Continuo a pensare alle parole di Giusi Marchetta, che ieri pomeriggio ha detto una cosa molto importante sull’inconsapevole classismo di chi appartiene al mondo del libro.
E dal momento che continuo a pensarci, sono andata a ricercare un intervento che ricordavo: è di quattro anni fa, lo ha scritto Lorraine Berry ed è leggibile integralmente su blog di EdizioniSur. Questo il punto su cui riflettere:
Uno degli argomenti più forti a sostegno della creazione di un ambiente letterario più eterogeneo riguarda le persone che stanno ai margini. Se una bambina americana di origini messicane cresce con il sogno di diventare poetessa, che succede quando guarda ogni anno i vincitori dei premi e non vede nessuno che le assomigli? Può un ragazzo afroamericano aspirare a diventare un saggista da premio Pulitzer se non sa che in giro c’è qualcuno come lui? Direi che lo stesso vale per i bambini proletari, specie quelli che vivono in famiglie più preoccupate di come sfamarsi che di andare a sentire una sinfonia, famiglie che vedono le arti come un’attività esclusiva dei ricchi (come faceva mio padre, proletario e immigrato).
A questo punto per me la faccenda si fa personale, e confesso di non essermi ancora liberata di un certo rancore, persino di una certa rabbia, nei confronti di questa spaccatura. Una volta stavo guardando un documentario su Susan Sontag, in cui si dava – giustamente – un grande risalto ai suoi studi a Berkeley, Chicago, Oxford, e al fatto che se ne fosse andata a vivere a Parigi. Ma su tutta la storia di Sontag aleggia un interrogativo, che in quello specifico documentario non viene mai affrontato: da dove venivano i soldi? Lei non lavorava. Eppure poteva permettersi di abitare a Parigi. A un certo punto, da giovane, si trovò a corto di denaro, e un amico le procurò un ruolo da comparsa in un film sperimentale. Però, anche in questo caso, non è tanto un fatto di denaro quanto di classe sociale, dell’esser nata all’interno di un sistema in cui è accettabile dedicarsi a cose artistiche. Ma per chi si trova al di fuori di quel sistema «fare l’artista» equivale a buttare via la propria unica opportunità di combinare qualcosa nella vita. E anche quando riesci a combinare qualcosa, puoi incorrere nella disapprovazione per aver «tradito» la classe da cui provieni.
Quando i miei parenti venivano a sapere che un tale si era arricchito e aveva scelto di trasferirsi altrove, o di comprarsi qualcosa di costoso come un’auto di lusso, ne seguivano sempre brontolii su come quello «si credesse meglio di noi, o si fosse scordato da dove viene». E finché non ho letto Jeannette Winterson e Caitlin Moran, che raccontavano di essersi sganciate da famiglie proletarie, ho creduto che quella fosse una cosa che succedeva soltanto nella mia famiglia. Se mi fossi imbattuta da adolescente in storie come quelle di Winterson e Moran, che rispecchiavano la mia esperienza, forse avrei avuto meno remore a scrivere della mia esistenza proletaria. E tuttora, da adulta, ho provato sollievo intervistando Moran, e rendendomi conto che esisteva una scrittrice affermata che era stata una ragazzina proletaria amante dei libri, dopo anni passati a intervistare scrittori le cui vite non assomigliavano per niente alla mia. Moran mi ha fatta sentire meno fuori posto.
Se la letteratura vuole contare qualcosa nelle vite di quanti la leggono, allora deve fare di più che aprire un nuovo mondo di possibilità. Molti di noi, tanto da bambini quanto da adulti, sono stati rapiti dal sogno di fare le stesse cose che fanno i personaggi di un libro. Però, come insegno ai miei studenti, la lettura è anche un fatto di immedesimazione, è quel momento di contatto in cui ciò che lo scrittore prova ed esprime con le parole viene provato anche dal lettore, quel rintocco nel petto che indica che uno «ha capito». E se da una parte io posso provare un’immedesimazione emotiva, dall’altra mi ritrovo a sperare ardentemente che qualcun altro capisca come ci si sente a sapere che nella dispensa ci sono soltanto i cereali per la colazione, finché a un genitore non arriva lo stipendio. La letteratura non dovrebbe fungere da linea di separazione fra abbienti e non abbienti; proprio come il fatto di aver espanso la sfera letteraria per rappresentare in maniera più equa un mondo che non sia composto soltanto di maschi, bianchi o etero ha arricchito enormemente il canone, così le storie di gente proletaria contribuiscono moltissimo a migliorare la nostra rappresentazione e la nostra comprensione del mondo che ci circonda. E soprattutto, almeno per quanto mi riguarda, sapere che a determinare quali scritture sono più meritevoli di pubblicazione non è la classe sociale né il denaro mi farebbe sentire meno fuori luogo quando sprono i miei studenti a intraprendere una carriera in editoria, campo nel quale partono svantaggiati rispetto a quelli a cui il privilegio economico ha già spalancato varie porte.
Ho esitato a scrivere questo saggio, per paura che apparisse come un semplice sfogo personale; se c’è una cosa che le classi lavoratrici non tollerano quasi mai, è il lamentarsi quando non ce n’è un vero motivo. Allo stesso tempo, creare letteratura richiede una certa sincerità rispetto alle proprie esperienze, per poter colmare gli spazi che ci separano dagli altri esseri umani nostri simili. Nel produrre arte, scrivere delle mie esperienze mi fornisce uno spazio in cui creare immedesimazione e attenermi alla verità delle cose. Nella mia vita ci sono stati momenti in cui avrei tanto voluto avere i soldi o gli agganci che mi permettessero di girare il mondo per un anno, e poi scrivere un libro su tutto quel che avevo visto e provato. Ma poi mi ricordo che provengo da una lunga stirpe di uomini e donne che sono sopravvissuti coltivando umilmente la terra, e poi lavorando in fondo alle miniere, e poi alle catene di montaggio delle fabbriche di Manchester. Mio padre era ancora piccolo quando la sua famiglia lasciò gli slum di Manchester per trasferirsi in una casetta bifamiliare, lontana dal lerciume delle zone industriali. È un’eredità di cui andare fiera. Perciò, in futuro, ho deciso di continuare a raccontare quel tipo di esperienza proletaria, di continuare a ritagliare uno spazio per quel tipo di storie in quella che consideriamo letteratura.