C’è una questione chiave nel racconto dell’adolescenza, ed è nel rapporto fra l’adolescente medesimo e il mondo che lo circonda. Ci sono adolescenti della letteratura che intendono cambiare la società degli adulti e altri, i più recenti soprattutto, che desiderano farne parte. Non è, credo, una differenza da poco. Sandro Veronesi ha scritto oggi per Repubblica questo articolo, che parte da Salinger.
Pensando a J. D. Salinger mi viene in mente una cosa che ha detto Diderot nei suoi diari: ognuno, ha detto Diderot, si costruisce una statua interiore, e lo fa nel momento peggiore della propria vita, l’adolescenza, quando non sa ancora nulla di sé né del mondo, e non ha la minima idea di come si costruisca una statua – e poi passa il resto dei suoi giorni a cercare di somigliarle. Se gli va bene arriva il momento in cui se ne rende conto e comincia a demolirla, ma è impossibile sbarazzarsene del tutto, ed è per questo che nessuno riesce mai a essere felice.
E’ un pensiero strano, per Diderot, ma mette a fuoco per la prima volta ciò che un secolo e mezzo dopo la psicanalisi si occuperà di dimostrare; soprattutto, è l’immagine della statua a colpire, così folgorante, così pesante, così diversa dalle amniotiche metafore freudiane. Conduce, quella statua, direttamente al concetto di un micidiale totalitarismo interiore, monumentale, per l’appunto, e intransigente, che si insedia proprio nell’età più innocente e continua a dominare sulle altre. E’ potente, quell’immagine; è felice: e mi viene sempre in mente pensando a J. D. Salinger. Mi sono domandato perché.
Ho trovato due risposte, buone tutt’e due, secondo me, anche se sono l’una la negazione dell’altra. La prima: perché Salinger, in fondo, non ha fatto altro che ritrarre gli esseri umani nel mo-mento in cui se la stanno costruendo, questa statua interiore. Tutti quei ragazzini infelici e rabbiosi, alle prese con quella furiosa esigenza di uscire dall’invisibilità che li avviluppa, di darsi un ruolo. In fondo è proprio quello, io credo, che Diderot intende per statua interiore: assegnarsi un ruolo nel mondo, quel ruolo, deciso una volta per tutte quando non si ha ancora idea di quale sia la commedia. La seconda ragione, però, ribalta la prima: pensando a Salinger mi viene in mente la statua interiore di Diderot perché le sue pagine contengono una carica sovversiva che tende a demolire ogni cosa consolidata, e rinfocola la speranza di cambiare il mondo dal di dentro. E’ la vecchia differenza che passa tra ribellione e sovversione. Personalmente non sono mai stato attratto dalla ribellione, mentre trovo la sovversione molto interessante. Significa piazzarsi nel cuore del sistema e da lì, senza uscirne, cominciare a bombardarlo. Significa sputare sul piatto in cui si mangia, e anche, se necessario, segare il ramo su cui si è appollaiati.
Be’, Salinger ha fatto questo. Ha sovvertito valori, sputato su piatti, segato rami, ha disorientato, indebolito e, alla fine, ha sconfitto un conformismo molto radicato nel suo paese – e questo non trangugiando droghe leggendarie e fottendosene della legge dalla mattina alla sera, ma raccontando sul New Yorker di ragazzini borghesi con problemi affettivi. E forse è il caso di tornare al tempo in cui l’ha fatto, per capire quante statue ha buttato giù. Prendiamo questo dialogo tra il fratello di Selena e Ginnie in Alla vigilia della guerra contro gli esquimesi: «- Senti. Le ho scritto otto porche lettere. Dico, otto. Non ha risposto nemmeno a una, che è una.
Ginnie esitò. – Be’, forse aveva da fare.
– Già, da fare. Daffare come una porca formica.
– Ma c’è proprio bisogno di dire tante parolacce? – chiese Ginnie. – Un bisogno porco».
Poi prendiamo un brano della stroncatura ai suoi libri, ap-parsa nel 1962 sulla Partisan Review a firma di Leslie Fielder: «Ci troviamo – comincio lentamente a capire – nel bel mezzo di una rivoluzione del gusto, di una radicale trasformazione del grande pubblico dei lettori americani… un pubblico formato per la maggior parte da adolescenti.
Controllando il mercato (si pensi che è soprattutto per arrivare a loro che nuove generazioni di editori, di loro poco più vecchi, hanno inventato e diffuso i nuovi e costosi paperback in veste tipografica rinnovata) essi controllano anche la moda. E la moda esige, al posto dei romanzieri adolescenti che per un motivo o per l’altro non vogliono comparire, gli Interpreti di Adolescenti, tra i quali potremmo annoverare…». “Rivoluzione”, “radicale trasformazione”, sono parole che il sistema non ha mai opposto a Lawrence Ferlinghetti o a Alexander Trocchi o a Hunter Thompson: quelli li combatteva più efficacemente arrestandoli. Salinger era più pericoloso di loro, perché era borghese, irreprensibile, vestito di Harris tweed, e sovversivo. E il suo talento soffiava così forte, ed era così prodigiosamente intriso del proprio Zeitgeist, e ne interpretava il bisogno di cambiamento con tale naturalezza, da generare nel gusto popolare quella rara ispirazione che ogni tanto fa veramente prevalere il meglio sul peggio, e produce un successo di proporzioni talmente colossali da risultare esso stesso una rivoluzione – e spazza via tutto ciò che gli si para davanti, statue interiori comprese.
beh, va proprio riconosciuto a Sandro Veronesi (che, correggetemi se sbaglio, è uno di quelli che interviene poco nel dibattito ma quando lo fa spariglia alla grande) di cogliere un aspetto centrale non solo della vita di ognuno di noi (ah, l’adolescenza) ma anche del vivere sociale. Bella immagine quella di sputare coraggiosamente nel piatto se quel che mangiamo non ci piace; bella l’idea di tagliare il ramo anche se ci siamo seduti sopra. Eterno dilemma se sovvertire da dentro o rivoluzionare da fuori: la sovversione mi sembra il tripudio della rivoluzione matura. Interessante, così riprenderò in mano un po’ di Salinger che mi dev’essere sfuggito parecchio.
grazie per questo post
direi che bisogna cambiare dentro, e prima di tutto noi come esseri umani
il mondo é la proiezione dei nostri pensieri, sia belli che brutti
si cambia da dentro e la rivoluzione é individuale prima di tutto, quella delle masse viene dopo, grazie ad un leader
abbracci
la frase di Diderot è folgorante. La maggior parte delle volte demolire la statua ci terrorizza al punto tale che si preferisce rimodellarla come si può, anche se il risultato non è mai armonioso, non può esserlo.
Non sempre nasce un Diderot o un Salinger…
Veronesi come critico non mi convince. La statua di Diderot è pochissimo adatta a rappresentare l’io interiore o quell’io che ci costruiamo nell’adoloscenza. Poi ancor peggio l’ingenuo segare il ramo…che tonfo il barone. Sovversione e ribellione. Chi taglia il ramo su cui sta, oltre a farsi male, lancia un segno di contraddizione al contesto. Chi sputa nel piatto si ribella. Il sovvertitore lavora per variare la collocazione sotto e sopra.
il primo articolo dedicato a Salinger dopo la sua morte che mi convince, almeno tra quelli che ho letto (sì può anche non essere d’accordo ma è un bell’articolo).
Non credo sia un caso se è uscito un po’ più tardi di altri interventi.
Arturo, puoi spiegare le perle di quest’articolo, è possibilissimo che mi siano sfuggite.
Nei due precedenti interventi “Anonimo” per non curanza non ho inserito il nome, non è una rettifica di grande importanza, ma scusate.
Dinosauro, puoi spiegare il senso dei tuoi commenti dato che è possibilissimo ci siano sfuggiti? Anzi, no, s’è capito benissimo: Veronesi è uno dei ‘nemici’ e tu hai tirato giù un po’ di frasi a casaccio ma ‘contro’, da bravo militante di partito in servizio attivo permanente…
Bravo Sandro, come sempre! Datore luci, e lumi, direi. Cara Loredana, lom scrivo in coda qui perché questo è un vecchio conto, rimasto aperto, col ‘nostro’. E adesso pubblico anche l’articolo (facendo copia&incolla) sul mio profilo FB e sul mio sito, che qui ho indicato. Per Salinger, per il suo Holden, e per tutti i suoi personaggi, disperati vitali e annoiati, guardinghi e mine vaganti, ho da sempre un debole, e anche per chi ne riconosce la carica esplosiva, aderendovi. DaniMat
Jack London scriveva che “l’adolescenza è l’epoca in cui l’esperienza la si conquista a morsi.”
Non condivido l’esaltazione di Salinger, ma l’articolo di Veronesi è ugualmente bello e importante perchè, intorno a quella citazione di Diderot, fa capire non tanto il segreto dell’adolescenza ma quello dell’infelicità degli adulti.
Non credo che la liberazione dal monomito creatosi nell’adolescenza abbia molto a che fare con la sovversione sociale (Sputare nel piatto, tagliare il ramo ecc) ma piuttosto con l’elaborazione del narcisismo originario.
La psicanalisi freudiana non ha saputo comprendere questo aspetto, fintanto che ha relegato il narcisismo in una sorta di preistoria della pulsione oggettuale. In questo senso, quella realizzata da Heinz Kohut con la psicologia del Sè è stata un’autentica rivoluzione più che una riforma. Se poi si vuole estendere il processo di crescita dall’individuo all’intera generazione l’autore chiave è Christopher Lasch.
Concordo sul fatto che sia l’omaggio a Salinger o anche la rilettura (parziale)del romanzo pù convincente tra quelle che ho potuto leggere dopo la sua scomparsa.
Il vecchio professore di Holden in un certo senso era diderotiano…Ma certo non era un adolescente (“L’eroe immaturo muore nobilmente per un ideale, quello maturo umilmente ci convive” – cito a braccio)