ESERCIZI DI MEMORIA PER COMMENTATORI ELETTORALI: UN RIPASSO

Facciamo un esercizio di memoria. Facciamolo prima di attribuire la vittoria delle destre in Italia e non solo ai vestiti di Ellie Schlein o alle mancate alleanze elettorali. Facciamolo provando, per una volta, a interrogarci su cosa ci è accaduto (e non è accaduto solo a noi) negli ultimi quindici anni. Facciamolo chiedendoci come sia possibile che “fare rete”, considerarsi parte di una moltitudine, non riesca o riesca occasionalmente e male.

2008
Esce un libro di Aldo Bonomi che si intitola “Il rancore. Alle radici del malessere del nord” (Feltrinelli). Bonomi si interroga su quello che avviene da tempo nel nord del paese, che manifesta il proprio disagio in vari modi: “in passato lo ha fatto affidando con forza la delega politica a un partito che esprimeva gli interessi del territorio regionale, la Lega Nord. Oggi invece manifesta il suo rancore con un atteggiamento di sfiducia nel complesso del mondo politico, e in particolare nei confronti dei partiti di centro-sinistra. La politica viene accusata di essere troppo lenta nel risolvere i problemi posti dallo sviluppo produttivo, ma anche di avere un atteggiamento vessatorio, per esempio sulla questione fiscale generale e soprattutto nei confronti del cosiddetto ‟mondo delle partite Iva” (ormai circa sette milioni in tutta Italia”).
Bonomi si pone, poi, una domanda folgorante:

“Come è stato possibile che chi sapeva tutto della fabbrica, della catena di montaggio, del rapporto fabbrica-territorio negli anni Settanta e Ottanta, a un certo punto si sia trovato completamente spiazzato di fronte al cambiamento?”.

Girolamo De Michele, recensendo il libro, sottolineerà come costituisca soprattutto “una vera e propria fenomenologia delle passioni, unificate dal «sordo rancore quale reazione alla frustrazione di un ruolo sociale perduto» che accomuna la “paura operaia” alla “paura della scarsità”, del non avere accesso a sufficienti risorse (…)  Lungi dal tendere al mite e all’omogeneizzazione, il sociale si sfrangia e moltiplica i punti di frizione, ciascuno dei quali richiede un lavoro di ricostruzione sul campo e di messa in opera di strategie di narrazione. Bonomi insiste molto su questa dimensione del narrare, e a giusta ragione: all’incapacità della sinistra tradizionale di narrare la società dell’ultimo quindicennio (della quale il nord costituisce, per certi versi, il laboratorio) corrispondono strategie narrative opposte ed efficaci, a dispetto dell’apparente rozzezza”.

2009
“…il conduttore ha voluto segnalare la «nuova scala di valori» che il berlusconismo ha introdotto mettendo al centro della società «l´individualismo» – al che la Meloni, che sarebbe anche un po´ «sociale», si è sentita in dovere di puntualizzare: «La persona, più che l´individualismo».”
(Il conduttore è Pierluigi Diaco, l’emittente è Radio Gioventù, ospiti Meloni e Berlusconi).
Un’inezia. Eppure dimostra come le strategie narrative del tempo, per rozze che fossero, trovassero accoglienza. Non capire quello che stava accadendo è stato un errore mortale.

2014
Ed ecco l’altro errore mortale. Quando rancore e individualismo sono ormai dilagati, quando i social hanno favorito la presa di parola (ripeto, per rozza che fosse e che sia), l’atteggiamento generale è stato quello di definire chi protestava come  “imbecilli”. Il che rafforzava la collera verso  la  “casta” è il disprezzo verso i “saputelli” o  “colti”, che per il fatto di esser tali con la casta medesima sono giocoforza collusi. E questo è uno dei punti da meditare bene: perché il disprezzo verso i cosiddetti intellettuali non è faccenda nuova, ha attraversato quasi tre decenni in varie forme e canali, ed è diventato ancora più profondo. Colpa di chi? In parte, certo, anche di un modo di concepire il lavoro intellettuale come distaccato dal sociale e dal quotidiano. In parte, di un “frame”  da cui non ci si libera perchè non viene affrontato.

Oggi

Il problema è che molti intellettuali sono stati e sono distaccati. Ripensate un momento alla coesione di ampi gruppi di scrittori e scrittrici sotto il governo Berlusconi. Guardate all’oggi. Non aggiungo molto perché ci tornerò.
A chiosa, le parole di Marco Revelli, sempre di nove anni fa. Parlava, allora, dei “forconi”, che abbiamo già dimenticato (così come abbiamo dimenticato che la rabbia  cresce in un paese infelice, povero, immobile):

“Non è bella a vedere, questa seconda società riaffiorata alla superficie all’insegna di un simbolo tremendamente obsoleto, pre-moderno, da feudalità rurale e da jacquerie come il “forcone”, e insieme portatrice di una ipermodernità implosa. Di un tentativo di una transizione fallita. Ma è vera. Più vera dei riti vacui riproposti in alto, nei gazebo delle primarie (che pure dicevano, in altro modo, con bon ton, anch’essi che “non se ne può più”) o nei talk show televisivi. E’ sporca, brutta e cattiva. Anzi, incattivita. Piena di rancore, di rabbia e persino di odio. E d’altra parte la povertà non è mai serena.

Niente a che vedere con la “bella società” (e la “bella soggettività”) del ciclo industriale, con il linguaggio del conflitto rude ma pulito. Qui la politica è bandita dall’ordine del discorso. Troppo profondo è stato l’abisso scavato in questi anni tra rappresentanti e rappresentati. Tra linguaggio che si parla in alto e il vernacolo con cui si comunica in basso. Troppo volgare è stato l’esodo della sinistra, di tutte le sinistre, dai luoghi della vita. E forse, come nella Germania dei primi anni Trenta, saranno solo i linguaggi gutturali di nuovi barbari a incontrare l’ascolto di questa nuova plebe. Ma sarebbe una sciagura – peggio, un delitto – regalare ai centurioni delle destre sociali il monopolio della comunicazione con questo mondo e la possibilità di quotarne i (cattivi) sentimenti alla propria borsa. Un ennesimo errore. Forse l’ultimo”.

Speriamo di no.

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