Proseguo, insieme a Patrick Fogli, la pubblicazione degli interventi agli Stati Generali dell’Immaginazione di domenica 1 ottobre a Bologna. Preciso prima un particolare: non sono fra gli organizzatori dell’iniziativa, ma l’ho vista nascere a giugno, dopo lo sconcerto condiviso con alcune e alcuni sulle cinquine di Strega e Campiello. Ne ho parlato su La Stampa e sui social molto spesso, e non ho partecipato solo perché contemporaneamente ero impegnata con la lezione a Multi, sullo stesso argomento peraltro, e mi sembrava giusto avere almeno due piazze dove si discuteva di immaginario e letteratura.
Noto con dispiacere che si sollevano distinguo su chi c’era e chi non c’era, su quanto fosse rappresentata la fantascienza e quanto le scrittrici: banalmente, era una call, dunque ci si poteva iscrivere e chiedere di partecipare, non si trattava di un convegno a inviti. Meno banalmente, starei molto attenta a non settorializzare il discorso sul fantastico con il vecchio bilancino dei generi: un po’ di fantascienza, un po’ di horror, un pizzico di gotico e una spruzzatina di fantasy. Questo modo di ragionare ha portato a una sola cosa negli anni passati: chiusura. Invece, è il momento di ragionare per aperture, visto che la posta in gioco riguarda tutte e tutti, chi scrive genere e chi no, chi scrive fantastico e chi no. Ma tutte e tutti si scrive di finzioni, e non di realtà.
Detto questo, pubblico l’intervento di Alessandra Sarchi.
“Moriamo ogni secondo che passa, ma per un tempo relativamente lungo, dall’infanzia fino alla prima adolescenza, non ce ne accorgiamo quasi. Crediamo che il numero dei nostri giorni e dei nostri anni sia molto ampio, se non inesauribile, deve essere per il fatto che quasi tutte le esperienze e le emozioni che viviamo sono una prima volta, e ci appaiono potenti, infinite, non seriali e ripetitive come sembrano diventare con il passare degli anni. E forse anche per questo che la letteratura si è sempre nutrita non solo e non tanto dei fatti accaduti nell’infanzia, ma del particolare sentimento del tempo che lì si sperimenta: un tempo potenziale, un tempo che sfida i limiti o che forse non li conosce. Ancora a vent’anni – quando forse si è conclusa la mia adolescenza – ero convinta che sarei stata così per sempre, giovane, piena di energia e curiosità, con tutto il tempo che volevo davanti, il che equivale a dire più o meno che non avevo il senso del limite più importante che ciascuno di noi incontra: la morte. O se ce l’avevo riuscivo ad allontanarlo. Come il desiderio di scrivere. Ho sempre scritto, ma solo dopo che ho toccato con mano che il mio tempo era molto limitato, ho capito che non potevo più rimandare un corpo a corpo con la scrittura come dimensione totale della vita. Sono persuasa che ogni scrittrice, ogni scrittore che io ami e rispetti, ma forse anche quelli che non mi piacciono e non hanno la mia attenzione, abbia fatto a un certo punto quest’incontro, fra sé e la temporalità, e che magari anche senza dirselo la scrittura gli si sia manifestata come il più potente antidoto contro lo scorrere del tempo, un solvente per il grigio dei giorni inutili o faticosi e dolorosi che si accumulano in ogni vita. Lo diceva già Orazio in maniera molto aulica, quando parlava della propria opera poetica: “Exegi monumentum, aere perennius”. Ho innalzato un monumento più duraturo del bronzo.
Ma può dirlo chiunque scriva: Ho provato a sfidarti tempo che sei rapina e saccheggio e infine oblio e polvere. E poiché c’è uno scrittore inglese che l’ha detto in maniera esemplare e al tempo stesso molto semplice è con le sue parole che vorrei definire meglio la relazione fra tempo e letteratura. Mi riferisco a Leslie P. Hartley, noto in Italia soprattutto per aver scritto il romanzo The Go-Between, uscito nel 1953 e tradotto due anni dopo come L’età incerta o più di recente come Il messaggero d’amore, che riprende il titolo del film di Joseph Losey del 1970 tratto dall’omonimo romanzo. L’incipit del romanzo è celebre: “Il passato è una terra straniera; fanno le cose in modo diverso laggiù”.
Il protagonista del romanzo, Leo Colston, un sessantenne inaridito da una vita senza passioni torna nella casa di famiglia e trova una scatola che contiene i suoi tesori, tra cui un diario impreziosito dalle figure delle zodiaco dalle quali era particolarmente affascinato.
“Quando mi sono imbattuto nel diario, giaceva sul fondo di una scatola di cartone, rossa piuttosto ammaccata, in cui da ragazzo tenevo i miei colletti di Eton. Qualcuno, forse mia madre, l’aveva riempita di tesori che risalivano a quel tempo. C’erano due scheletri di ricci di mare, due calamite arrugginite, una grande e una piccola, che avevano perso il loro magnetismo; negativi arrotolati a bobina; mozziconi di ceralacca; un piccolo lucchetto a combinazione con tre involti di lettere; un pezzo di saia pregiata e uno o due oggetti indefinibili che non avrei nemmeno saputo dire a cosa fossero appartenuti. Le reliquie non erano esattamente sporche ma non erano nemmeno pulite; avevano la patina del tempo: mentre le tenevo in mano, per la prima volta dopo cinquant’anni, mi assalì il ricordo, tenue come la forza delle calamite, ma tuttavia chiaro, di quel che ciascuna aveva significato per me. Tra noi era intervenuto qualcosa: il piacere intimo del riconoscimento, il brivido quasi mistico di averle possedute in tempo, sensazioni, che a sessant’anni, mi facevano vergognare.”
Come è facile immaginare è il diario ad attirare l’attenzione del protagonista e aprendolo- a distanza di 50 anni si ricordava ancora della combinazione – e sfogliandolo non può fare a meno di incontrare le tracce della sua estate dei dodici anni, trascorsa nella villa di campagna, Brandham Hall, di un facoltoso amico e della sua manierata famiglia. Un’estate segnata da una scoperta cruciale e da fatti tragici. Il protagonista dichiara: “il mio segreto – la spiegazione di ciò che sono – giace lì. Mi prendo molto sul serio, certo. Importa a nessuno di chi sono adesso o chi ero allora? Ma ogni uomo è importante per se stesso, prima o poi”.
Inizia così un confronto serrato fra il sessantenne che ha ritrovato il diario e il dodicenne che lo scrisse, a un certo punto viene inscenato un dialogo immaginario fra i due:
“Se il mio io dodicenne, a cui ero stato molto affezionato, ragionando su di lui fosse venuto a rimproverarmi: Perché sei venuto su così sciocco, quando all’inizio eri così promettente? Perché hai passato tutto il tempo libero in librerie polverose, catalogando i libri degli altri, invece di scrivere i tuoi? Cosa è successo all’Ariete, Al Toro, al Leone? All’esempio che ti ho dato da emulare? E Soprattutto dov’è la Vergine, con il suo volto splendente e le lunghe trecce ondulate?
Che cosa avrei potuto dirgli?
Avrei dovuto avere la risposta pronta: “Beh sei stato tu che mi hai abbandonato, e ti dirò come. Sei volato troppo vicino al sole, e ti sei bruciato. Mi hai fatto diventare una creatura di cenere.”
E lui avrebbe potuto replicare: “Ma tu hai avuto mezzo secolo per superarlo! Mezzo secolo, metà del ventesimo secolo, l’epoca gloriosa, l’età dell’oro che ti avevo affidato!”
A quel punto io avrei dovuto chiedere: “Il ventesimo secolo ha fatto molto meglio di me?
Quando avrai lasciato questa stanza spenta e senza gioia, devo ammetterlo, e avrai preso l’ultimo autobus per la tua casa nel passato – se non lo avrai perduto – chiediti se hai trovato tutto così luminoso come lo immaginavi. Chiedi a te stesso se hai realizzato le tue speranze”.
In questo modo Hartley ci dice che la letteratura è sempre postuma, si scrive dopo che si è vissuto, si scrive dopo che una parte di noi è cambiata, ci ha abbandonato, siamo morti. Il passato è davvero una terra straniera, in cui riconosciamo chi siamo stati forse proprio perché non lo siamo più, ma è anche l’unica terra in cui la scrittura possa abitare senza paura di essere fraintesa, sfrattata o espulsa”.