In questi giorni, fra la tristezza grande, si insinua una piccola malinconia. Banale, se volete, sciocchissima, se volete. Causa problematiche condominiali devo rivoltare una parte del giardino in cerca di perdite. Ora, scopro di avere un rapporto terribilmente profondo col giardino, di cui mi sono trovata curatrice e giardiniera dopo la morte di mia madre. Prima di quel momento, mi ero allegramente definita un pollice nero, in grado di far seccare ogni filo d’erba che mi capitasse fra le mani. Tranne la yucca, che ha più vite dei gatti e resiste a ogni incuria. Non capivo mia madre, che al giardino teneva moltissimo, e mi indispettivo tutte le volte che la chiamavo al telefono e non rispondeva, perché era fuori, a innaffiare e a chiacchierare con i gerani. Oggi mi succede la stessa cosa: lascio il telefonino sul tavolo e chiacchiero con gli stessi gerani, recuperati faticosamente a vita nuova e molto desiderosi di conversazione.
Forse accade a tutti coloro che non possono più aver cura dei figli, che sono cresciuti e di cure hanno molto meno bisogno. E mentre, nel tempo della cura, si pensa solo a quanto si è stanche (il mal di orecchi e le influenze e gli aerosol e l’apparecchio da pulire e il bucato da fare e tutti gli anni di indimenticate storie della buonanotte e tutto quello che si riesce a strappare alla vita complicata della classica lavoratrice madre), quando quel tempo finisce si cerca, istintivamente, qualcos’altro.
Forse, e forse no. Forse c’era soprattutto il desiderio di far sì che il giardino di mia madre non si sentisse abbandonato, e che alle sue piante se ne aggiungessero altre: le fotinie e la rosa rampicante, il campicello di fragole e la camelia imbronciata e poi defunta, la lavanda e il rosmarino e i ciclamini che soffrono il caldo, e i fiori di vetro che non puoi quasi guardarli che si sciupano subito. Fatto sta che il giardino ti costringe a pensare.
Pia Pera, molto amata, incontrò la poesia di Emily Dickinson e ne rimase colpita. Era impressionata da quel ribaltamento di prospettive, dai gelsomini lasciati soli, ignari che la mano che li innaffiava poteva fermarsi. Le piaceva l’idea che morendo bisognasse chiedere scusa per l’involontario abbandono, e aveva cominciato a lavorarci. Ma le rubarono la valigia con gli appunti per il progetto del libro, e quasi non ci pensò più. Poi, tutto cambiò. E lei imparò a fare finalmente parte del giardino. A essere il giardino.
Quando scrissi l’articolo che la ricordava, lo chiusi pensando a una camelia che abbassa le foglie, per protesta. Con la stessa sensazione di ingiustizia che ha il gatto di cui scrive Wislawa Szymborska. “Morire- questo a un gatto non si fa”. Perché cosa può fare un gatto, o un glicine, quando “Qui c’era qualcuno, c’era, e poi d’un tratto è scomparso?”.
Per questo, credo, mi aggiro intimando agli scavatori “salvate il piccolo melograno”, “abbiate cura di quella pianta con i pallini rossi che non so neanche come si chiama ma è qui da tempo, e le voglio bene”. E’ stupido, specie in un giardino volutamente selvaggio e spettinato e caotico come è il mio, e che mi somiglia in effetti. Ma è preservare ricordi. E’ evocazione. E’ amore.
Ho iniziato a dedicarmi alle piante quando ero lontana da casa, e la mia mamma non c’era più da qualche anno ormai, però il suo amore per il giardino, le rose ma anche l’orto, mi tornava in mente, e in qualche modo credo sia nato tutto dal cercare di ricreare un legame non più possibile. Dopo anni e tentativi, ora madre di una piccola persona continuo a dedicarmi alle piante ed è sempre terapeutico. Manca sempre il giardino perché sto in appartamento ma i tanti balconi aiutano a creare un surrogato. Se non è preservare ricordi, non esattamente, è cercare di ricrearli. Grazie sempre.