Spero di arrivare ultima, perché spero che la discussione, anzi la polemica, anzi la guerra che si è scatenata soprattutto in rete su quello che ormai è divenuto, purtroppo, il caso Giulia Ichino-Chiara Di Domenico, lasci infine il posto a problematiche che riguardano davvero la situazione del precariato editoriale e non solo. Per chi non sapesse nulla della vicenda, rinvio all’ottimo e condivisibile intervento di Michela Murgia: uno fra le decine di post e fra le centinaia di commenti sui social network che hanno riempito il web in queste ore.
Quel che ho da dire è che questa storia ha avuto una funzione primaria e forse importante, ovvero quella di far esplodere una contrapposizione fin qui latente. Certo, l’esplosione è stata pessima, con tutte le semplificazioni e le accuse che avvengono quando si parla alla pancia: da una parte chi non ha tutele nè speranze di averle, dall’altra coloro che le hanno, non importa se guadagnate o meno; da una parte gli incazzati (giustamente), dall’altra i “salottieri” (includendo nella definizione chiunque non si sia schierato con Chiara Di Domenico, non importa se lontanissimo dai cosiddetti salotti e non importa se di precariato, magari, si è occupato o se è stato precario fino all’altro ieri: qualunque sia la sua storia, è stato accomunato nella vilissima razza di “casta intellettuale” con le briciole di brioche fra i denti e l’attico all’Aventino).
Non tutti gli incazzati e non tutti i salottieri hanno dato il meglio di se stessi, in questa vicenda: se non altro, perché moltissimi hanno contribuito a radicalizzare le due posizioni, io sto con Giulia o io sto con Chiara (come ricordava Zauberei, un sito ha persino ideato un sondaggio su chi sia più prepotente, votate ragazzi!). I primi, inoltre, rifiutano in molti casi come interlocutori chi non si trova nella stessa condizione economica e lavorativa (come se non si potesse difendere i diritti degli omosessuali da eterosessuali, per fare un solo esempio: come se un docente universitario – dunque privilegiato – come Marco Revelli non avesse detto le cose più dure e importanti in materia: ma tant’è), i secondi bollano, in molti altri casi, rivendicazioni sacrosante come piagnisteo invidioso o come squadrismo. Non è bello. Per fortuna ci sono altri, come Claudia Boscolo, che cercano una giusta via terza: denunciare sì, ma in altri termini.
Quello che varrebbe la pena di fare, anzi che sarebbe indispensabile fare, è tornare al punto. Lo stato delle cose nell’editoria italiana è pessimo (e non solo nell’editoria, certo: complice anche la legge Fornero-Ichino, se non fosse chiaro): si licenzia, non si rinnovano contratti, si lavora al nero, non si viene pagati. Avviene a tutti i livelli, piccola editoria inclusa (ed è singolare che i nomi, in questo settore, non vengano fatti: comprensibile temere le ritorsioni, certo, ma dal momento che molti che non hanno propriamente la coscienza pulita stanno passando sulle barricate dei ghigliottinatori, verrebbe da pensare che il nome di Giulia Ichino sia stato il più comodo da tirar fuori). Dunque, è necessario tornare al problema e non all’elefante: che non è quello che siederebbe nei salotti letterari, ma quello che ci si è materializzato davanti alle tastiere dei pc in questi quattro giorni. Non è la discussione su chi sta con chi a contare. Sono le vite e le richieste di chi sta realmente rischiando tutto in questi mesi. Per questo, ricevo e pubblico con grande piacere il comunicato stampa dei cinquanta lavoratori atipici di Mondadori, che peraltro questa sera hanno chiesto (non so se ci sia stata risposta) di essere presenti a Piazzapulita accanto a Chiara Di Domenico.
Comunicato dei lavoratori atipici Mondadori
Siamo 50 lavoratori atipici della casa editrice Mondadori e riteniamo essenziale portare all’attenzione generale quello che è il vero problema nella gestione del personale dell’azienda in cui lavoriamo, al di là delle pretestuose polemiche – non esenti da strumentalizzazioni politiche – circa l’assunzione di Giulia Ichino, persona il cui valore e la cui correttezza sono fuori discussione.
La questione vera è un’altra: da anni la casa editrice non assume più a tempo indeterminato e basa la sua poderosa produzione sul lavoro parasubordinato, ma illegalmente non riconosciuto come tale, di una schiera di lavoratori a progetto.
Un organico ombra, che assicura all’azienda la presenza quotidiana e la competenza per pubblicare i libri senza averne in cambio alcuna garanzia.
Non basta. Mondadori ha approfittato della recente legge Fornero, che restringe i parametri per la stipula di nuovi contratti a progetto, per precarizzare ulteriormente i lavoratori delle redazioni, imponendo loro di aprire la partita Iva o di prestare il proprio lavoro attraverso l’intermediazione di un’agenzia interinale.
A fronte di ciò, ci siamo uniti per proporre all’azienda una soluzione alternativa all’esternalizzazione selvaggia, che preveda la trasformazione delle collaborazioni autonome in rapporti di lavoro subordinato, anche rinunciando ad alcune delle prerogative di questi rapporti, e rispettando la necessità di evitare aumenti di costo e di rigidità per l’azienda. Tutti insieme e tutti d’accordo abbiamo chiesto anche una consulenza al professor Ichino, certamente uno dei massimi esperti in materia.
La nostra proposta è stata trasmessa all’azienda con una lettera raccomandata dello scorso 18 gennaio. Chiedevamo una risposta entro quindici giorni. Ebbene, quel termine è scaduto ma la risposta, finora, è stata solo un ferreo silenzio, mentre proseguono i contatti con i singoli per la firma dei nuovi contratti di esternalizzazione.
“anche rinunciando ad alcune delle prerogative di questi rapporti”.
Questa frase ci mostra quale sia in questo momento il “fronte” della battaglia. Al di là dei “furbetti”, che in campagna elettorale spuntano come funghi, e delle loro strategie più o meno sballate, oggi i lavoratori italiani devono lottare contro il “ricatto” imposto dalla crisi.
Si tratta di una lotta di difesa, la più difficile, che costringe a grandi sacrifici ed è priva di soddisfacenti momenti di vittoria.
Questa lotta, essenziale per mantenere i diritti acquisiti nel tempo, può essere condotta esclusivamente dopo la presa di coscienza dei lavoratori riguardo all’ appartenenza ad una classe. Non solo debbono essere scongiurate contrapposizioni tra precari e lavoratori a tempo indeterminato, ma occorre che i lavoratori di altri settori e categorie si schierino in difesa di tutta la classe. Per fare un esempio, i lavoratori della scuola cosa stanno facendo per i precari della Mondadori? Probabilmente son tutti tranquilli per aver scongiurato, per adesso, l’aumento delle ore lavorative a parità di stipendio. Eppure sono lavoratori della conoscenza così come i precari delle case editrici.
Sia chiaro, non sto accusando gli insegnanti, ci mancherebbe, sto accusando partiti e sindacati, accecati dalla vista di poltrone e improbabili risoluzioni di conflitti con l’appoggio dei “vincitori” della sfida elettorale.
Quando ho visto i lavoratori dei cantieri navali di Genova scendere in sciopero, e i lavoratori dell’Ansaldo e di altre ditte, non direttamente collegate, scendere al loro fianco, ecco, lì ho visto cosa deve essere una lotta per il salario e per i diritti.
Adesso invece vedo stupide e machiavelliche manovre elettorali, disperate ricerche di consensi e grandi egoismi.
«le vite e le richieste di chi sta realmente rischiando tutto in questi mesi», dici: infatti. E infatti l’hanno buttata in caciara, per non parlare di quelle vite e di quei destini, quando basterebbe una domanda semplice, alla famiglia Ichino (c’è anche un fratello di Pietro, Andrea, anche lui professore, anche lui “di sinistra”, nondimeno consulente dell’ex ministro Gelmini su come tagliare ulteriori posti di lavoro e fondi alla scuola pubblica) come a Bersani che ha abbracciato Chiara Di Domenico: queste leggi le volete abrogare, o volete tenervele? E se il primo caso, subito o in quali tempi? E se il secondo, così come sono o con qualche modifica?
Giusto per dire che chi si candida a governare ci deve mettere la faccia e la parola (ma tant’è…), non fare sorrisetti in pubblico in attesa che dalla BCE gli spieghino cosa deve dire fare pensare precarizzare licenziare.
Infatti. Quello che è avvenuto in questi giorni è esattamente la “caciara” che ha nascosto, e non reso pubblico, il problema. E la lettera degli atipici, con la frase che riguarda la rinuncia alle prerogative (sic e sigh) dovrebbe fare toccare con mano quale sia la stretta a cui siamo sottoposti. Siamo, tutti, alla faccia delle contrapposizioni.
vero, vero, vero, vero. grande.
non ho apprezzato particolarmente il discorso di chiara di domenico, sia sotto l’aspetto formale (la retorica ricattatoria, la posa sgraziata) che sui contenuti, espressi in modo molto rozzo, come ha evidenziato l’articolo della boscolo. al contempo trovo molto scorretto il tono di supponenza della boscolo verso il lavoro intellettuale, quasi che sia un hobby che non merita le tutele di altri lavori (tipo quella della povera barista madre di 4 figli). e penso che chiara abbia sbagliato pure il nome. io non conosco giulia ichino e non so se merita quella posizione, però credo che sarebbe stato più opportuno e coraggioso, volendo indicare dei privilegi legati al cognome, parlare per esempio di gente come stas gawronski o bianca berlinguer, che lavorano in aziende pubbliche e che non sono figli di fuoriusciti dal partito. ma la questione dei nomi resta centrale. so che ingenera contrapposizioni manichee e semplicistiche, ma senza qualche nome una denuncia normalmente cade nel vuoto, e se oggi si parla del comunicato dei lavoratori della mondadori è soprattutto perché chiara ha fatto quel nome, giusto o sbagliato che fosse. in ogni caso, più ancora che il nepotismo, ciò che affossa il mondo del lavoro italiano rispetto ad altri stranieri è il sistema di cooptazione personale. senza un padrino che ti presenti e garantisca per te non c’è speranza di lavorare. i concorsi sono spariti a tutti i livelli, anche dove formalmente resistono (l’università, per es.), e il merito non ha più cittadinanza in questo paese. allora volevo segnalare un piccolo aneddoto recente a margine di questa discussione, ma sempre restando sul tema della meritocrazia. fra i nuovi giurati dello strega, il massimo premio letterario italiano, è stato appena eletto massimo maugeri, il blogger di letteratitudine, ed è stato bocciato per l’ennesima volta andrea cortellessa.
Tutto molto condivisibile, tranne forse l’aggettivo “atipico”, direi fuoriluogo, almeno se si osserva la realtà per davvero, senza nostalgia per un passato che vorremmo tipico, ma non esiste più. Piuttosto non c’è niente di più tipico di quanto sta succedendo nell’editoria, e in tutti i settori in decadenza, perché non più in grado di proporre prodotti di successo a costi sostenibili. Assistiamo alla guerra per il pane, dove il pane non c’è, se non per chi ha trovato il tuo posticino all’interno della fortezza che si difende a oltranza dalle scorribande del mondo che cambia. Nessuna reazione, al massimo richieste di sostegno pubblico alla politica, per un affare come l’editoria che vuol essere privato e indipendente sino a quando guadagna e pubblico quando perde. Questo si che è tipico.
quello che Ichino,e tutti quelli che ragionano come lui fa finta di non capire è che tra l’applicazione pratica e la promozione virtuale delle sue interessanti teorie passano quelle tragedie umane che secondo i padroni del vapore sono da silenziare per non guastare la festa(a proposito in mezzo a tutte le boutade idiote di B quella sul fatto che dall’alto qualcuno spinge perché non si parli dei suicidi è l’unica cosa da prendere sul serio).Senza contare che molti imprenditori barano speculando sugli ammortizzatori sociali grazie alle ormai familiari enfatizzazioni dello stato di crisi della propria azienda,spesso continuando a fruire segretamente delle prestazioni dei propri lavoratori in mobilità retribuita ottenuta operando vagamente su una linea in bilico tra una promessa e il ricatto.Sul punto sarebbe interessante trovare testimonianze dal momento che,al di la del bene e del male,coloro che si comportano come gli sciacalli dei luoghi comuni non piacciono a nessuno
Ma dai, sergio, come fai a dirmi che ho un atteggiamento supponente verso il mio stesso lavoro? Leggi meglio, mi riferivo a scelte di vita di cui uno deve pur assumersi le responsabilità. Mi riferivo al fatto che, con riferimento specifico al discorso di chiara, non si può dare la colpa alla normativa perché a quarant’anni si condivide casa come studenti, che è quello che dice lei. Poi citi maugeri come fosse un raccomandato, anche qui, che errore madornale, è semplicemente più conosciuto dal pubblico. Che poi se c’è uno che nel mondo della critica letteraria detta legge su chi pubblica cosa e dove, quello è cortellessa, per cortesia.
Volevo invece ringraziare Loredana per avere divulgato il mio intervento, che è poi un punto di vista interno, perché i collettivi con cui collabora chiara di domenico (quinto stato in primo luogo) sono anche quelli che rappresenterebbero le istanze di cui mi occupo, da qui la delusione profonda per i metodi e i toni che sono stati usati. Si sta discutendo per correggere il tiro, anche se la frittata è fatta, almeno per quanto mi riguarda. Inoltre concordo con Girolamo che tocca proprio il punto dolente.
Sarà il tuo lavoro, ma frasi come “scelte di vita di cui uno deve assumersi la responsabilità” sono una stupidaggine. E’ un lavoro che merita le stesse tutele di tutti gli altri, baristi compresi, e che non giustifica in nessun modo una retribuzione miserabile (quando c’è, perché a volte non c’è neanche quella, e se ti capita di chiedere i soldi sei mesi dopo per un articolo che hai scritto su un quotidiano nazionale di sinistra devi sperare nella loro buona volontà; questo in genere a un barista non succede). di maugeri non ho dettio che è un raccomandato, dico che la caratura intellettuale sua e di cortellessa non è minimamente paragonabile, oltre ad essere molto più conosciuto quest’ultimo (e non solo dagli addetti ai lavori). uno scrive sulla stampa di torino e l’altro su un blog letterario di seconda fila (basta leggere le classifiche di blogbabel sui litblog). cortellessa (e a volte mi viene da dire per fortuna) non detta legge di niente, e il fatto che non lo ammettano lì da anni ne è la riprova.
Scusa, che rapporto c’è fra la necessità di ristabilire le tutele, che è precisamente il cuore del mio articolo, e di quello che ha detto chiara anche se si è espressa male, e la questione abitativa, che è quella a cui si riferisce la frase da te citata? Mi sa che sia l’intervento di chiara che il mio li hai letti in maniera superficiale, ti consiglierei una seconda lettura perché stai facendo confusione e polemica sul nulla. Per quanto riguarda il resto, le lagne per non essere eletto giuria dello strega o non essere ammesso a scrivere sulla stampa siano ritenuti argomenti da tirare in ballo in un dibattito come questo, la dice lunga su come siamo ridotti.
Scusate la deriva, ma condivido Sergio. Dire che Maugeri, persona degnissima ben inteso, sia stato scelto fra gli amici della domenica perché “più famoso”, proprio non so che significhi.
Famoso per chi? E poi, si scelgono per fama o per competenza i giurati?
Senza che Maugeri me ne voglia… anzi, facciamo che sia stato io quello scelto, così evitiamo fraintendimenti: sapere di essere stato scelto ed altri come Andrea no (sia ben chiaro, con lui c’ho litigato e ci litigherò ogni volta che capiterà) mi metterebbe in imbarazzo.
Che poi Cortellessa detti legge è un’altra semplificazione un po’ da blogger. Da quel che so ad oggi non dirige alcuna collana in nessuno dei grandi gruppi editoriali, e gli autori che propugna tutto fanno tranne che scalare le classifiche.
In quanto al tema Murgia mi apre abbia espresso più che bene la questione. Dobbiamo però non perdere mai di vista, e persino ragionare, attorno alla rabbia. Sentimento comunque umano e necessario.
Rapidissimo inserimento nella deriva e scappo via fino a stasera: io sono contenta per Massimo Maugeri, invece. Perché da anni, tutti i giorni, segue il mondo letterario. Il che non significa che non ci siano altri nomi degni di essere in giuria: ancora una volta, la contrapposizione ad personam non mi piace. Chiusa deriva.
non è la questione abitativa, che comunque non è irrilevante ma legata al reddito e alla sicurezza della retribuzione. ti ho fatto esempi concreti (scrivere su un quotidiano nazionale di sinistra e non essere pagato quei pochi soldi dopo molti mesi, lo stesso giornale che enfatizza la notizia dell’abbraccio di bersani) e nessuna lagna personale, tant’è che non ho parlato di me ma di una persona con la quale ho avuto forti contrasti, ma che senza alcun dubbio meritava quel posto (lì sì che un po’ si detta legge) molto più degli altri. e questo, sì, è uno degli aspetti cruciali che “la dice lunga su come siamo ridotti”.
loredana, da anni tutti i giorni siamo in migliaia a seguire il mondo letterario. poi oltre alla passione ci sono le competenze, e l’autorevolezza. se le mettiamo in cantina non andremo da nessuna parte. qui non si tratta di contrapposizioni personali, lui/l’altro, lei/l’altra, si tratta di merito, che non è l’appretto con il manico.
Grazie, credo di essere in grado di dare un significato alla parola merito. Semplicemente, non mi sembra utile “il perché lui sì e l’altro no”. Così che non mi è sembrata utile la polemica nominale cui mi riferivo nel post.
@ diamonds
è un po’ più grave che “far finta di non capire”, da parte di Pietro Ichino. Il suo studio legale difende sistematicamente i padroni nelle cause contro i lavoratori licenziati o che chiedono stabilizzazione. Conosce benissimo le “tragedie umane”, le conosce tanto bene da sapere con chiarezza da che parte stare. Detto questo, al netto del mio personale disprezzo per il modo in cui il professor I. si guadagna da vivere, resta il riconoscimento del fatto che il professor Ichino non ha mai nascosto le proprie idee e la propria pratica professionale. Sono altri – compreso Bersani – che fino a 10 minuti fa fingevano di non sapere chi è e cosa fa e cosa vuole Ichino (e non solo lui), e adesso se ne lavano le mani dicendo che “è andato dall’altra parte”. No, è rimasto là dove è sempre stato!
la menzione dell’episodio circa la nomina dei nuovi giurati dello strega è un esempio eclatante di come si è formata e si sta formando la classe dirigente di questo paese, se no facciamo pura teoria. se la letteratura italiana contemporanea conta a livello internazionale quanto san marino (con tutto il rispetto per san marino) dipende soprattutto da questo. è un problema di filtri, non è che gli italiani non sappiano scrivere. i filtri sono i selezionatori (critici, giurati di premi, editor, capiredattori culturali), gente che parlando di cinema non sa distinguere tra vincenzo mollica (ma con un pubblico molto più ridotto) ed emiliano morreale. fra l’altro, perfino la categoria dei blogger letterari ne annovera di molto più ascoltati ed autorevoli (ed altrettanto appassionati); se pescando lì si è voluto dare un contentino alla rete, quasi a smentire le frequenti accuse di gerontocrazia.
Parlo da ignorante e da stupido, però ci provo lo stesso. Mondadori è un’azienda privata, se vuole mettere un cane, un cane vero e proprio non una persona squalificata, alla linea editoriale fatti suoi. Quindi la questione dei raccomandati in una azienda privata è ridicola, al massimo se è quotata in borsa sarà diritto degli azionisti sapere come vanno le cose, non lo so. L’importante è che rispetti i contratti di lavoro. se i contratti che propone non sono dignitosi non si accettanno. non sta scritto da nessuna parte che una azienda deve assumere per dare un buon lavoro, se una azienda produce con metodi che non piacciono affanculo l’azienda. il che implica che chi scrive per quella azienda smette di scriverci e chi compra i libri di quella azienda smette di comprarli e chi lavora per quella azienda smette di lavorarci e comincia insieme agli altri a pretendere contratti migliori.
@Sergio Garufi, l’esempio peggiore che si possa fare in questo discorso è quello dello Strega, che è un gioco di società interamente fatto di interessi economici e di relazioni a rendere: chi aspira all’affermazione di una logica del merito può sperare tutto tranne che di essere chiamato a fare il giurato al Ninfeo; mi stupirei moltissimo se Andrea Cortellessa avesse questo rimpianto.
La stessa logica vale per i posti di lavoro dove, si dice, i nomi che contano ti passano davanti. Anche ipotizzando che sia sempre vero, e non lo è, quale legge potrebbe impedire a un’azienda privata di offrire le sue occasioni a chi le pare? Lamentarsi dell’esistenza dei vantaggi di conoscenza è un’azione pre-politica, senza alcun costrutto e mi spingerei anche a dire stupida, specialmente se compiuta davanti alla platea di un partito dove i dirigenti pubblicano da anni opere di narrativa per tutto l’arco editoriale e non certo per evidenti meriti letterari.
Il discorso dell’attribuzione del merito è strettamente connesso a quello della distrubuzione del potere: per pensare di toccare il primo meccanismo senza mettere in discussione il secondo bisogna essere molto ingenui o molto in malafede.
@ *°
Secondo te la Mondadori è la regola o l’eccezione, nell’editoria italiana?
L’editoria è la regola o l’eccezione, nel mercato del lavoro italiano?
Il mercato del lavoro italiano è la regola o l’ecccezione, nel mercato globale?
@Michela Murgia, il modo peggiore e più stupido per far sì che lo Strega sia sempre meno un premio letterario e sempre più un gioco di potere editoriale è eleggere certe persone e non altre. Tra i giurati del Ninfeo c’è di tutto, gente che ci capisce (Angelo Guglielmi) e gente che non c’entra niente (boiardi di stato, politici ecc). Continuiamo a ragionare così e ci saranno solo questi ultimi. Per me non è tutto perduto, non a caso all’ultima edizione un bel libro come quello di Trevi ha sfiorato la vittoria, ma magari sono ingenuo.
Sergio, la rilevanza popolare dello Strega non deriva dalla presenza di questo o quel giurato nobile, ma dalla macchina editorial-mediatica che legittima e certifica l’intero meccanismo e il suo risultato. Se pensassi che questa economia può essere alterata in meglio aggiungendo battitori liberi, avrei accettato il diritto di voto quando mi è stato proposto. Non l’ho fatto non solo perché moralizzare lo Strega non sta in cima alle mie priorità di vita, ma soprattutto perchè non credo affatto che quella dinamica possa essere modificata: è costruita per funzionare così a prescindere da quante persone in buona fede o “che ne capiscono” ci siano dentro.
Però mi rimane la domanda: secondo te chi è che lo decide se tizio ne capisce e caio no? L’ambito editoriale è uno di quelli in cui il criterio del merito si rivela più scivoloso e ambiguo. Chi è che certifica il merito, se non una struttura di potere che si dà autonomamente i suoi parametri e attraverso quelli si arroga l’arbitrio di dire “tu dentro – tu fuori”?
Accettare acriticamente il criterio del merito significa ammettere che ci sia un ente preposto a dire cosa è meritevole e cosa non lo è. Per te quell’ente dovrebbe prendere Cortellessa e scartare Maugeri, ma in che senso potrebbe farlo con un diritto morale superiore a quello di chi sceglie Maugeri e scarta Cortellessa?
Poi finchè parliamo di Strega, parliamo del niente.
E’ quando torniamo al discorso principale, cioè alla dimensione del lavoro vero con cui le persone campano, che il cosiddetto merito si rivela in tutta la sua durezza fordista e classista. Il criterio del merito – che tradotto in “produttività” è non a caso uno dei cavalli di battaglia ichiniani – assegna al potere economico ogni normatività, togliendola di fatto alla legge. L’azienda decide il merito e al merito cercherà di legare salario e diritti. Ogni volta che sento questa parola, il mio senso di ragno pizzica, perchè in fondo a me non importa di sapere se Giulia Ichino è più o meno brava di qualunque altro editor in qualunque casa editrice: mi interessa sapere che tutti, lei e gli altri, stanno lavorando con gli stessi diritti, con le stesse tutele e con le stesse certezze di vedersi riconosciuto il valore del lavoro.
il tema delle tutele per tutti è un discorso che è già stato affrontato in modo esauriente, e non mi sembra che ci sia nessuno a contestarlo. questo dello strega è a margine di questa discussione, e riguarda la formazione di una classe dirigente. quando ti fu proposto il voto allo strega rifiutasti perché non ci credi, ma cortellessa evidentemente no, e a quanto mi risulta le candidature (per fare il giurato o essere votato come autore) hanno bisogno del consenso della persona interpellata, non è che si fanno col metodo scajola, a sua insaputa. lui non si sarà dispiaciuto dell’esclusione perché è un signore, ma a me spiace. poi non ci credo che non capisci i motivi per cui lui sarebbe più meritevole di chi è stato eletto, non scherziamo.
Sergio, non mettermi in bocca parole che non ho scritto. Ho detto semplicemente che i criteri di merito stanno comunque in capo a un potere che si dà i suoi parametri e in base a quelli sceglie o scarta.
Il potere che oggi dice che Maugeri è dentro e Cortellessa è fuori non è meno legittimo sul piano oggettivo del potere che dicesse che Cortellessa è dentro e Maugeri fuori.
Il punto quindi non è se Cortellessa è meritevole secondo me, ma a chi stiamo riconoscendo l’autorità di stabilire i criteri del merito.
Se vuoi sarò più chiara: se accetti il voto allo Strega convinto che averlo certifichi il tuo merito, stai dicendo che lo stesso potere che ha certificato te ha il diritto di certificare anche i boiardi di stato che votano insieme a te. Quindi se ti lamenti che Cortellessa è fuori e i boiardi di stato sono dentro, una delle due lamentele mi risulta contradditoria.
“se accetti il voto allo Strega convinto che averlo certifichi il tuo merito”
michela sei tu che mi attribuisci delle stupidaggini, così non si discute. quello che penso l’ho scritto, chi legge giudicherà. buon proseguimento.
Sergio, scusami, io ti ho semplicemente letto: hai scritto tu che allo Strega non c’è meritocrazia perché danno il voto a Maugeri e non a Cortellessa.
Com’è che da una discussione in cui si parlava della sofferenza delle vite precarie si è finiti alle sofferenze del noto critico letterario perché non lo fanno entrare allo Strega, e ai dispiaceri di chi com-patisce la sofferenza del tal critico letterario, e delle sofferenze del talaltro che dovrà giudicare i prossimi candidati al premio Strega? Se si doveva continuare a parlare dell’elefante, tanto valeva restare sul derby Di Domenico-Ichino jr: perché davvero, in tempi bui e stupidi parlare di Strega è un delitto, perché su troppi delitti comporta il silenzio.
E’ vero. ll fatto che da vite fatte di delusioni e sconfitte e speranze e angherie e pura sfiga (basta con il “precario”, vi scongiuro, tra un po’ ci fanno pure le scritte sugli accendini cinesi) si sia passati allo Strega con maggiore fervore e foga e risentimento, è piuttosto indicativo. Che coraggio. Che pena. E, permettetemi, quanto ribrezzo.
PS molto ma molto PS: Ahò, Giorgia, percosiamonati eccetera, evabbene che sarai pure la scrittrice/media creator del terzo millennio, ma ti prego, smettila con le tue scempiaggini (risaputissime) da apocalittica. D’accordo, l’editoria cartacea crollerà, balleremo sulle rovine, blah blah, blah. Contenta? Bene.
Io sono sempre più convinto dell’anno sabbatico…
Concordo molto con Girolamo e Giovanni. Sergio, davvero non capisco il paragone, sarà un mio limite. Ma avvicinare le vite di persone che rischiano di perdere tutto con il presunto sopruso subito da Cortellessa è incomprensibile.
Mi struggo per Cortellessa e, sapessi chi cazzo è (non dico per spocchia, ma sul serio), gli porterei in dono un pollo del girarrosto e una lattina di Finkbrau, ché così si rincuora e festeggia. Perché son problemoni.
Lasciaamo perdere il povero Cortellessa, che non chiede credo struggimento alcuno, e concordo molto con l’intervento di Giovanni e Girolamo. Riporterei la questione su quelli che – almeno secondo me sono le questioni cruciali.
– c’è la nuova legislazione sui contratti lavorativi (io devo dire che sono molto grata al post di Claudia Boscolo perchè mi ha chiarito delle cose residue oscure)
– la mancata osservanza ANCHE di quelle regole contrattuali, il che vuol dire lavoro in nero, e lavoro non pagato affatto.
-quanto questi fenomeni hanno a che fare con una crisi globale e quanto con una crisi di settore.
– quanto in questi fenomeni incide il fattore, per me antecedente alla riforma della legge 30, della rottura dell’ascensore sociale, per cui a prescindere dai cognomi e dal nepotismo dilagante esiste un patto di classe che regola i principi di cooptazione, e persino nell’università questo patto sociale dopo una finestra di reale democrazia è tornato a essere infrangibile
– quanto tutto questo, mi duole dirlo è più capillare, ideologizzato, diffuso negli ambienti professionali della sinistra intellettuale. Perchè dite quel che vi pare; i call center non pagano in nero, rispettano le norme contrattuali, versano regolarmente i contributi, alla data prefissata consegnano lo stipendio, spesso e volentieri questa osservanza delle regole contrattuali si osserva in altri settori del precariato. Ma a parte credo i nomi grossi dei gruppi grossi, a partire dalla semplice libreria, gli abusi sono continui e io li sento più frequenti che in altri contesti professionali.
Noi si parla di questo. Dello strega non ci frega niente- (ma faccio gli auguri al mio amico Massimo, che è al posto giusto più di altri – perchè secondo me quello è giusto che non sia un luogo per critici)
Michela Murgia ha scritto: “La stessa logica vale per i posti di lavoro dove, si dice, i nomi che contano ti passano davanti. Anche ipotizzando che sia sempre vero, e non lo è, quale legge potrebbe impedire a un’azienda privata di offrire le sue occasioni a chi le pare? Lamentarsi dell’esistenza dei vantaggi di conoscenza è un’azione pre-politica, senza alcun costrutto e mi spingerei anche a dire stupida,[…]”. Premesso che non sono d’ccordo sul primo punto (nel senso che in un paese non succube degli oligopoli editoriali politicamente assistiti dovrebbe essere il mercato, e non una legge, a rendere il merito preferibile alla cooptazione), trovo invece centratissima la descrizione di queste rivendicazioni contra personam come “azione pre-politica”. Vorrei prescindere dal caso specifico di Giulia Ichino, non avendo elementi per giudicare la veridicità di quanto affermato da Chiara Di Domenico. Credo sia anche superfluo sottolineare che fenomeni di questo genere non riguardano solo l’editoria: la sensazione è che una generazione di lavoratori giovani, anche molto in gamba dal punto di vista professionale, sia cresciuta senza alcuna consapevolezza della dimensione (almeno potenzialmente) collettiva della propria azione e delle proprie rivendicazioni. Lo vedo anche nel mio settore, che è completamente diverso dall’editoria, tutt’altro che immiserito e – particolare non trascurabile – meritocratico, almeno quanto lo si può essere in Italia; eppure, anche per noi il fatto di aver dovuto superare una selezione estremamente dura e di dover rispettare certi standard che travalicano il professionale per invadere la vita privata non sembra costituire argine a quella che ormai ha assunto la connotazione di pura e semplice invidia; da parte di chi è fuori senza magari aver neppure provato ad entrare, e anche da parte di chi è entrato in ruoli più dimessi di quelli a cui avrebbe ambito. Non c’è alcuna elaborazione di questo malcontento, nessun tentativo di trasformare questa materia prima – che spesso ha una propria ragion d’essere – in critica sistematica e azione rivendicativa di diritti: c’è solo la denuncia del collega presunto fancazzista e del tal altro presunto favorito. Tornando alla vicenda che ha provocato questa polemica, mi sembra che l’accaduto si inquadri bene in un contesto sociale e lavorativo atomizzato, in cui il disagio resta confinato all’interno della miriade di gruppuscoli che lo vivono e che, in nome di un miglioramento purchessia, sono disposti a subire abusi al limite della costituzionalità e oltre (l’offerta di mettere sul piatto alcune tutele tipiche del lavoro subordinato, i contratti schiavisti di Marchionne e tanti altri esempi). La strada che hanno davanti queste persone è ingrata, le loro sofferenze reali. Dovrebbero però rifare il passo che qualche decennio fa hanno fatto i loro genitori e dare dimensione politica alla loro rabbia e alle loro aspirazioni. Non per riproporre quegli schemi (la storia, tra l’altro, difficilmente si ripete identica a se stessa), ma per consolidarsi in una coalizione che li metta al riparo dal ricatto della guerra tra poveri in cui sono caduti in pieno. Purtroppo succede sempre più spesso, specie dopo la stagione dei mantra di denuncia delle varie caste, vere e presunte, che obiettivo della rivendicazione sia non tanto il proprio innalzamento sociale e professionale, quanto il riequilibrio verso il basso delle condizioni generali, a danno di chi qualcosa era riuscito a ottenerla e a tutto vantaggio di chi può profittare della parcellizzazione delle forze in campo per dettare le proprie regole. Insomma, io trovo che l’uscita di Di Domenico sia sbagliata. Lo sarebbe anche se la denuncia avesse ragion d’essere. Lei, quelli che si trovano nelle sue stesse condizioni e anche quelli come me che un contratto ce l’hanno dovrebbero ragionare insieme sul funzionamento del sistema e lottare per riformare quello, non contro altri lavoratori. Una cosa è stigmatizzare il familismo, altra cosa è mettere alla gogna una persona di fronte a un paese intero. Per un’operazione come questa posso provare comprensione, non certo simpatia.
Una buona volta, vogliamo toglierci dagli occhi le fette di prosciutto dei dogmatismi e degli ideologismi? Che cazzo c’entra la riforma fornero con questa storia? Lo volete capire che stiamo parlando di 50 persone che sono atipiche da parecchi anni, da ben prima della riforma Fornero? Vi siete accorti che se oggi hanno scritto quella lettera è perché con la riforma fornero la mondadori non può più rinnovare all’infinito il contratto cocopro ed è costretta a inventarsi nuove collocazioni contrattuali (partita iva con lavoro a casa, perché in sede scatterebbe l’assunzione) per evitare il tempo indeterminato? E ancora: i contratti flssibili esistono in tutti i paesi, ma mentre altrove la flessibilità (e quindi il rischio) comporta uno stipendio più alto, qui invece accade il contrario e il lavoratore precario guadagna meno dello stabilizzato. Perché? Cominciamo di qui, non c’è peggior modo di risolvere i problemi che discuterne rifacendosi ai soliti cliché…
Ideologismi vuol dire tentare di difendere i diritti dei lavoratori, Alessandro? Ideologismi vuol dire – magari lo spieghi lei a Pietro Ichino – tentare di curare con la vecchia e feroce aspirina del licenziamento facile la questione della disoccupazione? Allora nei paesi dove si può licenziare senza troppi problemi la disoccupazione non dovrebbe esistere, giusto?
Io non ho dati per poter fare delle comparazioni. Credo che l’Idea di Ichino si fondasse sull’esempio degli Stati Uniti, dove – soprattutto fino a prima della crisi – l’ascensore sociale funzionava decisamente meglio del nostro grazie anche alla mobilità sociale dovuta all’agevolezza delle forme contrattuali. Le persone che in Italia sono nate da famiglie piccolo borghesi o operaie e che hanno voluto per esempio perseguire una carriera intellettuale – in Nord America hanno avuto occasioni che in Italia sarebbero state loro assolutamente precluse da un mercato del lavoro asfittico e strazionario. Quando perciò Ichino fa le sue proposte, tendo a essere meno severa nel giudicarle, perchè capisco che ha in mente quel modello.
Però ho anche la sensazione che in questo dibattito si sottovaluti grandemente la resistenza che oppone a qualsiasi miglioramento soprattutto nel mondo editoriale e più generalmente intellettuale il lavoro nero e non retribuito. Il mercato – non è faatto solo di grandi gruppi che davvero si possono permettere di beneficiare di una legge sul lavoro che rende sostituibili i dipendenti, ma con l’appaltamento dei servizi (giacchè anche le case editrici medie non seguono più tutta la filiera del libro, per esempio) non si sa quanti chiedano davvero di lavorare SENZA contratto se non gratuitamente. Questo ammasso di piccoli istituti, piccole agenzie, piccola editoria che lavora fuori dalle regole o gratis costituisce il ventre molle e la deriva verso cui vengono sputati tutti quelli che perdono il lavoro, e dove vengono trattenuti usciti da una situazione contrattuale quantomeno regolare. Fin tanto che non ci si occupa in questo paese dell’endemico problema dell’evasione della legge, continueremo a produrre riforme e cavilli che non risolvono niente.
nota a margine per @zaub e tutt*, non direi proprio che siano tutti bravi a rispettare le regole al di fuori degli ambienti in questione, garantito e provato sulla mia pelle negli anni del mio variegato curriculum.
Il punto è che certe forme contrattuali sembrano fatte apposta per non essere rispettate: la ditta ti fa un co.co.co. con l’indicazione obbligatoria di una fascia oraria, poi te ne impone tutt’altre – per fare un’esempio.
Questo per dire che il problema non è il rispetto delle leggi, sono proprio certe leggi – e Ichino quando ha avuto l’idea (e soprattutto ovviamente gli altri prima di lui) sapeva benissimo in che paese viveva.
per il resto quoto in pieno l’intervento di Maurizio, con cui farei un Manifesto.
È vero quello che dice Laura, ma sulla questione dell’applicazione arbitraria dei contratti di collaborazione continuativa e a progetto si e discusso a lungo, è uno dei cardini del pensiero di Ichino quello di imporre una regolarizzazione proprio dell’abuso di quella tipologia contrattuale per evitare forme di mobbing. Poi è chiaro che pur di lavorare c’e chi accetta l’abuso, ma quella è una scelta personale. Io non l’ho accettato quell’unica volta in vita mia in mi è stato fatto quel tipo di contratto e infatti non me l’hanno rinnovato in quanto considerata una rompiballe. Ma mica si può andare avanti così. Il problema è proprio il rispetto delle leggi ed emerge anche da quello che scrivi tu.
grazie Claudia, preciso meglio: quel tipo di contratto prevedeva un tot di ore giornaliere in orario a tua scelta, mentre di fatto pretendevano illegalmente la presenza in una fascia fissa decisa da loro – come appunto se tu fossi stata assunta a tempo indeterminato (resistito pochissimo infatti). Questo in un esercizio al pubblico, che considerava il tutto normalissimo perché usanza consolidata.
Certo, è esattamente quello che è successo a me, anche se nel contesto dell’università. Succede praticamente sempre che a un co.co.co venga imposto un orario come se si trattasse di lavoro dipendente mentre non lo è, e non dà nessuna delle garanzie del lavoro dipendente e peró i datori (nel mio caso una macchina burocratica mostruosa come un’università dove le tutele dovrebbero essere applicate sistematicamente, se non altro per timore di ricorsi e vertenze) sono lasciati liberi di agire indisturbati. Il fatto poi che riportando l’abuso al sindacato mi sia stato detto che non potevano farci niente perché il co.co.co non è lavoro dipendente e quindi loro non se ne occupano, mi ha lasciata non dico basita, dico annientata. E siccome questa prassi come dici giustamente è consolidata, queste tipologie contrattuali semplicemente devono sparire perché in un paese come questo non hanno senso di esistere. O meglio: un senso ce l’hanno visto che chi ne beneficia è da anni esclusivamente il datore di lavoro a danni del lavoratore, di qualsiasi settore si tratti (oggi applicati pure alla P.A. ed è scandaloso, perché si può anche pensare che il privato possa fare quello che vuole – che non è vero – ma che lo faccia il pubblico è demenziale.
Credo sia poco chiaro alla cosiddetta opinione pubblica un aspetto centrale del mondo del lavoro: il pieno rispetto dei contratti di lavoro – diritti e doveri, come si dice – non è un dato, ma un obiettivo. È sempre stato così, sia chiaro. Uno dei primi segni del mutamento di clima, agli inizi degli anni Ottanta, fu quando nelle fabbriche di un noto imprenditore “progressista” proprietario di un’azienda all’epoca leader di settore gli stipendi cominciarono ad essere consegnati in buste aperte (in violazione della legge che tutela il lavoratore dal prelievo di una “tangentina” da parte del padrone). È per questo che, in generale, il ragionamento “abbassiamo le tutele, ma estendiamole a tutti” è valido solo dal punto di vista logico, non certo da quello della concreta realtà dei fatti. Se i lavoratori non hanno la forza di imporre, o creare, diritti, se chi dovrebbe tutelare i lavoratori firma gli accordi a prescindere (è successo alla Findus di Latina, che è come dire Findus-Italia: vedi l’articolo in ultima pagina del “manifesto” di oggi), addirittura prima ancora di entrare in contrattazione (è successo nella scuola con gli scatti di anzianità arretrati che saranno pagati con i fondi delle scuole), non si abbassa solo il livello di tutela del lavoro, si allarga l’area di illegalità, precarizzazione coatta, costrizione alla firma in bianco, ecc. Poi in televisione va in onda “Boris”, e il pubblico ride pensando che non sia tutto vero: io ho ribattezzato alcuni amici coi nomi dei personaggi di “Boris”. Di nuovo, i fratelli Ichino, come Treu, Biagi, Damiani, ecc., queste cose le sanno benissimo.
anche alla luce dei commenti di claudia e girolamo, a me sembra che il punto sia avere contratti “forti”. Utopistico in questo momento? Se si intende questo momento come una condizione di estrema frammentazione e coscienza poco diffusa tra i lavoratori, sì. E’ su questo che si deve lavorare a mio avviso, per poter aspirare a norme meno aggirabili.
laura.a. Non ho detto che altrove sia rose e fiori. Ho detto che ho la sensazione che in questo ambiente sia più frequente. Che è ben diverso. In ogni caso, in questo ambiente è particolarmente irritante il continuo richiamo al prestigio, alla passione, al fare le cose perchè ti piace farle anzichè al fatto che magni e paghi er gas.
Essere preda degli ideologismi significa chiudersi nella torre d’avorio dei dogmi senza accettare confronti con la realtà. Il fatto è che mentre in altri paesi (non voglio parlare degli Usa, bastano Germania, Francia, Austria, Benelux o paesi scandinavi) c’è un sistema di tutele che mira ad aiutare il lavoratore licenziato a trovare il più velocemente possibile un nuovo posto di lavoro, noi ne abbiamo uno che cerca il più possibile di tenere il lavoratore nel posto che ha. E’ evidente che in un’epoca di trasformazioni economiche sempre più rapide, questa impostazione è sempre meno sostenibile. E non dà neanche i risultati che si vorrebbe: nel 2012 abbiamo avuto un tasso di disoccupazione pari a quasi il doppio di quello della germania, quasi tre volte quello dell’austria, un paio di punti sopra quello della francia; che altri dati servono per capire che non funziona?
Con la questione precari mondadori, comunque, questo c’entra poco. La loro è una storia che inizia da molto prima della riforma fornero ed è fatta di co.co.co e co.co.pro rinnovati per anni quando questo tipo di contratti non avrebbe dovuto prevedere reiterazioni prolungate (ma sulla cosa hanno sempre chiuso un occhio tutti, dagli ispettorati del lavoro ai sindacati, dai governi di centrodestra a quelli di centrosinistra). Una valutazione senza ideologismni della riforma fornero dovrebbe riconoscere che la legge ha avuto almeno il merito di far emergere l’anomalia di due riforme – prima la treu e poi la biagi – che in sostanza hanno mancato l’obiettivo: nel caso specifico, la mondadori non potrà piuù rinnovare i contratti e dovrà assumere, oppure passare tutti a partita iva ma facendoli lavorare da casa (con problemi organizzativi non indifferenti) perché altrimenti la partita iva non è facilmente difendibile.
Invece, a leggere i commenti, sembra quasi che i precari mondadori siano diventati precari solo per colpa della riforma. Questo è prosciutto sugli occhi.
Caro Alessandro, sottolineare le criticità della riforma Ichino-Fornero non significa affatto sostenere che le riforme precedenti fossero positive. Cerchiamo di non confondere acque e affettati.