COME ERAVAMO

Nelle molte vie di fuga intraprese durante il convegno di giovedì (in buona parte note ai frequentatori: ruolo dei blog nella conoscenza e diffusione di testi letterari editi e inediti, nonché nella discussione sulla scrittura, etc.), una mi ha colpito molto, anche se ha suscitato la reazione direi unanime di relatori e platea. E’ avvenuto dunque che  Francesco Forlani, dal pubblico, abbia osato non glorificare i piccoli editori sostenendo che in Italia si pubblicano troppi libri (e  ha perfettamente ragione: almeno, se penso a quei piccoli editori disposti a pubblicare davvero qualunque cosa pur di raggiungere un determinato numero di titoli entro l’anno). Non pago, effeeffe ha sostenuto che è ora di smetterla di raffigurare il mondo dei blog come l’assalto dal basso al castello: i blog, ha detto, sono essi stessi IL castello (e, secondo me, ha ragione anche in questo caso).

A proposito di piccoli editori e di castelli: la vostra eccetera legge con divertimento e ottimismo l’elogio dell’incoerenza reperibile nel blog di uno degli autori della già citata Scrittomisto.

A proposito di coerenza, incoerenza, salti mortali, eccetera. Sul Corriere della Sera di oggi, carrellata di giudizi critici d’epoca sui famigerati “cannibali”. Per nostalgici, filologi e (perché no?) maligni.

Sebastiano Vassalli , Corriere della Sera, 26 ottobre 1996
Sta nascendo una nuova generazione di scrittori, che nessuno ha allevato o favorito e che è necessaria, anzi indispensabile, per la buona salute della nostra letteratura, intossicata di buoni sentimenti e satura di buone opere (…). Leggendoli, viene voglia di incoraggiarli, di dirgli: mettetecela tutta! (…). Non abbiate paura di essere sgradevoli. Quasi sempre, le cose nuove e giuste all’inizio appaiono sgradevoli.

Filippo La Porta , Il Secolo XIX, 12 novembre 1996
Non basta inzeppare i propri racconti di repertori di articoli di consumo, di figure e oggetti familiari, come in un ipermercato o in una generosa trasmissione-contenitore (…), per ritenere di stare raccontando la contemporaneità. Occorre uno stile personale attraverso cui raccontare le cose, mentre l’impressione di molti di questi racconti è quella di un’imbarazzante assenza di stile.

Giulio Ferroni , L’Unità, 30 giugno 1997
Al di là (…) del talento di alcuni di questi giovani autori (…) io temo che questa letteratura sia insidiata da una vera e propria retorica di gruppo, da uno stucchevole nichilismo, da una pedestre mitologia della trasgressione: sotto le sue pretese provocatorie, essa non fa che sottoscrivere la caduta di ogni spazio etico, il dominio di una piatta insignificanza.

Cesare Cases , Il Sole 24 ore, 26 gennaio 1997
Gioventù cannibale segna lo spartiacque tra la letteratura cattivista come gioco verbale e come impegno serio: perché si capisce che la letteratura deve essere cattivista se vuol dire la verità.

Giuseppe Bonura , Avvenire, 16 settembre 1997
La verità è che i Cannibali, nel loro complesso, sono immersi fino al collo nella alienazione consumistica, e non possono distinguere il bene dal male, né tantomeno rappresentarne la dialettica. (…) L’estrema povertà della tematica e dello spessore stilistico dei Cannibali deriva dal loro essere ciechi da un occhio (ma con l’altro, quello giovanilistico, ci vedono benissimo).

Romano Luperini , L’Indice, 10 marzo 1997
Il cannibalismo non è che il semplice riflesso negativo del buonismo televisivo e letterario: l’immediatezza del sangue, dello stupro, del sesso al posto di quella del cuore e dei sentimenti. Ma tutto, comunque, ben plastificato e confezionato in produzione standard.

Massimo Onofri , L’Unità, 9 aprile 1997
Quelle anime che sembrano risciacquate nella candeggina finiscono per lasciare il posto a uno scrosciante fiume di sangue che, però, si potrà facilmente cancellare con uno spruzzo di scolorina.

29 pensieri su “COME ERAVAMO

  1. Scusa, Loredana, se approfitto di questo tuo post fresco fresco, per ripetere l’invito fatto qui ieri sera, che copincollo:
    “Approfitto per chiedere se qualcuno vuole scrivere sulla propria città o sul proprio paese, o su di un luogo che gli è particolarmente caro.
    In vibrisse c’è una sezione denominata “Giro d’Italia con vibrisse” che ha già percorso varie tappe.
    Se ne può avere un’idea andando qui:
    http://www.vibrissebollettino.net/archives/giro_ditalia/index.html
    L’articolo può essere inviato direttamente a: bartolomeo.dimonaco/chiocciola/tin.it, con allegate 3/4 foto possibilmente in jpg.
    Grazie.
    Bart”

  2. Perché Forlani non ha parlato dei libri assolutamente inutili buttati lì a mo’ di chi più ne ha più ne metta da editori di grido? Se Forlani avesse la minima idea di quanto costi ad un piccolo editore un libro… si renderebbe benissimo conto che uno sbaglio spesso significa chiudere…

  3. magnifico degustare i giudizi critici d’ananta. In effetti lo dico sempre (o, almeno, lo dirò d’ora in poi), che le valutazioni critiche andrebbero lette DOPO i libri, e non prima, lasciandole affinare per qualche anno come i sigari cubani.
    Quanto a Forlani (che ho scoperto in loco essere EffeEffe, e un po’ mi ci specchio e moltiplico), ha poi precisato – altrimenti non lo giustificherei – che un piccolo editore è tale non per dimensioni ma per visione e sogno (parole mie, spero non tropoo distanti dal vero); con ciò potendo essere piccolo anche un grande editore.
    L’immagine del blo, che E’ il Castello, questo sì, questo ha ammaliato anche me.

  4. La chiosa di Effe a quanto riportato di Effeeffe è indispensabile per comprendere, in effetti, il senso dell’intervento. Però, Andrea, siamo franchi: lo status di piccolo editore non rende automaticamente buoni e giusti. Per tanti, tantissimi, che fanno un ottimo lavoro rischiando le penne, ce ne sono altri che arraffano autori che non andrebbero incoraggiati pur di pubblicare. Diciamocelo, una buona volta: oltre a ribadire che gli autori da scoraggiare sono, ovviamente, anche presso le grandi case editrici.

  5. Innanzitutto ringrazio Loredana per la citazione.
    Secondo. Carissimo Andrea, personalmente pubblico la mia rivista da un piccolo editore e per nulla al mondo mi augurerei il suo fallimento. Terzo. In Italia si legge pochissimo e , in proporzione, si pubblica tantissimo. Quattro. Come disse un amico poeta, quello che rende felice un piccolo editore non è tanto il proprio “successo” personale, un’opera che funzioni,la scoperta di un autore, quanto il fallimento dell’editore concorrente. I piccoli editori si spartiscono fette e quartieri di città come bande rapaci. 5) La frase (sentence) che Loredana riporta vale, ovviamente, caro Andrea, per le cazzate che pubblicano i grandi editori, A tale proposito e a rischio di compiere una capriola semantica, aggiungerei che allo statuto di piccolo editore possono accedere anche i grandi editori quando, ed è spesso il caso, si fanno gestire(non più dirigere) da specialisti in marketing e finanza.6) Si parli allora di editori piccoli (di taglia, di potere, di titoli pubblicati) e di editori grandi. 7) I piccoli editori spesso battono cassa con interesse mercantile e commerciale peggio dei grandi editori, obbligando autori naif e benestanti a sborsare dinè per assicurare il rischio.8)I piccoli editori sono quelli che in assoluto, vivono come momento di gloria più il fatto di aver rifiutato un manoscritto che di averlo pubblicato.9) I piccoli editori non si battono per le proprie opere, soprattutto quando sono rientrati con le spese e allora nell’ottanta per cento delle presentazioni fatte dai piccoli editori troverete il buffet, qualche invitato, ma mai (o quasi) i libri, che per uno strano mistero delle poste italiane non arrivano a destinazione.10) il piccolo editore è quello che in assoluto paga peggio i propri collaboratori (se li paga) e che predica purezza da una parte e dall’altra deve pur fare i conti. 11) Per concludere, riporterei quanto detto da una mia amica al marchè (mercato) della poesia a Parigi. Mi disse, vedi, l’ottanta per cento delle opere che sono qui sono ringard (che puzzano di vecchio)inutili. Il venti per cento è poesia pura. Io mi chiedo. Dobbiamo per forza alimentare quell’ottanta per cento? Scusate per la lunghezza.
    effeffe
    ps
    all’incontro si ono dette molte cose intressanti e qui umilmente ringrazio la Lippa

  6. Ero al convegno. Mi è sembrato che Francesco Forlani abbia detto che “i piccoli editori ingolfano le librerie e riempiono le vetrine”. Prima però di specificare un diverso concetto di “grande/piccolo” già reso pubblico, da tempo, da Baraghini (Stampa Alternativa). Prescindendo dalle opinioni personali, e dalla sensazione che il suo intervento sia stato dettato da un notevole gusto per la provocazione, meglio molti libri ma non pubblicati a pagamento.

  7. Carissima Annarita,dal mio amico piccolo grande libraio (e piccolo editore) dante e Descartes c’è una litografia bellissima. Vi è raffigurato Gianbattista Vico che quasi nascondendosi nell’oscurità bussa alla porta di un rigattiere per vendersi un orologio per pagarsi la pubblicazione della Scienza Nuova. Grandi capolavori della nostra letteratura sono stati pubblicati a pagamento. Il paradigma “denaro” non ci dice nulla del valore letterario di un’opera. Che si pubblichi troppo è un dato di fatto, mi dispiace. Soprattutto per i librai.
    effeffe

  8. Per evitare che i libri editi eccedano la domanda si potrebbe incrementare la voglia delle persone di leggere (sulla questione “si pubblicano troppi libri” tuttavia sono possibilista). Diverso è il caso dell’editoria a pagamento. Ai tempi di internet, blog, fiere e festival, con un po’ di talento e fortuna un editore si trova. Senza pagare.

  9. Ma sai, Annarita, non è solo questione del rapporto fra numero di libri e numero di lettori: io resto dell’utopistica convinzione che un editore degno di questo nome, piccolo o grande o medio, debba avere un progetto e non, semplicemente, approfittare dei sogni, del narcisismo o, quando va bene e quando c’è, del talento effettivo di chi scrive. Altrimenti, ben vengano tutti i supporti altri dalla carta: dove è almeno possibile trovare chi scrive per il piacere di farlo e di condividerlo, e non solo per avere un codice ISBN.

  10. Comincio col dare ragione a chi ce l’ha: a Loredana Lipperini quando dice che non è l’essere “piccoli” a renderci “duri e puri” . Verissimo.
    Siccome sono anch’io piccolo editore mi sento un pochino offeso però da certa faciloneria di Forlani: “i piccoli editori non si battono per le proprie opere, soprattutto quando sono rientrati con le spese e allora nell’ottanta per cento delle presentazioni fatte dai piccoli editori troverete il buffet, qualche invitato, ma mai (o quasi) i libri, che per uno strano mistero delle poste italiane non arrivano a destinazione. Oppure che “I piccoli editori spesso battono cassa con interesse mercantile e commerciale peggio dei grandi editori, obbligando autori naif e benestanti a sborsare dinè per assicurare il rischio.” Ancora sobbalzo letteralmente quando: “I piccoli editori si spartiscono fette e quartieri di città come bande rapaci.”
    Mi chiedo se viviamo due realtà diverse o se noialtri finiremo giù dalla ghirlandina come quell’editore modenese che vedeva l’editoria come una missione. A Forlani domando se per caso Mondadori è nato “grande” e nel caso in cui la risposta sia negativa, come ha fatto a diventarlo?
    Premetto una cosa: che è in atto una rivoluzione ben più grave nel mondo dell’editoria e che quindi stare qui a discettare su cosa sia “piccolo editore” e cosa no è una perdita di tempo. La rivoluzione di cui parlo è una rivoluzione tecnologica imminente e ben più grave, che libera addirittura l’autore dall’editore. Come già avviene in america il mercato si prepara al self-pubblishing anche in Italia. L’autore-editore-di-se-stesso è la nuova frontiera. Una frontiera che i baldi dirigenti delle stamperie digital-industriali stanno già cavalcando a dovere. Alla faccia di tutti i giovani che come noi, romanticamente, sognano e inseguono libri di qualità, frequentando corsi, lavorando con gli autori sui testi, facendo le copertine, i siti internet, la correzione delle bozze, la distribuzione, il conto delle tredicesime da regalare, l’organizzazione delle presentazioni, la stampa degli inviti, l’aggiornamento dei siti, la firma sulle cianografiche, l’invio delle copie omaggio e pure la spesa alla Coop il giorno prima del lieto evento. Caro Forlani le assicuro che ce ne sono tanti di Übermensch-belasco in italia. E non tutti pubblicano cazzate. E’ gente che magari non partecipa a convegni per elargire sentenze sui mali della piccola editoria ma che c’è. Gente che si sobbarca le occhiaie sperando che il mondo prima o poi comincia a girare per il verso giusto e che il mercato sia veramente aperto a tutti. Questi sogni hanno tutto il diritto di crescere o quanto meno di essere inseguiti non trova? Chi è lei per vietarlo?
    Con ordine:
    Il fatto che anche un editore “grande” possa fare cilecca, lo si vede con Melissa P. Ma un libro-cagata, quando hai venduto un milione e mezzo di copie con un altro libro-cagata, non fa differenza. Tanto, per quanto male, avrai venduto sempre di più rispetto ad un libro-non-cagata edito dalla Tizio Caio edizioni. Mentre per il piccolo editore, perdere un colpo, significa chiudere. Ecco forse perché battersi per la propria opera… a qualcuno può risultare non immediatamente automatico. Ma questo è un lavoro più di altri, di rischio… bisogna avere un po’ la sfera magica, profetizzare… Pensiamo a Huttington. Boom! Lo consideravano un pazzo…
    Bisogna distinguere poi i modelli che i piccoli editori inseguono. Io mi commuovo quando prendo in mano un libro del Vanni Scheiwiller di “All’insegn del pesce d’oro”.
    Ma se io pubblicassi il diario segreto di Peter North forse venderei più copie. Un libro pieno di immagini e suggerimenti su come aumentare le dimensioni del proprio pene con una ginnastica naturale e con i consigli di un pornodivo di grido. Venderei forse milioni di copie se riuscissi a imporlo in vetrina con un fascetta del tipo “la soluzione a tutti i tuoi problemi – 10 edizioni e 100.000.000 copie in sette giorni”. Ma mi frega nulla di diventarlo, sto bene anche squattrinato, perché la mia più grande soddisfazione è vedere il mio lettore fuggire per qualche ora da questa realtà Mulino-Bianco dove col tesserino delle edizioni X ti regalano la pila-cassetto ripiena di cacciaviti e lucine colorate.
    Se anche i piccoli editori pubblicano libri osceni è perché, osservando attentamente i loro fratelli “maggiori” si fanno l’idea che bastino due accenni all’ermeneutica del pompino o le barzellette di totti per fare miliardi a palate. Il modello viene dall’alto. Vi siete mai chiesti perché continuino a proliferare case editrici di gioavni? Perché il modello imposto da chi “vende” è quello del piccolo editore che dal nulla fa soldi a palate. Comunque queste sono opinioni mie: mentre interessante e circostanziato è il saggio di Schiffrin “Il controllo della parola”.
    Sulle presentazioni-spuntino:
    L’altra sera i miei colleghi hanno presentato a Bologna in uno splendido show-room di mobili l’opera di due fratelli scrittori. Il banco era pieno dei libri di entrambi gli autori, c’era un rinfresco, si sono fatte letture, si sono stampati inviti e ci si è divertiti. E’ stata una bella serata e bere un goccio di vino, mangiarsi qualche ciambella tra una lettura e l’altra non lo vedo come un attentato all’editoria nazionale di qualità, piuttosto come un segno di rispetto nei confronti degli autori, dei loro invitati, di chi ci ha ospitati dandoci la possibilità di far conoscere le nostre opere. Un piccolo editore, che altro modo ha di farsi conoscere se non seguendo la via dell’immagine? Negli ultimi anni mi sono fatto parecchi amici piccoli editori ma presentazioni senza libri non ne ho mai viste. Anzi, mi è capitato solo di vedere “grandi presentazioni” senza libri perché al distributore tirava il culo fare un cinque % di sconto in più e nel braccio di ferro imposto dal raggiungimento degli obbiettivi aziendali a rimetterci è sempre e solo il lettore. Il libro non si compra come si fa con due chili di trippa. E’ vero non tutti ragionano allo stesso modo ma la presentazione la vivo come l’unico modo per impormi al di là dello scaffale di ultima dove sono relegato per colpa di un libraio pigro o tartassato dai telemarketing di certe multinazionali dell’inchiostro colato casualmente sul foglio.
    Dietro un opera editoriale però, se ci si crede, ci vuole un progetto, va studiato il mix migliore di tecnologie per stamparlo e promuoverlo: in questo Forlani un po’ di ragione ce l’hai. Noi per esempio stampiamo le sovracoperte in offset in gran numero e i libri in digitale in modo tale da non rimanere mai senza e da ottimizzare i costi. Ma per capirlo ci sono voluti tre anni e un lavoro immenso.
    I collaboratori dei piccoli editori sono mal pagati? Forlani lei ha mai provato a chiedersi cosa guadagna un piccolo editore? Vuole che facciamo due conti? Ci abbiamo messo quattro anni a capirlo. In questi quattro anni abbiamo pubblicato solo storia locale perché la prima cosa, per dei giovani che decidono di fare editoria è di non farsi fregare. La presentazione è per quel che mi riguarda uno dei pochi momenti di lucro a fronte di copie che – veramente – vengono risucchiate dalle poste e di copie omaggio spedite a giornalisti (anche qui con le debite eccezioni) che non avranno mai fisicamente il tempo di leggerli perché tartassati dalle telefonate degli uffici stampa organizzati alla con efficienza di timing e scientificità maniacale.
    B) A Pavia, da quando un nostro libro è apparso sugli scaffali non mi è mai capitato di dividermi il quartiere o mo’ di yakuza. Forse vivo in un isola felice… forse mi sbaglio. Certo quando vedo Effigie che esce con un libro su Pasolini che diventa un successo forse mi dico:«Accidenti che bravo Giovannetti». Ma ho stima di lui e lo seguo come modello. Pulp è una rivista pavese. Anch’io vorrei fare una rivista del genere ma non ci provo: ci sono loro, sono bravissimi e un po’ giro soddisfatto per il corso quando penso cha a Pavia è nata una rivista così.
    Ma un editore locale che lotta per il quartiere mi sembra un immagine anni ’80. I piccoli editori che sopravvivono hanno i loro affezionati lettori e sono complici più spesso di quanto non lo si noti. D’altronde quasi tutti hanno una libreria e sono sulla stessa identica barca. Inoltre c’è la stima in alcuni casi. In alcuni altri il rispetto.
    Io per esempio ho stima di tutti coloro che fanno storia locale con passione, qualità e spesso da soli lottano contro amministrazioni che altro che battere cassa…
    C) Sottopagare? Sfruttare? E chi può mai assumere? I collaboratori dei piccoli editori sono mal pagati? Forlani lei ha mai provato a chiedersi cosa guadagna un piccolo editore? Vuole che facciamo due conti? Se ci fossero meno libri-monnezza e più qualità forse potrei assumere anch’io. Ecco perché mi incazzo tutti i mesi quando il Piemme-direct plana misteriosamente nella mia buchetta delle lettere offrendo santini dipinti a mano, rosari all’ultimo grido e magliette con scritto sopra Totus tuus. Ecco, mi incazzo quando vedo di fianco a “Cinque minuti con Dio” (titolo che sembra un film di Jim Carry) “Leggere i tarocchi”. Se quelli sono i grandi editori…
    Pazienza carlo Forlani… se avrà ragione lei, e tra qualche anni dovessi finire a inscatolare carne all’Inalca, sappia che le riconoscerò di aver avuto ragione e farò tesoro di queste sue perle di saggezza. D’altro lavorero meno e forse non sarò sottopgato. Ma fino ad allora, mi lasci qui a crogiolare nella nel mio brodo di parole e di manoscritti da raddrizzare come le gambe dei cani.

  11. Abbiamo, noi de L’emergente sgomita, cercato di rendere cartacea la nostra rivista. Devo dire che almeno 2 piccoli editori si erano mostrati interessati al progetto, e sembravano entusiasti. poi, tolto il velo, l’amaro. In ogni modo cercavano di trarre profitto (legittimo) dalla rivista: volevano inserire concorsi A pagamento, libriccini a pagamento, e varie ed eventuali ( a pagamento!). LA rivista per gli emergenti diventava cara e spinosa. Abbiamo deciso, per ora, di continuare in rete. Qualche sponsor ci ha dato la possibilità di stampare 1000 copie, per farle girare agli addetti ai lavori. Meglio, così, probabilmente.
    Hap Collins (alias Andrea)

  12. Difetti e peccati ce ne sono tanto nella grande editoria (editor neanche-trentenni che valutano manoscritti e che prendono due soldi magari di 6 mesi in 6 mesi; disinteresse a scoprire; monopolio distributivo eccetera) quanto nella piccola (il peggiore: pubblicare tanto, senza motivo).
    ma tanto nella grande quanto in quella piccola ci sono spazi: più in quella piccola, direi.
    spazi dove vedo gente motivata a fare bene il proprio lavoro a prescindere dai soldi.
    sembra una barzelletta, ma non lo è.
    dal punto di vista di chi scrive aggiungo un’altra inezia: preferisco il piccolo editore. ci mette l’anima.
    buona.

  13. Carissimo Andrea,
    io spero di non avere affatto ragione nel caso specifico da te evocato, ovvero dell’esistenza di un progetto e di un suo fallimento. Solo (sottolineato) un progetto editoriale che abbia in sè una qualche necessità altra da quella narcisistica dei suoi autori, immersa nel tempo presente, disposto ad accogliere stili e comportamenti, a far dialogare generazioni e culture altrimenti distanti rende un editore grande.
    R I S C H I A R E. Ecco una èparola bandita dall’industria culturale (che intanto avanza macinando tutto).Quando Altan, kundera, Arrabal, Munoz,Khadra, ci hanno dato (alla mia rivista Sud – editore dante e descartes) i loro contributi gratis, dire gratis non sarebbe esatto. loro pagavano perchè tale progetto esistesse. Solo attraverso queste considerazioni è possibile capire il mio intervento. E anche il mio disagio a fronte di una situazione che è aberrante. Piccoli editori fondamentali? Piero Manni. Devo continuare?
    effeffe

  14. Caro Effeffe,
    credo che la verità l’abbia detta remo bassini: nessuno è perfetto. Ogni realtà ha io suoi difetti e difettucci. Però Remo ne dice un altra: il piccolo editore ci mette l’anima. Ecco: io mi ci riconosco. Ci metto l’anima. E sono uno che ha rischiato e che rischia.
    Ma se la tecnologia ti aiuta è giusto farsi aiutare no? Più che altro secondo me non è tanto questione di richio ma di – appunto – vivere il libro con l’anima. La grafica, la carta, sono cose che esaltano il contenuto. Credere in un libro, anche se non sai se venderà è anche questo: curarlo, crescerlo, accompagnarlo. Non solo stamparne migliaia di copie.

  15. Andrea, il punto è proprio questo: qui si sostiene semplicemente che la fede in quel che si pubblica non è automatica. Avercene.

  16. Beh si sosteneva anche che i piccoli editori sottopagano e che fanno presentazioni senza libri, che intasano le librerie di libracci e quant’altro.
    Anche l’avere fede però, Loredana, non è automaticamente fare bei libri.

  17. “Lo sai, anch’io sono stato autore per molti anni. Oggi mi vedi così sereno perché non lo sono più. E ora ti racconterò i motivi della mia liberazione. Ascolta, mio caro! Agli inizi del mio scrivere scoprii il mondo che era in me come un’attendibile serie d’immagini che mi bastava soltanto guardare e descrivere una dopo l’altra. Ma con il tempo la chiarezza dei contorni si offuscò. e al mio guardare dentro di me fu necesario aggiungere un ascoltare.”
    Peter Handke,Pomeriggio di uno scrittore, Guanda.
    caro Andrea e se provassimo a sostituire alla parola autore quella di editore?
    effeffe

  18. Succederebbe quello che già succede quando entro in certe librerie (sempre di più) dove gli scaffali sono organizzati per editore. Il razzismo della fascetta. Succede per esempio in una libreria del pieno centro di Pavia. Qualche tempo fa andai a chiedere un libro di Sironi editore e mi dissero di spostarmi nel reparto piccoli editori. Il reparto era uno scaffale striminzito dove il libro che cercavo stava in tripla fila atrofizzato. Ora: Sironi non è sicuramente Einaudi…
    Ma mi sono chiesto lo stesso che sia giusto lobbizzare la letteratura… Emporio grandi marche! Dai, bell’editoria… Non c’è differenza per me tra un romanzo bello pubblicato da Einaudi e uno bello pubblicato da Pequod eppure che probabilità ho in una libreria-emporio di notare un libro pequod?
    Se continuiamo a scoraggiare i giovani dal fare editoria… la situazione non può che peggiorare.
    Ecco, Forlani, la verità in cui credo io è questa:
    “Una fine del mondo priva di aspetti trascendentali, metafisici, senza la potente luce che da essi promana e annienta la paura: ecco un immagine ben triste. Essa sorge da un epoca di impoverimento, da una fantasia già atrofizzata. Se non ci fermeremo a dipingere gli orrori, ma riusciremo a vedere nel confronto diretto con essi una tappa del nostro cammino, potremo procedere oltre. In tal caso il singolo non sarà più l’uomo abbandonato a se stesso, debole voce tra milioni di voci, bensì arbitro di grandi decisioni purché diventi consapevole della propria libertà, la quale lo rende indipendente dalla storia e perfino dalle cose e dai loro vincoli. Egli allora terrà in pugno il mondo”.
    “Al muro del tempo – E.Junger – Adelphi”

  19. Il “razzismo della fascetta” somiglia tanto al “fascismo della razzetta”, però non credo sia così.
    Limito questo mio brevissimo intervento dell’ultimo commento di Andrea Nobili.
    Non credo che la scelta del libraio di mettere i “piccoli editori” tutti insieme e relegati in un angolo sia sintomo di razzismo.
    Credo sia semplicemente un sintomo di oculatezza verso il proprio investimento, cioè salvaguardia del proprio profitto. Non dimentichiamo che una libreria non è una biblioteca.
    Ma come? Dirà qualcuno, Alberto Giorgi paladino dei piccoli editori difende il grande mercato?
    Si e no.
    Su questo argomento, in questi giorni, sto preparando un piccolo articolo, tanto per tirare le somme sulla mia iniziativa a supporto delle piccole case editrici.
    Ci sarà da discutere.
    A presto!

  20. caro alberto giorgi
    (complimenti per la tua iniziativa: non ho ancora aderito, così, ma credo che lo farò), caro giorgi, dicevo, che un libraio dedichi una scaffale alla piccola editoria può essere positivo. lo è senz’altro. meglio di niente, in fondo. ma occorre vedere cosa c’è in questa sezione: piccola editoria e basta, quella buona? (basta un minimo di competenza) o un cocktail con piccoli editori + stampatori travestiti da editori che imputtaniscono il mercato e creano confusioni?
    penso tu sia d’accordo con me. ma non so i librai, alcuni, almeno

  21. Ciao Alberto. Non vedo l’ora di leggere il tuo articolo.Non per avvalorare la mia tesi (ipotesi)ma visto che esistono dati sull’editoria in Italia, qualcuno potrebbe dirci per esempio quanti libri vengono pubblicati all’anno in Italia? In percentuale dalle piccole e dalle grandi case editrici? Quanti romanzi un lettore tipo ne può leggere e quanti ne vengono pubblicati e realmente letti? Media nazionale, evidentemete. E soprattutto quanti no. Penso a Torga,a Muray,Rizzante ecc ecc
    effeffe

  22. @Remo: grazie. ti risponderò nell’articolo che sto preparando.
    @Francesco: io ce li ho, quei dati, quindi risponderò anche a te nell’articolo. credo sarà pronto la prossima settimana.
    ciao!

  23. La mia battuta era ovviamente una battuta. Ma il fascismo davvero esiste ed è qui: un piccolo editore non distribuito va caricato a gestionale in un certo modo, fattura da se, ti crea forse problemi nel riassortimento… e nella gestione dei resi, devi tenere d’occhio il catalogo… insomma ha problematiche di carattere operativo che vanno gestite: il razzismo spesso è tutto lì, una questione di inerzia e di scarsa formazione.
    Il libro di Sironi che cercavo prima nell’esempio però è distribuito da Messaggerie… e allora non ci sono più attenuanti

  24. Piero Manni?
    Piero Manni fa pagare i libri, non promuove e non è in libreria, cazzo, se è fondamentale lui stiamo freschi.

  25. Ma un po’ di rispetto per tutte le persone che ci lavorano dentro in piccole case editrici? No è? Chiedere troppo. Pazienza. Grazie a commenti come questi continueremo ad essere sottopagati e stressati… ma continueremo a metterci l’anima.
    Grazie di cuore per i giudizi equi e non stereotipati. Non si trova in libreria Manni? Fa bene. Si vende di più nei bar…

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