“Un poeta latino, Catullo, si chiedeva se può essere importante la morte di un cardellino: i suoi contemporanei avrebbero potuto rispondere che si trattava di una futilità, ma Catullo sapeva bene che il tema non conta niente, conta solo il modo di viverlo attraverso la pagina. Catullo sapeva che per la scrittura non esiste contemporaneità e si è sottoposto al giudizio dei posteri. Io non ho cardellini, ma se ne avessi uno e potessi scrivere una pagina su di lui forse quella pagina esprimerebbe molte delle mie angosce, dei miei desideri e delle mie proiezioni. Anche un futile cardellino può diventare metafora di una vita intera, e se un poeta riesce a realizzare questa metafora, egli ha svolto il suo compito”.
Così diceva Antonio Tabucchi (era il 1996, qui trovate il testo integrale). Ma è un altro il discorso che voglio pubblicare, proseguendo la serie iniziata ieri: cosa hanno detto gli scrittori (e non solo) ai giovani? Per esempio, nel 1993, lo stesso Tabucchi si rivolse ai ragazzi di Firenze. Così.
Cari ragazzi,
Quand’ero ragazzo anch’io, anzi, quand’ero bambino, avevo uno zio che mi portava a Firenze. Quello zio non finirò mai di benedirlo nella mia memoria. Era un uomo generoso e curioso, che amava l’arte e la letteratura e che in segreto scriveva commedie. Aveva deciso che doveva dare un’educazione estetica ai suoi nipoti, e io ero il suo unico nipote. Noi venivamo dalla campagna pisana, e a quel tempo i trasporti non erano quelli che sono oggi. Ci si alzava all’alba, si prendeva una corriera sgangherata che ci portava a Pisa, e lì aspettavamo il treno per Firenze. Ricordo ancora quelle mattine di viaggio, il caffellatte bevuto in cucina con la luce accesa, perché d’inverno era buio. Il panino mangiato in treno, le cose che mio zio mi raccontava mentre dal finestrino sfilava il paesaggio. Parlava di nomi per me magici, di cose che avrei visto quel giorno. E diceva: il Beato Angelico, Giotto, Caravaggio, Paolo Uccello. Mangiando il mio panino riflettevo fra me e me: un Beato che dipingeva gli angeli, che aveva affrescato tutto il suo convento per la felicità dei suoi confratelli: che cosa meravigliosa! E poi pensavo a Giotto, che era anche la marca delle mie matite, e pensavo che finalmente avrei visto le sue magnifiche pitture, perché lui aveva fatto l’O di Giotto, che era la cosa più perfetta del mondo. E intanto mio zio mi diceva: e ricordati bene, Antonino, che l’arte è un valore universale, perché appartiene a tutti i popoli, è l’unico linguaggio che li affratelli. E poi diceva ancora, sai, i nazisti bruciavano i libri perché ne avevano paura. Bruciavano i libri e gli uomini e noi invece i libri e gli uomini li difendiamo, perché sono il fondamento della civiltà. Noi crediamo nella cultura, per questo oggi ti porto a Firenze, i nazisti credono nei fucili e nei forni crematori.
E poi si arrivava a Firenze, e si scendeva per le strade. Guardavo gli enormi soffitti degli Uffizi, quei quadri misteriosi, quelle tavole impressionanti. Mio zio mi prendava per la mano e mi faceva camminare nel corridoio del Vasari.
Questo è un luogo sacro, mi diceva, ricordatelo bene. Dopo si andava in via Ghibellina, in una vecchia trattoria. E mio zio mi chiedeva: vuoi assaggiare la trippa e preferisci la bistecca? E da lì si andava a San Marco, a vedere il Beato. Beato lui, pensavo, che vedeva gli angeli. Io non ero mai riuscito neppure a vedere il mio angelo custode. Eppure la sera, prima di andare a letto, mi giravo alla svelta, pensando di sorprenderlo, o mi guardavo di spalle alle specchio. E chiedevo: zio, come si fa a vedere gli angeli? E lui mi rispondeva: bisogna credere negli uomini, per vedere gli angeli. Che frase misteriosa! La rimuginavo fra me e me, aggirandomi nelle celle del convento di San Marco. Solo più tardi avrei capito il senso di quella frase.
Oggi per esempio la capisco. Oggi che i diavoli sono di nuovo fra noi, quei diavoli che odiano gli uomini e odiano la cultura e l’arte, che dell’animo umano è l’espressione più alta. Mio zio aveva ragione. I nazisti di allora, che bruciavano gli uomini e i libri, oggi mettone bombe nelle nostre città, che è il loro modo di manifestare la barbarie. Ma noi alla loro barbarie ci opporremo. E guarderemo ancora, commossi e ammirati, il Beato Angelico, Giotto, Caravaggio e Paolo Uccello. Noi i libri li leggeremo con avidità, e li conserveremo con cura nelle nostre case. Noi ci difenderemo perché i barbari non abbiano il sopravvento. Perché alla loro sporcizia noi opponiamo la nostra civiltà.
Non è nemmeno sporcizia, a meno che il sig. Tabucchi si stesse riferendo con qualche anno di anticipo al concetto di The Filth di Irvine Welsh, ovvero una inesorabile ipnotica caduta accompagnata da un morboso scollamento con la realtà o un suo succedaneo accettato da una maggioranza qualificata ( ” Razor ” Marzullo. Sogni e Realtà 1990/9 ) .
I barbari sono malati di nostalgia, come direbbe Renato Zero, x un momento ics in cui potevano ancora illudersi di poter fermare il mondo e scendere quando le cose si facevano pese. Al barbaro una battaglia del Vasari crea uno shock anafilattico come al sottoscritto la pratica di impanare un pettino di pollo passato nell’uovo. I barbari non hanno mai avuto uno zio che capiva la liturgia della colazione quando è ancora buio prima di partire in treno x vedere gli angeli. Ringrazio il sig. Tabucchi ovunque sia perchè mi ha ricordato quanto sia importante nella vita di tutti i giorni esser lo zio di qualcuno e quale fortuna esserne il nipote. Buon Anno a tutti.