Sta diventando scioccamente dicotomico, questo piccolo mondo letterario italiano. Buoni di qua, cattivi di là, semplificanti di qua, amanti della complessità di là. Non voglio aggiungermi alla folta schiera di coloro che definiscono la letteratura, ma credo che qualsiasi muro,qualsiasi schema, faccia del male alla medesima. Non è una partita di calcio, la letteratura: ma se volessimo tenere il paragone, possiamo dire che i molti e le molte che scrivono giocano campionati diversi, e che non puoi chiedere a un’autrice o un autore di pamphlet gli stessi vertici formali che chiedi a un romanziere. Poi, certo, le carte si mischiano, e molto spesso i patentini e le etichette vengono attribuiti nel modo sbagliato: ma quella è una faccenda di mercato, che è ancora una partita diversa.
Di dicotomia in dicotomia, continuo a leggere anche in dotta saggistica che la pietra di paragone negativa è “il fantasy” , che è diventato il sinonimo di fantastico, e scusate se mi ripeto sul punto, ma pare che ripetersi non serva a niente, perché comunque non ti si ascolta, e comunque tutto quello che non è tormento e abiezione del personaggio realista sia automaticamente autofiction lacrimosa oppure consesso di elfi. Dicotomie. Inutili, mille volte inutili: che impediscono di affrontare i molti problemi che editorialmente abbiamo (la semplificazione, per dire, è vera, e se n’è parlato a lungo, su questo blog).
La premessa serve per ricordare che oggi Chiara Palazzolo torna in libreria, con la riedizione di Non mi uccidere per i tipi di Sem. Ancora, direte? Sempre, dico io. E non solo per l’amica, ma per la scrittura.
Un po’ di storia. Dopo un ottimo successo con i libri precedenti (“I bambini sono tornati” era appena stato finalista allo Strega) Chiara spiazzò tutti dichiarando di voler scrivere un horror. Sarebbe stato “Non mi uccidere”, primo libro della trilogia di Mirta/Luna, e avrebbe cambiato le carte del fantastico italiano. Sul quale pesava ancor più di oggi il solito pregiudizio: ciò che non è “realistico” non è “letterario”. Fino a quel momento, dunque, chi scriveva fantastico si rivolgeva a lettori giovanissimi, oppure a una nicchia dove, troppo spesso, la qualità era (ed è) un optional.
Nella trilogia, e ancor più nel suo ultimo romanzo, “Nel bosco di Aus”, Chiara Palazzolo ha dimostrato che il fantastico non solo può essere letterariamente alto e includere la sperimentazione linguistica, ma è cosa diversissima dalla narrativa “di evasione” con cui viene identificato. Racconta, anzi, e in altro modo, il reale. In una famosa intervista a The Paris Review, alla domanda “quali sono le differenze fra popular fiction e letteratura, Stephen King risponde”: “la vera rottura viene quando ti chiedi se un libro ti coinvolge a livello emotivo. E una volta che quelle leve iniziano ad abbassarsi, molti critici scuotono la testa e dicono No”. Duro, ma vero.
Quegli stessi critici, che sono anche quelli che definiscono “monnezzoni” i libri di narrativa fantastica, accolgono però l’elemento fantastico se mascherato: vale per il nostro passato letterario, e per i nostri Dino Buzzati, Tommaso Landolfi, Italo Calvino. Vale per autori contemporanei di altri paesi, come il Cormac McCarthy de “La strada”, o il Murakami Haruki di “Kafka sulla spiaggia” e “1Q84”. Quest’ultimo, per dire, uscì contemporaneamente a “22/11/63” di Stephen King. Il primo venne accolto nei ranghi della letteratura, il secondo in quello della narrativa molto popolare e molto venduta.
Ma non è solo un problema critico, anche se, soprattutto in Italia, molta critica non solo scuote la testa ma arretra, con disgusto, davanti al fantastico. E non è solo un problema di editori, che oggi al fantastico chiedono soprattutto una cosa: vendere, e tanto, e subito, e che sia “young adult”, per carità. E’ anche un problema di fandom, laddove la separazione fra literary fiction e fantastico viene invocata e ribadita da molti lettori.
Così non è. E se c’è una via per sfuggire alla nicchia, alle costrizioni editoriali, al malinteso post-tolkieniano (il fantastico è solo quella cosa dove ci sono gli elfi), è proprio quella di sfumare i confini, o di contaminare, dall’interno, il mainstream. Facendo colare un mondo nell’altro, ricordava King: come liquido dal fondo di un sacchetto di carta.
Chiara Palazzolo ha fatto esattamente questo. Nella trilogia, e nel suo ultimo testo, lo straordinario “Nel bosco di Aus”, un romanzo sulla maternità arcaica, sui simboli, sul corpo femminile, sul potere delle donne e i conflitti che genera: la cultura di Chiara era vastissima, si fondava sullo studio di testi come quelli di Carlo Ginzburg sul sabba. Ogni gesto appare naturale, in chi legge, perché il romanzo è non solo scritto con sapienza, ma tocca corde profonde. Come diceva il già citato Murakami, uno dei compiti dello scrittore è “attivare quel territorio dello spirito che nella vita quotidiana non viene usato. Per farlo è necessario spostare in posizione On alcuni interruttori che si trovano sul pannello della coscienza. Se si riesce, quei territori di solito addormentati lentamente si risvegliano. I romanzi – cioè i buoni romanzi – hanno questo potere. E se tutto va bene, attraverso quel passaggio segreto che siamo riusciti ad aprire, possiamo mettere piede in un mondo che non siamo abituati a vedere”. Chiara ha fatto esattamente questo. Anche nel linguaggio. In una delle ultime interviste rilasciate a Elena Raugei per “Mucchio selvaggio”dice : “Nel bosco di Aus, che ho cominciato nell’autunno 2009, si riallaccia alla trilogia nello stile di frasi brevi e contenute, seppur più aperte. È un’economia espressiva: non uso molti aggettivi e ho abolito le virgolette, scelta di campo fatta sulla scorta di autori come Cormac McCarthy o José Saramago, che hanno abbattuto le convenzioni desuete, soprattutto in punteggiatura. Le virgolette sono l’oggettivizzazione del discorso diretto, ma il criterio di realismo viene a cadere alla fine del secolo scorso, dove tutto è interpretazione, interpolazione. Con l’avvento del virtuale di massa ogni cosa non è la cosa in sé bensì come la rappresentiamo. Viviamo in una realtà totalmente manipolata, quindi totalmente immaginaria. Il narrare ininterrotto, paragonabile al flusso delle informazioni internettiane, è soggettivo. C’è però una differenza con la trilogia, che era un romanzo d’avventura. Nel bosco di Aus ha una struttura a suspence, a matrioska: ogni tassello ha degli echi interni, dentro ogni verità se ne racchiude un’altra. Nulla è ciò che sembra perché ogni persona, ambiente o evento ha una cifra doppia: tutto ciò che è bianco può trasformasi in nero”.
A volte, invece di spintonarci per dimostrare la bontà delle nostre idee sulla letteratura, dovremmo semplicemente leggerla.