Ieri sera, su Facebook, ho raccontato del divieto opposto al Montelago Celtic Festival di poter svolgere un’edizione ristrettissima, per mille persone controllate, su cui ha ricevuto il diniego dalle autorità di ordine pubblico (e sanitarie, ma qui si ha come il sospetto che siano le prime ad aver puntato i piedi). C’è una vecchia ostilità nei confronti di una delle feste più belle dell’Appennino, in grado di convogliare decine di migliaia di persone (pacifiche e appassionate) ogni anno e di creare cultura. Cosa che le altre iniziative, tipo Marche in vetrina che si svolge venerdì a Castelraimondo per seicento persone con tanti personaggi tivvù non fanno: servono per autocompiacersi, per mangiare ai quattro palmenti, per dire le Marche sono questa cosa qui. E invece no, ma questo è ancora un altro discorso.
Il punto è che il popolo di Montelago viene visto come un popolo di “capelloni” (giuro, mi capita ancora di litigare con qualche marchigiano che difende la mangiata di gnocchi al sugo di papera ma osteggia quelli coi capelli lunghi) che gira in kilt, e dunque non è decoroso. Vorrei soffermarmi su questa parola, allora: decoro.
Perché è pericolosa. Perché in nome del decoro si compiono atti di forza spesso aberranti. Perché non vuol dire niente. Decoro non è bellezza. Non è quella vagheggiata da Peppino Impastato ne I cento passi, attenzione. Non è questa cosa qui:
“Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore”.
Il decoro che intendo io è esattamente quello delle tendine alle finestre, delle fioriere per gli orti urbani, delle strade del paese con i vasi di peonie: tutto quello che orna e che insieme nasconde. La bellezza è anche selvaggia, la bellezza non è uniforme: e soprattutto non può essere usata per coprire il resto. A cosa diavolo servono queste benedette fioriere se non a far dimenticare la povertà? A cosa serve un paese inghirlandato se quello stesso paese non è in grado di accogliere visitatori perché non riesce ad avere un albergo né un ristorante né, soprattutto, a concepire iniziative se non quelle che soddisfano chi ci abita: karaoke, qualche dj, panini che vengono chiamati “street food”? A niente.
Passo indietro.
Nel 2017, quando viene varato il Decreto Minniti in materia di ‘Sicurezza delle città’, si comincia a usare in un certo qual modo la parola “decoro”. Non bellezza, ma una decenza di facciata. Tant’è vero che in quello stesso anno il sindaco di Milano Beppe Sala decide di chiudere “per decoro” i parchi recintati della città.
Come ricorda Wolf Bukowski su Giap,
“Nella New York di fine Ottanta e inizio Novanta, una città che portava ancora i segni della crisi economica del 1975, convergono due movimenti. Uno è quello schiettamente securitario e poliziesco che troverà espressione nella «tolleranza zero» di Rudy Giuliani; l’altro, meno noto, è quello della «quality of life». Si tratta di ciò che da noi è stato chiamato «decoro».
Nella genesi del movimento per la «quality of life» i parchi sono fondamentali. I parchi poco curati, perché abbandonati dai servizi di giardinaggio pubblici (la municipalità aveva tagliato quasi della metà i giardinieri!) vengono infatti «adottati» da gruppi di cittadini bianchi e di classe media. Costoro – anziché usare il loro peso politico per ottenere nuove assunzioni nei servizi pubblici – indossano la salopette più stilosa, comprano le cesoie più ergonomiche, e giocano a fare i giardinieri volontari, tronfi d’orgoglio. Come scrive Fred Siegel, apologeta e teorico della «quality of life»:
«These efforts cultivate character as well as flowers. They catalyze neighborhood energies and can become an emblem of pride for local communities.»
Ma la redenzione (classista) degli spazi pubblici è una strada in salita, e presto i volenterosi giardinieri del decoro realizzano di non potersi più accontentare di mettere a dimora ciclamini. Di notte, infatti, gli spettri urbani, non sapendo dove altro andare, tornano ad abitare i parchi:
«mentally ill, homeless, transvestite prostitutes, as well as the usual drunks and drug addicts, [that] sleep in the park and use its bathrooms for sex.»
Ed ecco quindi la soluzione: ringhiere e cancelli. Si realizza così quella fusione tra risposta al disagio sociale e architettura ostile che ancora oggi è tipica delle politiche del «decoro».”
Tutto questo accade da noi. Decoro è quello che soddisfa una certa classe sociale che ritiene che i propri figlioli non debbano vedere cartacce e, sia mai, senza tetto. Decoro sono le strade fiorite in un paese morto. Decoro è tutto quello che finge di dare bellezza. E’ quello che paralizza. Come scrive ancora Bukowski:
“Tutta l’ideologia del «decoro», a ben vedere, è innestata di vittimismo. E questo proprio mentre, in apparente paradosso, gli illeciti del «degrado» sono spesso illeciti victimless. Chi è infatti la vittima di un senzatetto che dorme su una panchina? Lui e lui solo: in primis del capitalismo che gli ha tolto una casa, poi del «decoro» che gli toglierà anche la panchina. Ebbene: la magia del «decoro» è quello di rendere in modo immaginario tutta la città «vittima» del «degrado», e quindi vittima del senzatetto che dorme tra i cartoni. Che emerga quindi un immaginario vittimario in questa occasione non mi stupisce; esso, come quasi tutto ciò che accade ora, era già lì”.
Non so cosa avverrà del Montelago Celtic Festival. So che andando avanti così, tutti noi, continueremo a sbriciolare montagne in nome di utilissime superstrade (sarcasmo, mi raccomando) e a mettere fiori finti nelle aiuole. Per decoro. Anche basta, però.