Quando si intraprende una discussione, ovunque la si intraprenda (qui, sui social, su carta, in televisione), c’è un problema di cui non ci si rende conto, almeno secondo me. Le parole. Che non si rinnovano, che mancano, che vengono ripetute fino a sbiadire. Parto dalle parole della sinistra: ma non degli esponenti politici di primo piano, bensì dei militanti o simpatizzanti o votanti o quel che vi pare. Sono sempre uguali. Le sento ripetere fin dagli anni Settanta, e allora avevano forse un senso: ma oggi sono automatismi, meccanismi vuoti, non aderenti al reale.
Grazie al cielo, non sono la sola a rendermene conto. Questa mattina, su Repubblica, è Paolo Rumiz a denunciarlo: “la politica è fatta anche di parole, e fino a prova contraria le parole sono il mestiere di chi scrive. Ebbene, mi accorgo che esiste già di fatto un’egemonia della destra sul piano verbale, un’egemonia tale che i partiti di governo sono costretti a inseguirla penosamente”. E aggiunge:
“Vorrei invece dire che cosa non va nella mia parte politica e cosa non abbiamo fatto, noi scrittori d’Europa, noi anime belle della letteratura, per evitare che questa deriva politica avvenisse. Ogni giorno mi chiedo quale arsenale di parole abbiamo fornito alla democrazia perché essa potesse esercitare una decente autodifesa. Poi constato che – salvo eccezioni – gli esempi di reale resistenza sono pochi”.
Ma non parla, Rumiz, della resistenza fisica, dell’esserci col proprio corpo: forse sarebbe chiedere troppo. Parla di resistenza narrativa, parla di assenza di narrazioni, della mancata rivitalizzazione di alcuni termini, che non a caso sono stati adottati dalla destra. “In Germania, dire Volk (popolo), Tradition (tradizione), Heimat (patria), o Identität (identità), puzza di nazismo. E così quelle parole, anziché essere “bonificate”, sono state consegnate al nemico, che ora se ne serve in esclusiva, col risultato di far apparire la democrazia nemica del popolo, della tradizione, eccetera”.
Cosa ne è delle nostre parole? In un accorato intervento su Minima&Moralia, Matteo Nucci ha riproposto il discorso su Gaza. Sull’assenza di parole ancora una volta incisive e corrispondenti al reale su quanto sta avvenendo, con poche eccezioni:
“Io lavoro con le parole. Il mio mestiere ha a che fare con le parole e con la lingua che notoriamente ritaglia un mondo, lo mostra, lo manifesta. Penso quindi che sia irrinunciabile partire dalle parole. E sono abbastanza convinto che risieda nella lingua dominante, quella che tutti, consapevoli o meno, usiamo per raccontare la storia degli ultimi mesi, il motivo di questa specie di neutralità, questa mancanza di indignazione, questo girarsi dall’altra parte, atteggiamento che un giorno, quando la storia avrà fatto il suo corso, rappresenterà una delle peggiori macchie morali della nostra presunta civiltà”.
Leggetelo tutto e interroghiamoci sul perché non rendiamo giustizia alle parole, in ogni nostro intervento. Sul perché preferiamo usare, che so, “supercazzola” perché l’ha inventata e usata, in altri contesti, qualcun altro. Sul perché interveniamo per frasi fatte. Sul perché non narriamo. Ci sono quelli che continuano a farlo, certo, da tempi non sospetti: penso a Wu Ming 1 e ai suoi Uomini pesce che stanno arrivando, penso allo stesso Rumiz, penso a Claudia Durastanti col suo non abbastanza compreso Missitalia, penso a chi è consapevole che la lingua è resistenza, qualora la si usi bene. E mi chiedo perché non ci riflettiamo abbastanza, e perché lasciamo andare quel che ci caratterizza da millenni. Perché non curiamo la parola fino a quando, come diceva Emily Dickinson, non comincia a splendere. O, se lo facciamo, lo facciamo per raccontare noi stessi, e non tutto il resto.