DI COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI FINE DELLA MEDIAZIONE

E no, e certo, ragionare in termini antagonisti (di qua la cultura tradizionale, qualunque cosa significhi, di là quella della rete, qualunque cosa significhi) non ha senso. Tre letture mi fanno pensare, in queste giornate non rilassanti: un libro (Smart di Frédéric Martel, con cui converserò sabato 19 marzo a LibriCome), un articolo di Jacopo Cirillo, un intervento di Sandra Giuliani sulla libreria che offre volumi gratis).
Provo a sintetizzare. Martel sostiene, in breve, che è inutile resistere: i mediatori culturali hanno fatto il loro tempo, in rete saranno e sono già altre le strade che determinano la diffusione di arte, musica, libri. Algoritmi e influencer, per esempio, scrive, invitandoci ad avere fiducia nei primi (secondo Martel, non è detto che le macchine inducano necessariamente al mainstream) e nei secondi.
Cirillo fa una riflessione interessante – riassumo anche qui – sull’aura del libro, sulla narrazione che lo descrive invariabilmente come salvezza dell’anima nostra, meglio se su carta, magari, da privilegiare rispetto ad altre forme di narrazione (videogiochi, o serie televisive, aggiungo) o di intrattenimento.
Sandra Giuliani ci chiede di riflettere sulla corsa alla gratuità, che troppo spesso nasconde il disinteresse su cosa renda possibile quella gratuità: “Perché noi editori, librerie, che con i libri ci “campiamo” (o almeno vorremmo, io a quasi sessantanni non ci riesco) non ci fermiamo a chiederci cosa significhi questo movimento verso il gratuito? O continuiamo a produrre libri, che hanno un “prezzo”, generando infiniti circuiti di povertà? E l’infinita illusione che chiunque possa scrivere perché da qualche parte c’è sempre un lettore?
Se un libro non si vende “abbastanza” nessuno paga l’autore, il redattore, l’editor, il correttore di bozze, il grafico, il tipografo, l’ufficio stampa, il distributore, l’editore. Nessuno paga il lavoro delle persone”.
Tre strade diverse e un problema comune, non piccolo: di chi parliamo e a chi parliamo? Me lo sono chiesta, stamattina, durante il solito personalissimo test della metropolitana, che di certo non è valido in quanto, appunto, personalissimo. Attorno a me, tutti – e dico tutti – i passeggeri sui due vagoni più un autobus, erano chini sul cellulare. Dove, attenzione, non si leggeva il giornale, non si leggevano storie – non parlo di qualità, ma comunque storie sono – su whatpadd. Dal percorso spionistico effettuato (sì, passeggeri delle linee B e A della metro, se vedete una signora capelluta che sbircia alle vostre spalle sono io, ma non ho cattive intenzioni, giuro), le possibilità erano tre: solitario, WhatsApp e Facebook.
Allora, io posso anche concordare con Martel che non si debba opporre resistenza al futuro degli o delle internet (plurale, minuscolo) in avanzata. Posso concordare e anzi concordo con Jacopo Cirillo sul fatto che trasformare tutti i libri in altrettante divinità (spesso prescindendo da cosa c’è dentro il libro medesimo) sia una svista pericolosissima, oltre che inutile per la diffusione della lettura.
Però mi pongo una domanda: come  si arriva al punto in cui ci si immerge nel flusso di algoritmi e influencer o nell’intrattenimento – sacrosanto – che prescinde dai libri? Come formo le mie competenze, quelle che mi permettono di scegliere tra un videogioco e un romanzo? Come riconosco – questa è per Martel – l’influencer o il booktuber o chiamatelo come vi pare, questo mediatore che non media e che sostituisce il critico letterario e il giornalista culturale, come lo distinguo da un promotore? Si dirà che anche il critico e il giornalista sono spesso promotori, e non si sottraggono ai destini incrociati del favore reciproco o della simpatia personale o della compiacenza verso questa o quella casa editrice. Certo, l’obiezione è legittima. Ma è anche vero che molti lettori di quel critico e quel giornalista, per lo stesso fatto di leggere una recensione spesso complessa, sono dotati di maggiori strumenti, se li sono costruiti negli anni abituandosi alla complessità. Quella complessità è resa possibile dalle stelline, i commenti in poche righe, o addirittura dal copia-e-incolla dei comunicati stampa?
E qui entra in campo il discorso di Sandra Giuliani. La corsa al gratuito va benissimo. Ma temo che a un certo punto confonda le acque, e ci impedisca di distinguere: la diffusione del sapere deve essere gratuita, certo, ma non tutto quello che è gratuito ha valore in sé, e soprattutto poche cose gratuite lo sono fino in fondo, perché si fondano sul lavoro – non retribuito, o addirittura a sua volta gratuito – di altre persone, che non è detto lo facciano volontariamente, peraltro.
Avverto un rischio, insomma: che è quello di essere elitari proprio mentre si celebra la fine di un’élite. Che bello, i mediatori sono morti, viva la disintermediazione. Sì, ma chi, in questo mondo non mediato, ha le competenze per scegliere? E ci interessano ancora quelle competenze? Non per noi stessi, ma per chi ci sta intorno e chi verrà dopo? Parlare di competenze significa automaticamente difendere una casta? Non avere fiducia nel dio algoritmo significa automaticamente essere condannati a resistere in un territorio che sta sprofondando?
Non cerco risposte, in questo caso.
Mi interessa, però, che si continuino a porre domande.

3 pensieri su “DI COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI FINE DELLA MEDIAZIONE

  1. MARTEL… Illusione di fondo. Fino agli anni ’50 non esisteva un pubblico di lettori. Dopo con la diffusione di massa della lettura sono cominciati contemporaneamente questi discorsi sulla perdita della mediazione. Falso storico. Oggi i mediatori sono di più, anche algoritmi e influencer sono mediatori. Vero che è inutile resistere, perché è sbagliato il concetto di resistenza (anche se poeticamente ci sollazza); il frame, come diresti tu. Le competenze si formano a scuola. Altrove si forma solo il gusto.
    SANDRA GIULIANI… Troppi infiniti. Mi permetto di correggere l’incipit. Anche ciò che è gratis ha un costo. Gli editori, come tutti, ci provano. Ad alcuni va bene, ad altri no, non capisco dove sia lo stupore, la perplessità, men che meno la contraddizione. Poi non vedo un movimento verso il gratuito. Se uno può fare a meno di pagare, lo fa, ma senza alcunché di politico. A meno che ci sia qualcuno che oggi proponga di nazionalizzare l’industria culturale. Qualcuno lo ha proposto?

  2. In questo post, Loredana, sollevi innumerevoli problemi: che riguardano il mercato (del libro, ma non solo), il lavoro e la sua dignità, la cittadinanza di fronte alla pretesa di ipersemplificazione di un mondo intrinsecamente complesso come forse mai è stato prima. Ci vorrebbe un tomo per affrontarli tutti. I miei due cents li spendo sul tema della gratuità, che è un problema economico e mi appartiene di più. La domanda (retorica) è: ma davvero crediamo che in questo mondo sia possibile sottrarre qualcosa alla sfera del profitto, quando tutti i movimenti vanno in direzione esattamente opposta? Da decenni assistiamo al progressivo ingresso nella sfera del mercato di ciò che una volta era gratuito: “mettere a reddito”, “estrazione di valore” et similia sono (orrendi) concetti con cui dovremmo aver familiarizzato, se non altro perché ne siamo martellati; e invece qui si teorizza che un oggetto pienamente nel dominio del mercato (particolare, specifico, ma pur sempre mercato), quale è il libro, ne possa uscire senza che nessuno se ne adonti. In realtà è altro, quello che sta succedendo. Prendiamo la catena del valore che Loredana ha sommariamente abbozzato: “l’autore, il redattore, l’editor, il correttore di bozze, il grafico, il tipografo, l’ufficio stampa, il distributore, l’editore”. Tutte queste figure fino a ieri hanno percepito uno stipendio, l’hanno speso e uno di loro (l’editore) ha fatto impresa, pagato quegli stipendi, intascato profitti ; insomma, come dicono i cumènda, “hanno fatto girare l’economia”. La liquefazione di quella catena del valore non significa il ritorno della cultura (almeno quella libraria) nella sfera della gratuità: significa solo la liberazione di valore prima tenuto per così dire in cattività all’interno della suddetta catena, e ora disponibile a chi saprà catturarlo. Magari non in forma di libro, di certo irregimentandolo in una catena diversa, ma possiamo star certi che di gratuito non avremo niente.
    Quella che sta prendendo forma, a mio modo di vedere, al momento è un’immensa fregatura; personalmente non riesco a immaginare un buon libro che possa fare a meno di quella catena del valore (ricordiamola: l’autore, il redattore, l’editor, il correttore di bozze, il grafico, il tipografo, l’ufficio stampa, il distributore, l’editore), e il fatto che possa diventare non più disponibile quale filiera in capo a un unico soggetto imprenditoriale (l’editore), che si assume il rischio d’impresa, significa una cosa sola: la nascita di agenzie in cui questi soggetti, continuando a fare il loro mestiere, saranno costretti ad assumersi il rischio d’impresa in prima persona. In definitiva, ulteriore precarizzazione. A cominciare dall’autore, che illudendosi di saltare la barriera alla pubblicazione rappresentata dalla selezione dell’editore, si trova già oggi nudo e senza barca nel gran mare della rete, senza saper nuotare.
    E’ una situazione che ricorda i primordi di internet: frotte di artisti (pittori, scultori, ecc.) e di professionisti (grafici pubblicitari, esperti di roba varia) si lanciarono nell’aperura di siti che, nelle loro intenzioni, avrebbero dovuto essere altrettante vetrine gratuite o quasi, passepartout per bypassare gli intermediari classici (costosi, e – ovviamente! – legati alle conventicole e stronzissimi): galleristi e altri loschi figuri. Com’è andata lo sappiamo: il sito, anziché diventare sostitutivo dei canali classici, è diventato un must in più (costosissimo). E provateci a farvelo da soli, se ne siete capaci. Alla catena del valore tradizionale si è aggiunto un anello, che in questo caso non l’ha neppure smontata.
    Nel caso dell’industria editoriale sembra che una destrutturazione debba invece esserci, almeno per le realtà meno competitive; ma questo, ripeto, non ci porterà alcuna gratuità: solo ulteriore precarietà per chi, non avendo alcuna voglia di fare l’imprenditore ma tanta di fare bene l’editor o il traduttore, si vedrà costretto a proporsi come agenzia e a fare quindi impresa suo malgrado; al limite, possiamo anche pensare a un editore di nuova generazione che riunisca di nuovo l’intera filiera sotto di sé e si proponga all’autore come agenzia integrata, capace di promuovere la sua opera sulla rete e nel mondo reale. Ma un’industria così esiste già: si chiama editoria a pagamento. L’approdo potrebbe essere questo: l’illusione della gratuità che si capovolge e rende cliente lo stesso autore, che anziché essere pagato per la sua opera si trova nella condizione di dover pagare per vederla pubblicata. “Condivisione del rischio di impresa”, la chiamano: come è evidente, le magnifiche sorti e progressive rischiano di essere solo riassemblamento di vecchi e notissimi arnesi. Poi basta trovare la formula giusta e si sa, le parole hanno un enorme potere, come ben sapeva Humpty Dumpty: “Quando uso una parola”, Humpty Dumpty disse in tono piuttosto sdegnato, “essa significa esattamente quello che voglio – né di più né di meno.”
    “La domanda è”, rispose Alice, “se si può fare in modo che le parole abbiano tanti significati diversi.”
    “La domanda è,” replicò Humpty Dumpty, “chi è che comanda – tutto qui.”

  3. Se anche finiremo per farci dire da un algoritmo cosa leggere (cosa che peraltro già succede quando navighiamo nelle pagine trovate con Google) non è detto che quel qualcosa sarà gratuito. In realtà, se guardiamo al libro non esiste pressoché nulla di decente che sia fruibile a costo zero. In questo senso la rete mi pare abbia risparmiato il mercato letterario dalle grinfie della pirateria che sta danneggiando seriamente il cinema. Casomai è una questione di formato (ebook vs. carta).
    Non penso sia la disintermediazione e nemmeno la gratuità – che comunque non vedo arrivare a grandi passi – a minacciare l’attitudine alla lettura della gente e la sopravvivenza del circuito editoriale. Se la minaccia esiste è un’altra. Da estranea a questo mondo penso che sia nella situazione dell’industria automobilistica: produce più beni di quanti il mercato possa assorbire.

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