Con tutto quello che avviene, con tutte le ferite aperte che tutti noi abbiamo, nessuno escluso e certamente molti più di altri, rimpiangere la prima fine anno lontana da Serravalle è cosa piccola. Sono ormai troppo cresciuta per i riti e i desideri e gli auspici di Capodanno. Forse anche per i bilanci. Questo terribile anno, nonostante tutto, mi ha dato molto in ogni settore e mi ha anche strapazzata e stordita e ferita, e insieme mi ha dato la gratitudine perché un libro che ho amato scrivere viene amato da chi legge.
Ma mi manca quella che per me è casa, e so che non la rivedrò, con ogni probabilità, fino a primavera. Dunque, mi consolo ricordando: non è così che ci si inizia a sentire vecchi? Con i ricordi? Eppure, scrivere, dicono, è vincere la morte, o almeno illudersi di poterlo fare. Come penultima tappa dell’anno, quello che su Serravalle ho scritto, giusto sei anni fa, in Questo trenino a molla che si chiama il cuore.
Le cose passano, e se ci va proprio bene tornano perché sono circolari, come gli dei antichi e la lemniscàta di Bernoulli, e se questi luoghi sono già cambiati infinite volte, come tutti i luoghi, come le persone, raccontarli significa certo preservarli, ma in quel 1998 non si vuole neanche questo, perché avanti bisogna guardare e non indietro, e a fermare le cose che passano restano coloro che provano a fissarle nei ricordi come provo a fare io, a fermarle per sempre insieme ai sussidiari e i mottarelli e la risata di mio padre. Ma le cose sfuggono, sono già perdute, la casa di zia Elena sfondata nel centro, e poi ricostruita, e le roulottes portate via, e i container smantellati e le case dipinte coi colori di prima, con nuove tendine ricamate e i vasi di geranio, e i racconti dei paesani dei pacchi di soccorso che contenevano diciassette pigiami o venti paia di scarpe, e la storia di Celestino e Maria di Corgneto da cui arriva il papa, proprio papa Wojtila, e Celestino e Maria gli regalano un sacchetto di lenticchie.
In quell’estate del 1998 raccolgo tante storie così, che all’inizio ruotano attorno alle due scosse della notte e del giorno, e alla piazza che saltava e alle civette che cantavano, questo raccontano i miei vecchietti e quelli che conoscevano mio nonno e mia nonna e mio padre e le mie zie si fermano e dicono Oddio non finiva mai, e oddio le montagne si alzavano, e oddio non abbiamo più niente. Visito i piazzali con i moduli abitativi e le strade che si chiamano via del gatto, piazzale della tv, via degli scalini. Qualcuno mi fa ridere con la storia del frate che esce da un bagno chimico da sostituire e si ritrova a mezzo metro d’altezza. Qualcun altro parla della fila al campo base per mangiare e pisciare, quando c’erano ancora le tende. Poi tutto si normalizza, prende una piega di quotidianità, e la più stupita sono io che ritrovo i posti di quando ero cresciuta, e cerco di fare qualcosa, strappo un servizio al Venerdì, viene il fotografo, lo accompagno per frazioni segnando i punti sulla carta, Forcatura, Volperino, Cesi, Corgneto.
Perché in quel primo anno dopo il terremoto il confine nella terra dei confini diventa famoso, tutti arrivano con i palloni e i pigiami e le casette di legno, i quotidiani donano, gli imprenditori anche, e qualcuno fa erigere a Serravalle, accanto alla palestra di legno di Diego Della Valle, una cupola geodetica per convegni che nessuno sa come usare, e infine viene utilizzata per nascondere i palloni e le cianfrusaglie che sono arrivate in quei mesi e anni, perché insieme ai vestiti e al cibo arrivano le cose inutili, perché tutti hanno scoperto, grazie al terremoto, che questa non è solo terra di borghi e villici, ma che le Marche, anche nella zona che più di confine non si può, quella che si mischia con l’Umbria, sono luogo nobile, e che tutto nasce per volere degli dei.
In quel 1998 comincio, senza saperlo, a raccogliere materiale per raccontarle, e mi aggiro per riconoscere e ritrovare. Salgo dopo molti anni sul monte Igno che domina Serravalle e che diventa rosso sulla cima calva al tramonto, e c’è sempre il detto se il montigno mette lu cappello getta la vanga e apri l’ombrello, perché quando le nuvole lo coprono pioverà: l’ultima volta che sono stata qui, a guardare la Valle al tramonto, avevo una pentola legata allo zaino per cucinare gli spaghetti, e avevo quattordici anni. Ancora, cerco traccia del rigoglio sparito del Chienti, che attraversa la Valle ed entra nella Botte dei Varano. Conto le fonti, le nomino una per una. Fonte di Brogliano, Fonte Cagnolo, Fonte Casco, Fonte della Rocca di sopra, Fonte della Rocca di sotto, Fonte Valzacchera, Fonte delle Mattinate, Fonte li Coi, Fonte di Capriglia, Fonte della Romita, Fonte Minutella, Fonte Liquida, Fonte Salegri, Fonte Forno, Fonte della Mula, Fonte della Scarsa, Fonte Lailla, Fonte Pampanoni, Fonte capo Fossa, Fonte Formaccia, Fonte Vecchia, Fonte del Colle, Fonte Scentelle, la Fontanaccia, Fonte Sbrocconare, Fontanelle, Fonte di Sotto, Fonte Vecchia, la Verna, Fonte Corvigione, Fonte delle Tassete, Fonte Prata basse, Fonte delle Fàore, Fonte Sambuco, Fonte Riale, Fontuccia di Camporlo.