Le storiche lo conoscono bene. Si chiama Gender Backlash. E’ il contrattacco, o l’onda di riflusso se preferite, che riguarda le donne, e che si presenta quasi sempre dopo una guerra. O qualcosa che alla guerra somiglia, come ben scrisse Susan Faludi ne Il sesso del terrore, dopo l’11 settembre. O, ancora, nel mezzo di una forte crisi economica.
Chiacchierando ieri con Enrica Asquer, che ha studiato il Gender Backlash italiano dopo la seconda guerra mondiale, le ho chiesto, a bruciapelo, se ritenesse che in questo momento fossimo in procinto di vivere una condizione simile. La risposta è stata sì. E ne sono convinta anche io.
Fin qui, abbiamo considerato il Backlash da una sola prospettiva: l’uso e l’abuso del corpo femminile in televisione, in pubblicità, sui giornali, sui libri. Non è l’unica e non mi stancherò mai di ripeterlo. Il Backlash ha due facce: e quella più frequente, quanto insidiosa, è la rappresentazione (l’autorappresentazione, per meglio dire) del femminile come materno, accudente, rassicurante, pacifico. Espulsa – forse – l’immagine della donna come mero e silente corpo esposto, l’oscillazione del pendolo ci ha riportato nell’altro modello.
Ci riflettevo, anche, pensando alla ragazza di Torino e all’insistenza mediatica più sulla verginità custodita dai familiari che sulla reazione atroce (pogrom, lo chiama stamattina Marco Revelli su Il Manifesto) che si è innescata. Ci riflettevo quando, qualche giorno fa, Chiara Lalli mi ha ricordato che, nei fatti, la legge sull’aborto è quasi vanificata dalla massiccia obiezione di coscienza. Ci rifletto da mesi, quando si insiste – in buona, ottima fede – sul femminile portatore di pace e di cura. Anche quando sono le donne a innescare l’orrore come nel caso di Torino (e, prima, a rendersene complici come a Ponticelli, con il non dimenticato sputo di una madre sul volto di una neonata rom fra le braccia di un’altra madre). Anche quando è una donna ad annunciare misure punitive che colpiranno altre donne (pensioni prima, articolo 18 fra non molto).
Scrivo questo perché penso che sia stato molto importante riportare le donne in piazza, domenica, come ha fatto Se non ora quando. Penso però che da qui, dal contarsi e dal chiedere di contare, occorra fare passi avanti. Lorella Zanardo sottolineava ieri le divisioni e le fratture che si stanno verificando in diverse zone del movimento.
E’ il momento di trovare obiettivi chiari e comuni. Che, insisto sul punto, non possano ritenersi scollati dalla situazione generale del nostro paese. Quando il Backlash ci investe, le donne sono soggetti deboli nella debolezza: perché ancora non sono stati riconosciuti loro molti dei diritti spettanti (lavoro, salute, welfare, rappresentanza politica e nell’immaginario).
E’ il momento di fare attenzione, e molta. Prima che l’onda si richiuda sopra di noi, ancora una volta.
Loredana molto velocemente. Non penso davvero che possiamo ora stare a cercare gli obbiettivi comuni, stabilendo come prioritaria una comunanza di genere. Perchè il genere per quanto tutto investito dalla medesima sfiga, non anteriore ad altre idee ma posteriore, per non tacere dell’ipotesi di alcuni (Zanardo stessa) su cui io sono scettica ma è un’ipotesi che circola, che il nostro di genere sia più litigioso.
Secondo me bisogna stabilire degli obbiettivi culturali e politici che indivuino nella questione di genere la chiave di volta di una serie di questioni. Ma se non siamo tutte d’accordo ce ne faremo una ragione, perchè è normale che altre si figurino altre soluzioni politiche e lottino per quelle.
Stiamo dicendo quasi la stessa cosa 🙂 Obiettivi culturali e politici con la questione di genere come chiave di volta: peraltro, lo è, in tutta obiettività. Perché le condizioni economiche e sociali migliorano laddove la disparità fra generi è bassa.
Temo che se non proveremo almeno a cercarli, quegli obiettivi comuni, nella diversità tra donne del movimento, falliremo. E questo, per me, va detto.
Ho l’impressione che le donne siano meno “attrezzate” dei maschi ad affrontare i momenti di crisi e di recessione.
In questi momenti gli uomini sanno “tessere” una rete di relazioni e di mutuo sostegno. Si riuniscono in un “branco”, più o meno colto, sempre pronto ad accorrere in divesa del singolo contro il “nemico”.
Credo che le donne debbano contrastare la formazione di questi branchi rovesciandone la logica. La prima cosa da fare, secondo me, sarebbe dare un respiro internazionalista al movimento. Ovvero affrontare tematiche globali senza perdersi in problemi squisitamente locali o nazionali, senza ripetere l’errore dei nostri sindacati sempre più “locali”.
La seconda cosa è coinvolgere sempre di più anche i maschi, fin dalla tenera età ovviamente.
Simone de Beauvoir avrebbe risposto che le donne tendono da secoli a farsi a loro volta branco come unica possibile difesa. Le cose, per fortuna, sono cambiate: ma non fino in fondo.
Penso che le tematiche da affrontare debbano essere comuni: perchè, per esempio, se la percentuale di donne occupate in Italia fosse equa ne beneficerebbe l’economia nazionale, e dunque anche gli uomini. Davanti a un’emergenza, un’emergenza DI DIRITTI, come quella che attraversiamo, quei diritti vanno rivendicati da donne e uomini insieme. Ma con molta, molta chiarezza.
“Perché le condizioni economiche e sociali migliorano laddove la disparità fra generi è bassa.”
G.le Lipperini, vorrei gentilmente chiederle dove ha formato questa opinione balzana in cui l’effetto è diventato la causa.
E’ la disparità tra i generi che migliora laddove le condizioni economiche e sociali sono alte. Non vorrei che chi leggesse i Mario Draghi non sapesse scindere la retorica dall’analisi.
Questa cosa dei diritti non riesce a capirla, vero? Non riesce proprio a studiare come nascano e da cosa vengano mantenuti?
Certamente la sua visione del mondo deve essere molto semplice se ritiene che basti far lavorare le donne per creare economia. Non la sfiora minimamente la possibilità che per far entrare nel mercato nuovi individui occorra creare nuovi mercati, endogeni o esogeni, vero? Come dev’essere candida la sua ide adi democrazia. Scendiamo in piazza, ci lamentiamo, manifestiamo e provando e riprovando riusciremo nei nostri intenti. Che idea movimentista imparata dalla letteratura. Ripeta con me:” Rivendichiamo i diritti”. Lo sente? Lo sente il vuoto? Il mare nella conchiglia? Ma come fa a crederci? Che indirizzo ha la sua Chiesa?
Mi riveli il suo segreto, per cortesia: come fa a rimanere così impermeabile alla razionalità? Troppo innamorata delle narrazioni?
Dai toni, mi sembra di riconoscere Gibo: vedo che ci sono abitudini dure a morire (ti insegno io, ragazza, come si sta al mondo). Naturalmente, Gibo, lei sarà perfettamente in grado di spiegare il motivo per cui laddove le donne sono maggiormente occupate aumenta anche la natalità, e aumenta il benessere. La metà delle donne di questo paese non ha lavoro. Se questa è per lei, letteratura, rispetto caramente la sua opinione.
Allora, ne ho parlato anche su Vita da streghe e non sto qui a ripetere le stesse cose, a parte il fatto che non ne farei una questione di relazionalità femminile ma di dinamiche fra persone.
Le persone si coinvolgono democraticamente e un movimento si crea valorizzando le differenze.
Se questo non succede, può avvenire l’isolamento.
I segnali di avvertimento nei confronti di snoq c’erano stati tutti da parte della Rete.
Detto questo, gli step da fare per convogliare gli sforzi e creare una forma di attivismo costante secondo me sono questi:
Punto primo. Esplicitare il problema. Che abbiamo un problema di diritti per quanto riguarda le questioni di genere ancora molte persone (e soprattuttomolte donne) in Italia non lo percepiscono affatto.
Punto secondo. Identificare gli obiettivi (possibilmente in positivo)
Punto terzo. Tradurre gli obiettivi in sottobiettivi concreti (piccoli e molto specifici).
Punto quarto. Creare una campagna per ciascun obiettivo specifico.
Punto quinto. Aggregare attorno a ciascuna campagna le principali realtà (on e off line) che se ne occupano cercando di condividere e costruire collettivamente il più possibile modalità e contenuti. Distribuirsi, se possibile, i compiti x competenze.
Punto sesto. Creare una piattaforma in cui sia possibile dare vita alla campagna e nella quale sia possibile recepire gli input dalla Rete, sulla base dei quali decidere l’evoluzione della campagna stessa.
Punto settimo. Comunicarla al mondo.
Ora, io non ho le forze per fare una cosa del genere. Come blogger e poeta, mi occupo prevalentemente del punto primo lavorando sulla sensibilizzazione culturale e sull’innalzamento della consapevolezza in tema di stereotipi (che è il mio obiettivo) e per il quale attivo campagne ironiche spesso mettendomi in rete con altre blogger.
Ma chi può disporre di risorse e influenza come SNOQ secondo me può (poteva?) fare tutto questo, soprattutto se è in una posizione in grado di riunire intorno a sè più intelligenze e una dignitosissima visibilità.
Finita la manifestazione di piazza, il fervore secondo me si canalizza così: con azioni circoscritte e mirate su cui di volta in volta aggregare le persone indipendentemente dalle ideologie.
Negare la tipicità del confliggere tra donne non ci porterà da nessuna parte perché è su tale occultamento che si fonda una parte importante dello schacciamento della soggettività femminile. Va bene essere in contrasto fra punti di vista, ma arrivare a negare che si cerca di uscire da una condizione che riguarda esclusivamente le donne fa rivoltare nella tomba tutte le donne che per questo hanno lottato. Ad ogni modo e per fortuna non sono più in molte a pensarla così, ma fa specie. E dispiacere.
Donatella, non capisco a cosa ti riferisci, perdonami. Chi sta negando cosa? (e, per cortesia, cerchiamo di moderare i toni: si sta cercando di discutere, non è possibile che tutte le sante volte si taccino le altre persone di leso…cosa? Rivoltarsi nella tomba è espressione che respingo con forza).
Ma quali toni? Ma se hai detto tu stessa di star seguendo su altri blog il medesimo dibattito, avrai letto che non si fa che dire che non è un problema di donne ma di sinistra, di maschilismo che ha messo in giro la voce della maggiore litigiosità femminile e amenità del genere.
Ti saluto, Loredana.
E non è più corretto esplicitarlo per chi segue la discussione? 🙂 A mio parere, bisogna aprire il dibattito, e non rinchiuderlo in poche sedi. Mi sembra che l’auspicio espresso da Giorgia più su sia giusto e che vada seguito da tutt*
A forza di vedere accostate in tanti ragionamenti, come quintessenze femminili, l’accudimento (che sarebbe positivo) e la litigiosità/rivalità (negativo), mi è venuto da pensare che le due cose siano collegate… In fondo l’accudimento (specie se si vuole derivi dalla funzione materna) è un rapporto per definizione asimmetrico, qualcuno che dipende da qualcun altro, e ha anche molto a che fare con l’onnipotenza, l’essere indispensabili, e non molto con con la collaborazione tra pari e la solidarietà.
Ma chi è questo Gibo? Lo adoro! Un vero maestro del “so-tutto-io!” 😉
A me pare normale il dissenso (i bambini litigano, gli adulti, femmine comprese, dissentono, non concordano, rompono relazioni personali e politiche -) perché non basta il genere ad unire su battaglie quando queste chiamano in causa anche questioni di classe. Certo è che il dissenso non può essere occultato e non si può usare come un randello per accusare qualcuno di essere meno femminista di un altro.
Mi pare che le indicazioni di Giorgia Vezzoli siano utili per tutti e tutte. A margine – ma non in margine – sì quello di Torino è proprio un pogrom: ne ha tutte le caratteristiche.
@ Valberici
non sarei così sicuro che “noi maschi” siamo in grado di mettere in campo una maggiore capacità di tessitura delle relazioni e una più solida capacità di resistenza agli effetti devastanti della crisi: l’attuale situazione di sfrangiamento (per usare un eufemismo) dei movimenti, e l’incapacità (al momento) di indirizzare la protesta su obiettivi praticabili mi sembra parlino, sia pure con dinamiche differenti, tanto al maschile quanto al femminile. E non sono neanche sicuro che la maggiore capacità relazionale sia, in un momento di grande fluidità sociale come questo un bene: a differenza di altri paesi, dove è nato e si è sviluppato un movimento spontaneo – i cosiddetti Indignati, le varie Occupy, ecc. – qui da noi le realtà organizzate, nella loro risoluta minorità, hanno prodotto l’effetto contrario: fanno da tappo, da argine alla spontaneità e all’indignazione. Per questo credo che ciò che accade al movimento delle donne – sia in positivo che in termini di crisi – parla non solo al femminile: parla a tutto il movimento.
L’uso e abuso del femminile come materno, accudente, ecc. è un grosso problema. Sono molto d’accordo col punto primo di Giorgia Vezzoli: molte donne non percepiscono affatto il problema dei diritti, la parità di genere è sentita, ma con dei limiti. Porsi degli obiettivi ben precisi, dettagliati, fare informazione e azione sul territorio dovrebbe partire dalla situazione reale: cosa significa veramente, in pratica in una data realtà, un welfare che si regge quasi esclusivamente sulla famiglia (leggi: le donne della famiglia).
Perchè le giovanissime sfiduciate e depresse in alcune aree sono il doppio dei loro coetanei maschi. E così via.
Certa ‘litigiosità’ a me sembra legata anche alla mancanza di condivisione delle soluzioni ai problemi di base delle donne reali, qui ed ora. Non so, statisticamente, qual’è il numero delle donne e degli uomini ‘arretrati’ rispetto a questi problemi, ma se la famosa ricerca di De Mauro sull’alfabetizzazione ha senso, è legittimo pensare che la percentuale sia alta. Parere personale, ma per esperienza, in provincia vedo ancora all’opera il vecchio cinico pragmatismo femminile che stigmatizza e deride i tentativi di sottrarsi a certi stereotipi di ‘cura’ e sottomissione. Declinato solo apparentemente in modo diverso a seconda dell’età.
Sì, ‘obiettivi culturali e politici’ per evitare il backlash, che è feudalesimo.
Anonimo sono io.
Brava Giorgia! e’ così che si scrive un progetto, cominciamo ad attuarlo. Il punto primo, forse quello che poteva agire SNOQ con i suoi comitati e le sue chiamate di piazza, non mi sembra granché progredito nell’attuazione. Intanto che ci lavoriamo passiamo agli altri.
Dati ISTAT 2010 sull’occupazione (scaricabili qui) – dati in migliaia
Su 60.051 italiani:
Uomini occupati 13.634 su 29.181 (46.7%)
Uomini fuori dal mercato del lavoro 14.433 su 29.181 (49.4%)
Donne occupate 9.238 su 30.871 (29.9%)
Donne fuori dal mercato del lavoro 20.644 su 30.871 (66.8%)
[la differenza è in cerca di lavoro]
occupati per fasce d’età:
25-29 uomini 1.170 su 1.749 (66.9%) – donne 882 su 1.738 (50.7%)
30-34 uomini 1.732 su 2.099 (82.5%) – donne 1.229 su 2.074 (59.2%)
35-39 uomini 2.098 su 2.409 (87%) – donne 1.482 su 2.387 (62%)
40-44 uomini 2.173 su 2.475 (87.8%) – donne 1.524 su 2.468 (61.7%)
45-49 uomini 2.020 su 2.310 (87.4%) – donne 1.417 su 2.345 (60.4%)
50-54 uomini 1.692 su 1.989 (85%) – donne 1.134 su 2.057 (55%)
55-59 uomini 1.180 su 1.799 (65.6%) – donne 766 su 1.892 (40.4%)
Come si vede, la forbice tra occupazione maschile e occupazione femminile, che in passato era scesa da 25 a 20 punti (fasce 50-60), si stabilizza (15-17 punti) nelle fasce 35-49, si riallarga a 23 punti nella fascia 30-34, torna ai 16 punti nella fascia 25-29.
Come si vede, non c’è alcuna sostanziale erosione del tasso di disoccupazione femminile, via via che scaliamo le fasce di età: le prossime generazioni, salvo ulteriori tagli, nella migliore delle ipotesi (cioè se la crisi finisse domattina) manterranno il divario attorno ai 16-17 punti, confermando la rigidità sociale nazionale anche nei dati di genere. E con questi divari, dal momento che le attuali impiegate andranno comunque fuori dal mercato del lavoro come pensionate, l’incremento non sarà tale da raggiungere non si dice il 50% di impiegate, ma neanche il 40%: la parità di genere è dietro l’angolo tanto quanto la fine della crisi del ’29, come disse il presidente Herbert Hoover.
Come si vede una trollata, anche se ripetuta tre volte, non diventa una verità (salvo ad Arcore e nel Paese delle meraviglie).
Poi ci sarebbe da scremare i dati grezzi, per verificare i livelli di contratto e retribuzione (dove si scopre che le donne sono sempre ai posti più bassi della scala sociale: ad esempio, nell’Università sarebbero tante quanti gli uomini, ma facendo una media tra la maggioranza nelle pulizie e il panda da salvaguardare nei rettorati) – ma qui si va sul raffinato.
Loredana si certo, ma alla fine se tu stessa dici che non si possono eludere le categorie di classe, e io aggiungerei tutte le categorie socioeconomiche che il concetto di classe storicamente inteso non copre abbastanza bene (per dire: i padri separati e le madri separate stanno alla canna del gas, o il nuovo concetto di una libera professione con cui non arrivi a fine mese) – dico se includi queste categorie proponi un ritratto politico della realtà che risente di un’idea politica che è quella che ci forma, e che non formerà altre persone. Poi credo che ci siano problemi anche con altri modi di concepire la questione che rendono veramente difficile la comunicazione per esempio su come relazionarsi al maschile: includerlo si includerlo no/responsabile si responsabile no/diverso si diverso no.
Allora si può ragionare su più livelli: un livello di coagulo stretto di un gruppo che lavora in base a un’affinità ideologica e condivisione politica – oltre che del modo di concepire i rapporti uomo donna – e che propone un gruppo di idee e una proposta, a un livello più alto di punti condivisibili da altri femminismi. Solo che sti punti di secondo livello devono essere di meno, se no ci si scazza e non per questioni di ovaie.
Sì, ci possono essere delle questioni – a mio avviso poche – a fare da minimo comun denominatore ma sul resto il genere, da solo, non basta. E introdurre, come è necessario e persino sano, altri parametri – la famosa questione di classe, declinata come la descrive Zauberei – divide di necessità. Per non parlare del modo di intendere la sessualità, la relazione col maschile ecc.. ecc.. dividersi in questi casi non è sintomo di litigiosità ma di avere opinioni non conciliabili su argomenti dirimenti.
“Perché le condizioni economiche e sociali migliorano laddove la disparità fra generi è bassa.”
Condivido. Inizialmente pensavo all’uovo ed alla gallina, ma pensandoci bene: Esistono molte realtà nelle quali ci sono buone condizioni economiche e sociali e dove c’è anche un marcato gender gap (basta pensare alla società degli anni ’50 e ’60, boom economico e donne a casa – guardarsi Mad Men), mentre ci sono poche realtà con basso gender gap e condizioni sociali ed economiche scarse. Quindi la presenza di buone condizioni economiche e sociali non è garanzia di gender gap basso, mentre un gender gap basso è spessissimo accompagnato da una società con buon clima sociale ed economico (ad. es. le nazioni scandinave). Il basso gender gap è quindi spesso la causa e le buone condizioni sociali ed economiche l’effetto.
“Anche quando è una donna ad annunciare misure punitive che colpiranno altre donne (pensioni prima, articolo 18 fra non molto).
Scrivo questo perché penso che sia stato molto importante riportare le donne in piazza, domenica, come ha fatto Se non ora quando.”
Il mio intervento non è troll, è che sinceramente non capisco. La manifestazione di domenica non mi ha convinto per niente. Penso invece che il particolarismo italiano, per il quale ogni gruppo, ogni appartenenza, anche di fronte all’emergenza pensa al proprio interesse, abbia coinvolto negativamente le donne di questo movimento. La frase che riporto ne è un esempio perchè mi sembra veramente esagerata. Questo “ora” non era al momento giusto e sarebbe meglio invece studiare il “come”, per la parte della crescita che questo governo, se ce la fa ad andare avanti, con tutti gli “aiuti” che gli sono stati finora dati, dovrà di seguito presentare.
@gibo: proviamo anche a vederla così: basso gender gap secondo me vuol dire per esempio che, già a parità di posti di lavoro disponibili (quindi senza neanche aprire nuovi mercati endogeni o esogeni), se per lo stesso lavoro c’è una donna capace e volenterosa e un uomo che lo è meno, il lavoro lo prende la donna, e a casa, nel “privato” dove comunque daffare ce n’è tanto, ci va l’uomo, non la donna, come mediamente vedo succedere intorno a me in Italia, dove incontro continuamente donne capaci e intelligenti a spasso e uomini “impresentabili” lavorativamente parlando che invece il lavoro ce l’hanno. Tanto per chiarire che non ho risentimenti personali da sfogare, io ho un buon lavoro adeguato al mio livello di istruzione e di capacità da quasi vent’anni, contratto a tempo indeterminato. E ritengo che se il decrebrato/fannullone viene mandato a spasso e quella intelligente/volenterosa viene messa al lavoro (quello con i contratti e la retribuzione, non quello “della casalinga”, per capirsi), già il Paese fa un clamoroso balzo in avanti in quegli indici lì che lei conoscerà a menadito, tipo la produttività etc., altro che “letteratura”. Che glie ne pare? Cominciamo da qui? Ha qualche consiglio su come fare, dal suo punto di vista non “letterario”?