GIANNI AGNELLI CHE CANTA LA CANZONE DEL MAGGIO: UNA PROVOCAZIONE

Sopporto poco le dicotomie. Non le contrapposizioni, vorrei sottolineare. Sopporto poco quel neanche troppo sottile incitamento a schierarsi da una parte o dall’altra, adesso, subito, finché la polemica è calda. Lo sopporto poco perché quell’obbligo morale, o mediatico, non somiglia neanche un po’ al non dimenticato anche se voi vi credete assolti/siete lo stesso coinvolti. Un like non è una rivoluzione. Poi, vorrei capire dove sono le schiere e da chi sono composte: perché qui perdura l’illusione che ognuno di noi parli a nome di qualcun altro. E’ uno scherzo, un gioco di magia: nei social, ognuno parla per sé, e se qualcuno vi dice che sta parlando a nome di qualsivoglia movimento, fidatevi poco, o affatto. Infine: sembra impossibile dir la propria senza l’accusa preventiva: se l’intervento di Fedez durante il concerto del 1 maggio ti dà qualche motivo di riflessione sei una snob, perché non accetti l’idea che un rapper possa fare politica.
Ebbene, no. La sensazione che ho avuto io, all’inizio confusa, poi più chiara man mano che ci pensavo su, è stata di straniamento. Un po’ come, se mi passate il paragone, avessi ascoltato Gianni Agnelli, ai tempi, mentre intona la Canzone del maggio durante un’intervista televisiva, o un pubblico intervento. C’era, e c’è, una contraddizione in termini che proverò a spiegare, con una premessa iniziale, e poi una seconda.
La premessa iniziale è che tutto quello che Fedez ha detto contro l’omofobia è sacrosanto. Aggiungo: sacrosanto e importante, perché da quel palco ha raggiunto un grandissimo numero di persone che della questione si disinteressa (grandissimo ma inferiore a quello che raggiunge abitualmente sui social, questo va detto: ma va bene lo stesso, perché la platea non coincide, e dunque quelli che lo hanno ascoltato in televisione valgono molto proprio perché si presume che in un certo numero fossero estranei al problema). Non solo un rapper può e deve fare politica e  battersi per i diritti civili ovunque possa e creda, ma è auspicabile che ci siano ancora più persone che dove possano e credano dicano con forza che ci sono delle atrocità, nel nostro paese e nel nostro mondo, che devono finire.  La sottopremessa, o seconda premessa che dir si voglia, riguarda lo snobismo. Sono cresciuta in un ambiente politico, quello del Partito radicale, dove non c’era l’abitudine di chiedere il curriculum a chi si univa a una battaglia civile (aborto, divorzio, obiezione di coscienza, abolizione dei manicomi, censura, e via andare): e tanto meno una visura catastale o una dichiarazione dei redditi. A via di Torre Argentina, sede del partito, passava di tutto, “i matti e i drogati e gli omosessuali”, per usare le parole di Pannella, ma anche i pittori gli scrittori gli attori ma anche gli operai ma anche i disoccupati ma anche quelli che erano stati un po’ fascisti o molto socialisti.  Se date un’occhiata agli iscritti, c’era Franco Battiato e c’era Gianni Alemanno, Gigi D’Alessio e Oriana Fallaci, Pier Paolo Pasolini e il Divino Otelma, Fernanda Pivano e Vasco Rossi. Contava la motivazione. Contavano gli scopi. E non importa come si raggiungeva quello scopo. Diceva Pannella:
“La fantasia è stata una necessità, quasi una condanna piuttosto che una scelta; sembrava condannarci ad esser soli […] Così abbiamo parlato come abbiamo potuto e dovuto, con i piedi, nelle marce, con i sederi, nei sit-in, con gli “happening” continui, con erba o con digiuni, obiezioni che sembravano “individuali” e “azioni dirette” di pochi, in carcere o in tribunale, con musica o con comizi, ogni volta rischiando tutto, controcorrente sapendo che un solo momento di sosta ci avrebbe portato indietro di ore di nuoto difficile”
Dunque, e scusate se sono pedante e continuo a ripetermi – ma inutilmente, perché so benissimo che molti fra coloro che leggeranno non arriveranno fin qui, e mi includeranno già dalla prima riga fra quelli bizantini e ambigui che fanno distinguo invece di tuffarsi a lodare questi due ragazzi che poveri o quasi erano e che hanno costruito, Fedez e Ferragni, un impero economico e mettono quell’impero a servizio del bene: dunque, ribadisco, lodo quanto detto, ma mantengo dubbi e anche riserve su chi, gestendo una ricchezza impressionante, può almeno far sorgere il dubbio che quanto dice e fa corrisponda a una precisa strategia per mantenere quell’impero. La vecchia signora che è in me è cresciuta anche con De André, ed è particolarmente legata a un paio di versi di Storia di un impiegato:  “però bisogna farne altrettanta (di strada) per diventar così coglioni da non riuscire più a capire che non esistono poteri buoni”.
Non cambia il risultato, certo. Non cambia l’aver raggiunto una platea con parole giuste e necessarie, come si suol dire. Ma è bene quanto meno capire in che contesto (appunto) ci troviamo. Liberi non volerlo fare, naturalmente.
Ieri sera ho postato su Facebook questo articolo di Irene Graziosi. Leggetelo. Qui richiamo solo questo punto:
“È bizzarro come il termine attivismo abbia perso la componente di attività insita nella parola stessa. Basta postare un quadrato nero o delle elaborate infografiche su uno sfondo arcobaleno e immediatamente si diventa attivisti di una causa. Anzi, di varie cause, perché l’intersezionalità – cornice accademica utile per analizzare le intersezioni di diverse dimensioni sociali e identitarie applicandole ai grandi numeri – sui social trova terreno fertile per abbracciare con le infografiche qualunque causa esistente. Per il clima, contro il catcalling, contro l’omotransfobia, contro l’utilizzo di parole offensive, contro il razzismo, contro la feticizzazione dei corpi, per il body positive, contro la plastica. Grazie all’intersezionalità applicata agli individui è sia possibile calcolare la percentuale di handicap che ognuno di noi si porta dietro, 60% acqua, 40% categoria discriminata, sia essere attivisti per una causa qualunque che viene dissezionata fino all’ultimo atomo di modo da produrre più post, nutrire l’algoritmo e, incidentalmente, guadagnare follower. L’attivismo, un tempo collettivo, è diventato appannaggio dei singoli svuotando di significato gli -ista che lo descrivono. Ogni lotta è declinata sul sé, ognuno la intende a proprio modo, e nessuno è in grado di non personalizzare l’ideale a cui sostiene di credere”.
Questo non significa che chi fa questo tipo di attivismo sia necessariamente in cattiva fede. Credo, anzi, che nella maggior parte dei casi non lo sia. Ma che sia il brand di stesso lo sa, o quanto meno lo intuisce. Essere brand di se stessi ha poco a che fare con i loghi, e infatti l’ultimo dei problemi dell’esibizione di Fedez sono i cappellini e i marchi, ma davvero l’ultimo. Il punto, in parole poverissime, è: in questo preciso momento, per ampliare la propria presenza e la propria fama, un influencer che si rispetti deve esprimersi contro l’omofobia, la misoginia, l’ambiente, il razzismo. Bene: lo fa, consolida il proprio potere mediatico ed economico, contribuisce a una giusta causa.
Ma se domani in tendenza va qualcos’altro? Qualcosa di esattamente opposto a quanto diceva in precedenza?
In altre parole: prima di consegnarmi mani a piedi a quello che, sì,rappresenta un nuovo, e forte, potere economico, ci penso almeno su. Al netto della causa. Al netto del fatto che sì, la politica ha gestito malissimo, se l’ha gestita o sposata, quella causa. Ma se io continuo a non chiedere alla politica di prendere responsabilità, e delego quella responsabilità a, ripeto, un nuovo potere economico, cosa succede? Succede quel che scrive Irene Graziosi:
“Ora che siamo brand non siamo più cittadini, siamo consumatori. Non chiediamo più allo Stato di fare qualcosa, lo chiediamo ai brand (e quindi a noi stessi) a cui non costa nulla parlare dell’unica cosa che ci è rimasta e che potenzialmente può darci lavoro: la politica dell’individuo”
Come scrissero ai tempi i Wu Ming in un non dimenticato articolo sul feticismo della merce digitale:
La questione non è se la rete produca liberazione o assoggettamento: produce sempre, e sin dall’inizio, entrambe le cose. E’ la sua dialettica, un aspetto è sempre insieme all’altro. Perché la rete è la forma che prende oggi il capitalismo, e il capitalismo è in ogni momento contraddizione in processo. Il capitalismo si affermò liberando soggettività (dai vincoli feudali, da antiche servitù) e al tempo stesso imponendo nuovi assoggettamenti (al tempo disciplinato della fabbrica, alla produzione di plusvalore). Nel capitalismo tutto funziona così: il consumo emancipa e schiavizza, genera liberazione che è anche nuovo assoggettamento, e il ciclo riparte a un livello più alto”. Facebook, dunque, si basa sul pluslavoro degli utenti: “Zuckerberg ogni giorno si vende il tuo pluslavoro, cioè si vende la tua vita (i dati sensibili, i pattern della tua navigazione etc.) e le tue relazioni, e guadagna svariati milioni di dollari al giorno. Perché lui è il proprietario del mezzo di produzione, tu no. L’informazione è merce. La conoscenza è merce. Anzi, nel postfordismo o come diavolo vogliamo chiamarlo, è la merce delle merci. E’ forza produttiva e merce al tempo stesso, proprio come la forza-lavoro. La comunità che usa Facebook produce informazione (sui gusti, sui modelli di consumo, sui trend di mercato) che il padrone impacchetta in forma di statistiche e vende a soggetti terzi e/o usa per personalizzare pubblicità, offerte e transazioni di vario genere”.
Ieri, su Facebook, Mario Di Vito ricordava di quando Marco Pannella, riprendendo un concetto di Henri Bergson, diceva che «la durata è la forma delle cose». Durerà tutto questo? Non lo so. Io continuo a fare un po’ fatica nell’applaudire  un potere che sostiene di non esserlo infilandosi nel ruolo della vittima ma comunque potendo ignorare ogni tentativo di censura (cosa che a Pannella non fu possibile, per dire). Poi, certissimamente, serve. E quindi va bene. Non va bene non tener presente, e provocatoriamente lo ripeto, il contesto. E il contesto oggi ti accarezza, domani, quando in tendenza ci sarà qualcosa di opposto, ti schiaccia.
Qualcuno ha detto che un tempo prendere parola pubblica era come lasciar cadere un petalo di rosa nel Grand Canyon e aspettare di sentire l’eco. E qualcun altro ha aggiunto che ora il Grand Canyon è pieno di petali di rosa e non c’è nessuna possibilità di sentire quell’eco.

Un pensiero su “GIANNI AGNELLI CHE CANTA LA CANZONE DEL MAGGIO: UNA PROVOCAZIONE

  1. Grazie per queste parole che mi hanno permesso di fare chiarezza.Dopo un si incondizionato a Fedez( nei confronti del quale solo un gran pregiudizio negativo ammetto), contenta di riscoprirmi ancora in grado di andare un po’ oltre le mie rigidità mentali ma a disagio x quel non so che che non mi convinceva del tutto del mio si e che ho chiamato resistenza. Invece non ero consapevole di quel che sentivo e pensavo e che è quello che tu ,come sempre ,hai con intelligenza e acume espresso.grazie ancora

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