CONTENUTI EXTRA: THE TERROR DREAM

Su Repubblica, oggi, la vostra eccetera fa una piccola recensione al già citato saggio di Susan Faludi, The Terror Dream, in italiano Il sesso del terrore. Qui, la versione estesa dell’articolo.
La mattina dell’11 settembre, i telefoni squillano in tutto il mondo. Anche a casa di Susan Faludi, scrittrice e femminista americana, premio Pulitzer 1991, autrice del best-seller Contrattacco. La guerra non dichiarata contro le donne. Quel giorno, però, il reporter che le chiede un commento a caldo, conclude l’intervista con un’affermazione che di imparziale ha ben poco: “Di certo, questo cancellerà il femminismo dalla faccia della terra”. Non è esattamente quel che è avvenuto: ma dopo l’attentato alle Torri gemelle l’immaginario americano si è rivolto con forza – e, si suppone, non senza sollievo – a mitologie che sembravano abbandonate: la virilità trionfante e la femminilità sottomessa.
Non è una tesi di parte. E’ il risultato della lunga, affilata, necessaria indagine che la scrittrice compie ne Il sesso del terrore, titolo italiano di The Terror Dream, che esce oggi per Isbn Edizioni (pagg. 407, euro 23,00, traduzione di Elisabetta Nifosi), sulla scia di un’accoglienza americana divisa fra entusiasmo e polemiche. Il New York Times, per esempio, ha dedicato al saggio due recensioni di segno opposto: nella prima, Faludi viene accusata di arroganza, nella seconda, si loda la sua “splendida provocazione”.
In realtà, l’indagine è, più che provocatoria, amara quanto fondata. Faludi non si limita a prendere in esame centinaia di articoli, libri, programmi televisivi, film degli ultimi sette anni. Ma riconduce la reazione americana all’antica fantasia dell’invincibilità, nata negli anni della frontiera e prosperata fino al momento in cui quattro aerei l’hanno mandata in frantumi. Da quel momento, la vulnerabilità dell’America è stata letta in buonissima parte “come un problema tra i sessi, in cui l’uomo americano e il vigore della nazione erano indeboliti dall’influenza femminile”.
Questione antica, e non esclusivamente limitata agli Stati Uniti, in tempi in cui si moltiplicano le voci che lamentano il mondo peggiore creatosi dopo lo smarrimento della vera essenza del maschile e del femminile. Quando la donna si afferma, la civiltà decade, in quanto, per eccesso di femminilizzazione, decade il maschile. Il dandy, l’uomo incapace di fare la guerra, o troppo vicino allo sguardo della donna sul mondo, diviene l’emblema della società in disfacimento: Zola, in La Cuccagna, lo incarnò in Maxime, “l’homme-femme”. I commentatori post 11 settembre, negli effeminati padri in grembiulino, o nei narcisi dotcom.
Ma subito dopo tutto cambia, ricorda Faludi. Nell’editoriale del 12 ottobre sul Wall Street Journal, Peggy Noonan declama: “dalle ceneri dell’11 settembre risorgono le virtù maschili”. Le televisioni mandano in replica a getto continuo i film di John Wayne, Sentieri selvaggi su tutti. Mezzogiorno di fuoco torna ad essere un cult-movie: qualcuno arriva a scrivere (sul Washington Post) che a ben pensarci, negli occhi di George W.Bush brilla lo stesso riflesso delle pupille di Gary Cooper. Dettagli, in un lungo periodo dove il Presidente viene descritto, in ordine sparso, come Superman, Ranger solitario, Assassino di draghi. I vigili del fuoco che portarono soccorso al World Trade Center sono come i trecento spartani delle Termopili o, più comunemente, cow boy: già due settimane dopo l’attacco, sui media si moltiplicarono le inchieste sulla tendenza del momento, la passione delle donne nei confronti dei pompieri. “Firefighters are Hot, Hot, Hot!”, si titolava, mentre le giornaliste raccontavano la propria serata bollente con un vigile del fuoco e Camille Paglia dichiarava, compiaciuta: “non fanno uso di Prozac e non hanno dubbi sulla propria identità sessuale”. Cullarsi nel passato cinematografico era consolante, ed era propizio creare un presente adeguato: la carne di bisonte “Wild West” servita a Camp David. O Tom Cruise che nel film La guerra dei mondi ritrova la virilità sbeffeggiata dall’ex moglie impugnando un’ascia, per difendere sua figlia.
Perché le donne vennero immediatamente catapultate nel ruolo di vittime da proteggere. Non importa, scrive Faludi, che la maggior parte delle vittime dell’11 settembre fossero maschi adulti (il rapporto è di tre a uno): le immagini dei sopravvissuti in lacrime sono immagini di donne. In principessina romantica viene trasformata Jessica Lynch, presa prigioniera in un’imboscata nel deserto. Sul modello ottocentesco di Cynthia Ann Parker, rapita dai comanche nel 1836, si dipingono le casalinghe americane ostaggio della paura nelle loro case. Le vedove vengono spiate, monitorate dalle televisioni se incinte, spronate a scrivere autobiografie o libri per bambini, definite enfaticamente “perfette vergini del dolore”. Salvo diventare oggetto di critica e risentimento se provano ad uscire dal quadretto, come le quattro “Jersey Girls” che crearono la commissione indipendente d’inchiesta, e non pochi imbarazzi.
A tutte le altre veniva chiesta una sola cosa: tornare a casa. I media dichiararono che era tornato il tempo “di una famiglia nucleare stile anni cinquanta, di una riaddomesticata femminilità e di una ricostituita mascolinità da guerriero impassibile”. Insistevano sul vuoto dell’ambizione, sull’importanza del matrimonio e della procreazione. Del resto, il leader della destra cristiana Jerry Falwell non aveva attribuito l’attentato allo sdegno divino contro “pagani, abortisti, femministe, gay e lesbiche”? I serial televisivi più amati, come Friends e Sex and the City, insistevano sul matrimonio. Karen Hughes, la collaboratrice di Bush che lasciò il lavoro per la famiglia, venne salutata come un’eroina nazionale. La moda suggeriva trine virginali per lei. Per lui, pantaloni mimetici.
Naturalmente, fu una splendida occasione per fare i conti con il femminismo, definito da autorevolissime testate frivolo e limitato, e comunque un lusso incompatibile con i tempi. Susan Sontag venne chiamata squilibrata e idiota Arundhati Roy, ripugnante, Naomi Klein, traditrice. Le donne scomparvero. Dai quotidiani, per esempio. Le firme femminili sul New York Times passano dal 23 al 10 per cento. Su centosette editoriali del Washington Post, solo sette sono a firma femminile. Ancora nel 2005, su Harper’s, il rapporto è di sette a uno.
Ma sbaglia chi considera il saggio di Faludi un muro contro muro. O per lo meno non lo ha letto fino in fondo. Quando l’autrice scrive: “Quando basiamo la nostra sicurezza su una mitica forza maschile che può solo misurarsi con una mitica debolezza femminile, dovremmo sapere che stiamo mostrando i sintomi di una sofferenza culturale letale”. Per le donne. E per gli stessi uomini, naturalmente.

8 pensieri su “CONTENUTI EXTRA: THE TERROR DREAM

  1. Indiscutibilmente il femminismo c’entra sempre. Trovo notevole che ancora qualcuno possa parlare con parole tipo: “Quando la donna si afferma, la civiltà decade, in quanto, per eccesso di femminilizzazione, decade il maschile.” Certo, se per maschile intendiamo lo stereotipo americano di maschio guerrafondaio allora questo è certo; se pensiamo ad un mondo senza troppi (e badate bene che ho detto troppi) conflitti bellici allora notiamo che un mondo “al femminile” sarebbe invece una soluzione molto migliore.
    Complimenti a Susan Faludi che si è presa la briga di analizzare questi ultimi sette anni di declino cerebrale statunitense, ci vorrebbero più libri di questo tipo.
    Lettura consigliata: Bram Dijkstra – “Evil Sisters”

  2. Molto interessante (a parte la traduzione italiana del titolo, o anche in inglese c’è un doppio senso che non ho colto). Posso fare una domanda un po’ O.T.? Sono forse un po’ troppo giovane e quindi magari la risposta è ovvia, ma qualcuno mi sa spiegare se c’è una motivazione culturale per il fatto che maschilismo sia declinato in senso negativo e femminismo invece no?

  3. Per Andrea: credo che femminismo non sia il contrario di maschilismo…e poi conosco molte molte persone (anche donne) che considerano la parola “femminismo” alla stregua di una parolaccia.
    Loredana Lipperini potrà dare una risposta più pertinente alla tua domanda.

  4. Se può interessare, su «The Atlantic Monthly» di aprile c’è un articolo che in realtà contraddice, almeno in parte, sia le tesi conservatrici di Peggy Noonan sia quelle di sinistra di Susan Faludi, entrambe citate, tentando viceversa un’analisi alternativa. Il pezzo, che esamina molti dei film usciti in America dopo l’11 settembre, evidenziando una sorta di revival della produzione cinematografica e dei temi di punta degli anni settanta, è di Ross Douhat e si intitola The Return of the Paranoid Style (su carta, pp. 52-59). Un assaggio: “Conservatives such as Noonan hoped that 9/11 would bring back the best og the 1940s and ’50s, playing Pearl Harbor to a new era of patriotism and solidarity. Many on the left feared that it would restore the worst of the same era, returning us to the shackles of censorship and conformism, jingoism and Joe McCarthy. But as far as Hollywood is concerned, another decade entirely seems to have slouched round again: the paranoid, cynical, end-of-empire 1970s. We expected John Wayne; we got Jason Bourne instead.”

  5. Splendida Lippa, la tua recensione ha tutta l’aria di tirar fuori il meglio dal meglio del libro. Senza nulla togliere al libro, perché non l’ho ancora letto, ma tutto dando alla recensione.
    Ti abbraccio

  6. Nazzareno, leggo oggi il tuo commento e scopro le fonti di quello del direttore del domenicale del Sole 24 ore… (cito senza fonte alla mano – mi scuso per eventuali imprecisioni)
    Ma attenzione: c’è una bella differenza tra il pubblico dei film prodotti per la sala e quello della TV al pomeriggio. E anche se l’argomento film viene contraddetto da questo fatto, rimane vero l’uso di una retorica da western e molto altro di quanto viene qui indicato.

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