Ricevo una bella mail da Anna Bravo, in relazione ai commenti sul post dove riportavo il suo intervento. Ve la pubblico:
“Se sei d’accordo, vorrei rispondere su un solo punto, l’osservazione importante sul fatto che non cito nomi e cognomi.
Lo faccio per principio (a parte nei libri, quando bisogna). Perché non amo le polemiche personali, ce n’è già troppe. E soprattutto perché mi sembra più utile parlare delle idee e dei comportamenti piuttosto che delle persone e della loro identità. Ragionare in termini di identità equivale a classificare gli individui, che invece sono molte cose diverse nello stesso tempo, e possono cambiare. Classificare i comportamenti, nella loro contradditorietà e imprevedibilità, mi sembra più giusto, perché è un giudizio circoscritto e in qualche modo “provvisorio”, e anche perché non pretende di spiegare tutto, che sarebbe da matti.
Ti faccio un esempio che mi sta a cuore. Nell’Italia di questi anni, anziché dire che qualcuno ha vinto o perso, si dice spesso che quel qualcuno è un perdente (o un vincente). E’ uno slittamento orribile dal giudizio sul comportamento al giudizio sull’identità. Nel primo caso infatti si evoca un singolo episodio in un percorso di vita che può trasformarsi; nel secondo si tira in ballo un “tipo umano” immodificabile, direi predestinato – e si riduce il mondo alla contrapposizione bellicista tra forti e deboli, furbi e sprovveduti, capibranco e gregari, che secondo me è razzista ( e, questa sì, davvero berlusconiana). Non so se in altre lingue esista una simile involuzione linguistica e culturale. La mia ambizione maggiore è essere nonviolenta, ma chi dice perdente e vincente mi tira via gli schiaffi dalle mani! Metaforici”.
E poi. Volevo ringraziare le meravigliose Donne di Carta. Per questo.
Ci vediamo domenica.
La informo che ho avuto modo di incontrare la persona libro di “Non è un paese per vecchie” e che può stare tranquilla perché è in ottime mani e con una signora voce.
Ero alla presentazione della Carta dei diritti della lettura a Bastia e sono rimasta semplicemente estasiata (sono seria) da queste persone proprio speciali. Un saluto.
Qui c’è il comunicato stampa completo: http://eco-del-silenzio.blogspot.com/2011/02/liberi-leggere-liberi-pensare.html
Moh – sono belle parole e non basta mai ripeterle però Loredana te qui le avevi già scritte, e anche altre di noi sono sicura. Mi sarebbe piaciuto che la Bravo rispondesse anche sugli altri punti della questione. E’ anche abbastanza difficile non essere d’accordo con questo no? Anche abbastanza scontato. E d’altra parte… possibile che tra “perdente” e “responsabile con nome e cognome di una cazzata” non ci sia via di mezzo? “Perdente” è relativo al modo di giudicare del lettore e certo del linguaggio di chi lo usa – si può sempre evitare quando eticamente lo si vuole evitare, pur usando un nome, e chiamando in causa la responsabilità che solo un nome sa evocare.
Grazie della risposta. Già avevo un sospetto che ci si rivolgessi a qualcuno in particolare ma ora ne ho la certezza. In ogni caso il discorso sull’involuzione del linguaggio è una cosa che nulla ha a che vedere con l’individuazione di una parte del collettivo di una società, alla quale indirizzare delle critiche, e che di volta in volta può essere una parte che lede, una parte lesa, una parte al potere, una all’opposizione, una che abbracci una causa piuttosto che un’atra. Insomma, poi ognuno usa il proprio stile e gli altri idem rispondendo. Questa è la democrazia (vero Binaghi?).
Anyway concordo sul discorso del linguaggio, peraltro ne ha parlato ieri sea anche Vendola da Santoro dopo aver sentito Grillo che sparava “calci nel culo a profusione” per tutti. Vendola però parte col piede sbagliato, perché poi rischia di poeticizzare troppo il linguaggio, con metafore talvolta oscure, talvolta ridondanti. Certo meglio il linguaggio poetico-declamato di Vendola a quello della lega. Nel mio piccolo è da anni, ad esempio, che cerco di evitare l’uso della parola “cazzo” volta a rappresentare elementi e giudizi negativi. E’ dura, molto dura liberarsi di alcuni vizi imposti per costume acquisito dalla collettività, specie quando dall’altra parte ti rispondono che sono solo fissazioni. Penso cioè che il Maschio abbia problemi a guardare alla propria sessualità come a qualcosa di meraviglioso, al pene in particolare. Allora chiedo a voi donne cosa pensate, e se non vi infastidisce usare il termine “figata” per il meravioglioso e “cazzata” per l’orrendo o cmq il deprecabile. (su, così ci perdiamo via un po’; poi domani mi taccio e che Venere ce la mandi buona).
Io la parola “perdente” e anche “sfigato” l’ho usata per definire i puttanieri..forse avrei potuto usare “sfortunato” o “triste”, ma mi sembrava che questi termini rendessero meglio l’idea, mi dispiace se ho ispirato istinti violenti in Anna Bravo.
La coppia vincente/perdente esiste anche in altre lingue, per esempio in inglese, dove soprattutto “loser” si usa nel parlato per indicare un fallito (e.g. you’re a loser) ; il contrario “winner” indica la persona di successo, ma è spesso usato in modo sarcastico (per qualcuno che pensa di essere persona di mondo) o semplicemente antifrastico, oppure acquista una marea di altri significati. Non so quanto tale espressione sia diffusa nell’italiano di oggi: in italiano resistono ancora altre espressioni, se vogliamo ancor più connotate e sessiste, come “vincere la battaglia” o anche “il vincitore morale” (legata forse a un certo episodio di storia sportiva). Sicuramente l’immagine del “vincente” ricorda molto una certa etica dello yuppismo e del rampantismo anni 80 e non sono sicura che sia un’involuzione specifica di questi anni.
Mi sembra più interessante la questione del distinguere “identità” (monolitica ed essenzialista) vs. “singolarità” (che è quella delle pratiche e dei comportamenti). In questi anni molte riflessioni condivisibili sono state formulate sui limiti e sui pericoli dell’identità (in italia ne ha scritto Francesco Remotti, mi pare), e sappiamo tutti che fare i nomi è come puntare l’indice contro i “cattivi” (o i “perdenti”), però sinceramente non credo che la genericità sia una buona alternativa. Penso che si possano trovare altre strade per imparare, appunto, a problematizzare comportamenti e responsabilità soggettivi, senza nascondersi dietro a persone retoriche e locuzioni tuttofare.
Penso sia diverso citare una persona, un autore, una posizione, un comportamento. Ma penso anche che sia anche molto apprezzabile evitare di identificare una persona con un comportamento o con una posizione quando si sa che questi possono mutare. Piuttosto osservo anch’io una tendenza a usare taluni accostamenti allo scopo di screditare persone o fissarle su posizioni che non ci sono piaciute, pertanto mi convince l’osservazione di Anna Bravo che contiene l’indicazione a un maggiore rispetto e a cercare di accogliere l’altro per ciò che è disposto a mostrare di sé. A me, ad esempio, capita di fare riferimento a ciò che so già di qualcuno perdendo così la possibilità di relazionarmi a ciò che in lui/lei è evoluto, cambiato. Devo dire che non è facile rinunciare all’idea che ci si fa di qualcuno e che anzi, un po’ si soffra a farne a meno per aprirsi a ciò che può essere nuovo. E’ come se si rinunciasse al proprio bagaglio di informazioni e non si pensa che così si rischia di affidarsi ai pregiudizi, o a giudizi che appartengono alla nostra esperienza, ma al passato. Prendo la riflessione di Anna Bravo, come l’occasione per un esercizio da fare, ovvero quello di cercare di fare qualche astrazione in più rispetto a quelle che (non) mi vengono spontanee. Insomma penso che ci sia una indicazione di grande civiltà nei rapporti nelle considerazioni della Bravo, quelle che stanno pericolosamente venendo a mancare in questa brutalizzazione progressiva della nostra faticosa convivenza.