ”lol” sono le parole circolate durante il dibattito. ”Siamo qui anche per chiederci se queste siano o meno tariffe ancora valide” dice Andrea Pennellessa .”Non siamo un´avanguardia, ma persone che si occupano di cultura e cercano di trovare un codice etico per darsi dei principi di responsabilità” spiega Christian Rain Man, animatore dei T9 fin dai primi passi. Qualche esempio? ”Non si dovrebbero mai fare telefonate a un amico, e neanche a parenti, o a conoscenti. Solo agli sconosciuti, possibilmente nel cuore della notte”. Ma è l´anima ”politica” a infiammare i T9. Voglia di occupare spazi culturali, non solo giornali o editoria, ma anche librerie, birrerie, pizzerie, farmacie, e gioiellerie, possibilmente nel cuore della notte. Qualcuno s’è perso per strada, perché non aveva Google Maps. La ”zona d´ombra” però è stata oltrepassata. Adesso abbiamo quattro tacche.
Alessandra. 😀
Cinque alto per Alessandra
grandissima….
Un delizioso inedito x Lipperatura. Spero rimbalzi anche su Carmilla, vero?! :-))
Grazie per l’articolo.
Anche da Napoli (ma non solo per Napoli) è tempo di “movimento”. Movimento per la Creatività (www.movimentoperlacreativita.com), un movimento di lotta democratica dedicato alla creatività, l’innovazione e la cultura.
Prende spunto dal “Libro bianco sulla creatività” (Per un modello italiano di sviluppo) a cura di Walter Santagata e dal “Libro verde” (Le industrie culturali e creative, un potenziale da sfruttare) a cura della Commissione Europea.
Abbiamo scritto un manifesto e saremmo interessati a condividerlo con tutti. Sul nostro sito è possibile commentarlo, commentare e scrivere articoli e inviare proposte e azioni creative.
Grazie 🙂
@Anna Luisa
no, è un esclusiva per Lipperatura 🙂