Infine tornata da Noir in Festival, ne riporto impressioni piacevolissime, e lunghe chiacchierate con scrittori che non vedevo da tempo. Una, in particolare, era da annotare, e riguardava i racconti di Marcello Fois come insegnante della Scuola Holden. Allora, a proposito di ambizioni e di scrittura, di sistema editoriale e di stato delle cose, vale la pena leggere l’intervista di Simonetta Fiori a Goffredo Fofi. Un bel po’ di schiaffoni distribuiti a destra e a manca, mi sembra. Non tutti fuori luogo. Eccola:
Se ha resistito per quindici anni sempre nella stessa rivista – circostanza davvero singolare – è perché «fuori non succede granché, anzi sono stati gli anni più morti». Lo Straniero festeggia il numero 150, un lungo viaggio tra arte cultura scienza e società che comincia nell’estate del 1997, ma il suo timoniere non sembra dell’umore migliore. O forse sì. La cultura oggi? Una sorta di “oppio del popolo”. La tribù dei lettori? Solo nel nominarla, a Goffredo Fofi viene l’allergia. E i festival, i premi, gli eventi, i reading, i saloni, le fiere? «Un chiacchiericcio inutile. Tutti si sentono bravi e intelligenti solo perché consumano libri, film, idee imposti dall’industria culturale. In realtà siamo riempiti di pensieri
che non sono nostri».
Insomma, si sente un reduce?
«Ma per carità. Ho sempre detestato i reduci, anche quando erano personaggi straordinari. Per questo mi ostino a fare lo Straniero, che gode di uno zoccolo duro di abbonati».
Cosa vuol dire fare una rivista oggi?
«Quello che ha sempre significato: interpretare il tempo dal punto di vista di una minoranza esigente e attiva. In qualche modo io ho sempre fatto la stessa rivista, adattandola alle varie stagioni della storia italiana».
Ma cinquant’anni fa era molto di moda, oggi sembra un genere di antiquariato.
«Che vuol dire? Le minoranze esistono sempre. E io grazie a loro riesco a sopravvivere in un paese annegato nella stupidità».
Umor nero.
«La tragedia vera della mia generazione, dei cosiddetti alfabetizzatori, è che ci siamo confrontati con un popolo straordinario quando era analfabeta e che poi – una volta imparato a leggere e scrivere e messi da parte un po’ di soldi – è diventato un popolo di mostri e di servi».
Dovevate lasciarli morire di fame?
«No, era giusto lottare per l’emancipazione, però nel momento in cui i morti di fame hanno avuto la pancia piena si sono rivoltati ai valori di comunità, solidarietà, giustizia sociale per cui erano stati affrancati. Questo popolo che ho amato follemente è diventato tutt’altro che amabile. Se penso a chi è oggi il mio prossimo…».
Chi è il suo prossimo?
«Il mio prossimo è il Trota. È quella la vera sfida di oggi: il recupero dei babbei. Nella categoria dei gonzi includo anche gli analfabeti laureati. Prima avevamo analfabeti autentici, oggi li abbiamo provvisti di diploma. Si drogano di fiere, di libri, di film, di discussioni, di presentazioni, di commemorazioni, di festival. Applaudono freneticamente i nuovi guru mediatici. E si illudono di pensare. Ma è un’illusione ».
I guru ci sono sempre stati.
«Ma oggi siamo alla caricatura. La lista delle parodie è piuttosto lunga. Vuole che cominci?».
Lasci stare. Non salva nessuno?
«Un momento. Salvo gli studiosi competenti, come Luigi Ferrajoli e Carlo Donolo, Guido Crainz e Mariuccia Salvati, e anche giornalisti come Pino Corrias, e ce ne sono tantissimi su piazza. Ma non ci sono più i maestri d’un tempo. Ogni tanto salta fuori il profeta o il “pasolinino”, ma non è all’altezza. Io stesso evito di andare in Tv perché rischio di diventare guru, e la cosa mi immalinconirebbe. Sono partito come maestro elementare e come assistente sociale. E
oggi mi salvo perché resto ancorato ai bambini e alle periferie».
Lei è sempre stato un irrequieto, anche nell’ambito delle riviste.
«La veste culturale a un certo punto mi stava stretta, e avevo bisogno di un aggancio nel sociale. Però negli anni Sessanta questo impegno era rappresentato dalla politica. Venivo dall’esperienza con Danilo Dolci, mi ero formato con Calogero e Capitini, e mi ritrovai nella Torino operaia dei Quaderni Rossi».
È vero che la componente operaista la guardava con sospetto?
«No, solo con ironia. I primi tempi ero ancora vegetariano, e questo suscitava grande ilarità. Per colpa loro sono diventato carnivoro. Qualcuno mi ribattezzò il francescano dei Quaderni rossi solo perché indossavo i sandali».
All’epoca fu censurato da Einaudi.
«Sì, non mi pubblicarono il rapporto sulla immigrazione a Torino. Non so se ci sia stata pressione della Fiat, ma forse si trattò solo di autocensura. Il libro servì per una battaglia interna. E definitivo risultò il voto contrario del nazistalinista Delio Cantimori. Mi vide come un eretico pericoloso. E lui di eretici si intendeva magnificamente ».
Più o meno negli stessi anni cominciarono a uscire i Quaderni Piacentini.
«Era una rivista totalmente diversa, fatta da intellettuali tradizionali. Nessuno di noi era marxista. Piergiorgio Bellocchio, Grazia Cherchi ed io venivamo da storie diverse, con attenzione a orizzonti nuovi come la psichiatria di Basaglia. E a tutto quello che si muoveva in quegli anni».
Però anche là lasciò.
«Facevo già un’altra rivistina torinese, Ombre rosse, che sull’onda del Sessantotto divenne un foglio di intervento politico. I Piacentini se ne stavano da parte e criticavano il movimento. Io preferivo starci dentro».
Ma è vero che i leader del movimento erano piuttosto rozzi, solo western e kung fu?
«Sì, andavano pazzi per Bruce Lee. E se costretti ai film impegnati, sbadigliavano come elefanti. È anche comprensibile: dopo dodici ore di militanza non avevano voglia di rompersi il cervello con Angelopulos».
Questo però spiega anche perché il Sessantotto sul piano culturale alto non abbia lasciato grandi opere.
«È vera una cosa: che quella generazione non scrisse, non cantò, non fece poesia. Per dieci anni fece solo politica. Però i vecchi hanno continuato a scrivere. E hanno scritto cose in cui senti il peso del Sessantotto. Lo senti nella Morante. Lo senti in Moravia e in Sciascia. Lo senti in Calvino ».
Sia in Ombre rosse che nel successivo Linea d’Ombra volle circondarsi di un gruppetto di giovani.
«Sì, ricordo Sinibaldi, Lerner, Manconi, Mereghetti. Più tardi Piersanti, Corrias, Lolli. Ah, dimenticavo il non simpatico van Straten: non tutti gli “allievi” vengono bene, anche se mi viene difficile considerarli tali».
Lei è un pedagogo, e ha mantenuto questa veste.
«Ma ci possono essere stili diversi: gli educatori che vogliono seguaci, come Dolci e don Milani. E quelli che spingono le persone a diventare autonome, come Capitini e Panzieri. Io mi sento più vicino a loro. E ho imparato a non scandalizzarmi troppo se uno piglia una strada diversa ».
A chi pensa?
«Baricco era un eccellente critico musicale, cominciò a scrivere di musica su Linea d’Ombra. Poi però s’è distratto, seguendo rotte che non mi interessano. Ma se oggi incontro Sandro, lo abbraccio e lo considero un ex compagno di strada».
Su Linea d’Ombra scopriste Rushdie.
«E poi Yehoshua e la Desai, Coetzee e Naipaul, addirittura Mahfuz. Nel decennio più stupido della storia italiana, il mondo cambiava. E noi siamo stati tra i pochi ad accorgercene. Allora
Rushdie era straordinario, non il superdivo di oggi che va scrivendo pessimi romanzi sui vip».
Anche da quella rivista se ne andò.
«Alla fine degli anni Ottanta la storia si rimetteva in movimento, ma non tutti in redazione erano disposti a mettersi in gioco. Io mi divertivo di più a fare La terra vista dalla luna, la rubrica di Linea d’Ombra che diventerà rivista. Molto spesso nascono le une dalle altre, frutto di una germinazione interna. Tre anni fa, da Lo Straniero è scaturita Gli asini, una rivista di educazione e di intervento sociale che ritengo molto preziosa».
Ma questa delle riviste è un’ossessione, una malattia, cos’è?
«No, malattia no, perché ne posso fare a meno. È un modo di fare politica per uno che non sa fare politica. Un rifornimento di energia. Nei primi Novanta andavo spesso a Palermo e a Napoli, ero autonomo economicamente anche grazie a una rubrica su Panorama».
Sì, l’editore era Berlusconi e Grazia Cherchi non gradì.
«Moralismi del cavolo».
Proprio lei non lo può dire.
«Da che mondo è mondo, chi non ha potere né beni vende la propria forza lavoro a chi gliela paga. Così replicai a Beniamino Placido che mi accusò di predicare bene e razzolare male. Uscì un mio articolo sull’Unità che fece scalpore: per la prima volta nel titolo compariva la parola “culo”. L’anima e il culo».
Ma perché ruppe con Grazia Cherchi?
«Per anni è stata la mia migliore amica. Io arrivavo nella redazione di Linea d’Ombra alle sette. E alle sette un quarto implacabile arrivava la sua telefonata. Un rapporto molto intenso. Però poi anche lei ha creduto troppo nel suo ruolo. Era quella che doveva fare la madrina dei giovani scrittori, e poi ha fatto da madrina a personaggi orrendi. Litigammo sì, ma come si fa tra amici che si vogliono bene».
Nuove riviste all’orizzonte?
«No, per ora c’è solo lo Straniero, che continuo a fare grazie ad Alessandro Leogrande e Anna Branchi. È facile essere stati bravi una volta da giovani. Più difficile continuare a esserlo tutta la vita».
Grazie per questa intervista. Amara e necessaria per continuare a riflettere utilizzando le spigolature di un Fofi sempre arguto e sincero.
Rifugge il bollino da “reduce” però la sua intervista é ricordare un mondo antico, una nicchia forgiata nel ’68 e in via di esaurimento. Letteratura mescolata alla politica, quando ancora l’ideologia nutriva le anime. Neanche un’occhiata al futuro. Malinconico.
Sinceramente, Giorgia, non penso che la letteratura sia avulsa dalla politica, nel momento in cui parla di chi siamo e dove siamo. A me mettono molta più malinconia quelli che hanno come unico scopo nella vita pubblicare il romanzino a tutti i costi.
vorrei essere così fresca, lo ammiro… buona settimana Loredana
Nicoletta
Non so – è carismatico. E ci rinfranca tanto narcisisticaamente: se gli dai ragione ti senti ganzo per contratto. Che bello – ti dici – meno male che me ne sbatto delle fiere librarie!
Eppure non mi convince, avverto picchi di retorica e di confusione – su uno sguardo storico che condivido, ma che certamente avrei aggettivaato in un altro modo.
Per esempio, trota e i frequentatori delle fiere non sono la stessa cosa, e non appartengono entrambi all’idiozia: i frequentatori delle fiere sono probabilmente persone che se non comprano lo straniero comprano qualcos’altro e scelgono un guru come lo stesso Fofi è nè più nè meno degli altri – cona anche rispettabilità e talento.
E poi, davvero l’Italia analfabeta era meravigiosa e poi che delusione è diventaata pessima? mah. certo fa il paio con la sacralizzazione dei bambini delle periferie che meno male ci sono loro martiri e verginelli. Ma questo paese è il risultato della sua storia, non è mai stato orribile ma men che mai meraviglioso. Certamente è sempre staato contadino e provinciale al punto che quando arrivarono i soldi non si seppe che farsene, e parevano il centro dell’ombelico quando eravamo gli stessi rozzi di sempre. In questo panorama, persino un frequentatore di fiere come Baricco, che in tutta onestà stimo pochissimo è un segno di miglioramento piuttosto che di deterioramento.
“È facile essere stati bravi una volta da giovani. Più difficile continuare a esserlo tutta la vita”, GRANDE!
In qualche modo un reduce lo è, e porta una testimonianza interessante dei tempi che furono. Posso anche concordare con la constatazione che non bastino i consumi culturali un tanto al chilo ad avere persone intelligenti. Detto questo, non è che prima si fosse meno stupidi. Se Fofi considera gli analfabeti del passato straordinari è una sua opinione, non molto sostenibile dal punto di vista storico. E forse la carenza di educatori è dovuta a un dato di fondo positivo, la mancanza attuale di un’ignoranza talmente profonda da necessitare di educatori di stampo antico, che Fofi stesso ammette essere poco aperti al dissenso. Il Trota, che pure come dice Zauberei non è il consumatore culturale per eccellenza, è comunque più istruito dei suoi antenati. Siamo un popolo ancora ignorante per certi versi, sicuramente spesso sgradevole, ma più adulto di prima: se sono davvero i babbei laureati a dover essere rieducati anche la figura del pedagogo deve essere riconsiderata.
“«La tragedia vera della mia generazione, dei cosiddetti alfabetizzatori, è che ci siamo confrontati con un popolo straordinario quando era analfabeta e che poi – una volta imparato a leggere e scrivere e messi da parte un po’ di soldi – è diventato un popolo di mostri e di servi».
Che improntitudine. Un maestro quando licenzia alunni rincretiniti per prima cosa dovrebbe farsi due domande su quello che ha insegnato.
La generazione dei Fofi, degli Eco, no, è immune da autocritiche.
E invece – guarda un po’ – io penso che che il cinismo e il nichilismo dell’Italia piccolo-borghese di oggi gli debba moltissimo.
Uno sguardo pessimista dopo la rivoluzione che non c’è stata. Un idealismo ricattatorio. Il suo problema è la fede in una sorta di purezza che non c’era e che non tornerà ( e per fortuna ). Il contrario dello sguardo di Baricco, curiosamente, che vede tutto come elettrizzante. Fofi si è scelto la minoranza.
La diffusione dei prodotti culturali porta al conformismo, alla venerazione, alla superficialità. Ma nel frattempo molte più persone hanno accesso al sapere. Lo stesso per l’Università, per cui si può dire che viene scelta da molti ragazzi per il valore in sé del pezzo di carta, ma non è certo questo il problema dell’Università.
@Loredana, ognuno ha le sue malinconie. In ogni caso, la prossima volta che voglio postare le mie impressioni ti mando le bozze, così potrai emendare quanto non va del mio pensiero, evitando bassezze di natura personale a proposito di una persona di cui nulla conosci.
Giorgia, io basisco. Non mi rivolgevo a te. Mi rivolgo a una pratica che davvero mi mette malinconia è che, al momento, prioritaria.
È facile essere stati bravi una volta da giovani. Più difficile, e anche un po’ penoso, voler continuare ad essere giovani tutta la vita.
Parpaglioni, non so se ti stai rivolgendo a Fofi o ad altri: a ogni modo, visto che i personalismi nei commenti mi sembrano un po’ troppi. Io non concordo completamente con l’analisi di Fofi, per essere chiari. Neanche a me piace il riferimento all’età dell’oro dell’analfabetismo. Ma che sia più che giusto sottolineare i guasti di un’alfabetizzazione a metà, dove (e così chiarisco il mio pensiero a Giorgia), non si legge, cifre alla mano, ma ci si aggira per fiere, possibilmente con un manoscritto, ecco, forse non mi sembra dubitabile.
Però è come se si volesse un modo giusto di fare cultura. Leggere è diventato fico, il libro è fico. E anche scrivere di conseguenza. Poi si incrocia con la voglia di apparire e il resto che sappiamo. Ma non è che qualcosa è andato storto perché il mondo non ci piace. Si possono ugualmente criticare aspetti spiacevoli senza ricondurre tutto alla situazione che va a rotoli e senza guardarsi come parte di una minoranza. Anche perché si resta nel vago.
Goffredo Fofi mi ha fatto ritornare in mente il ’68 con le lotte studentesche e Capanna che concionava ai tempi dell’occupazione dell’Università di Firenze che allora frequentavo. Erano gli anni di “Lotta continua” e del “tutto e subito” che mi elettrizzavano e nello stesso tempo mi instillavano che qualcosa non andava. Poi quel “tutto e subito” è sbollito e molti di quegli assatanati sessantottini li ho visti trasformarsi in panciuti socialisti trafficoni e il pensiero forte e coraggioso di un più nobile rapporto di valori diventare un brulichio di pensierini flaccidi e striminziti. Sensazione di straordinaria malinconia per le amicizie che nascono e muoiono. Commento poco (o per nulla) pertinente ma questo è e chiedo venia.
Non si capisce cosa avrebbero dovuto fare gli italiani, ogni volta che si parla di ignoranza, goffaggine culturale, analfabetismo di ritorno, mentalità da schiavi e così via. Nell’Italia contadina tanto osannata c’era e c’è un tessuto sociale di clan che ha rappresentato e tuttora rappresenta un serbatoio di voti – dove se convinci un ‘capofamiglia’ (vaglielo a dire che non c’è più la figura del capofamiglia!) ti tiri dietro almeno un’altra decina di voti. Quasi ogni comportamento dell’italiano medio di oggi è ascrivibile a modelli e strategie che servivano a sopravvivere fino a 50 anni fa. Certo, nelle grandi città era ed è un bel po’ diverso, ma pare che non se ne siano accorti in molti. Il boom economico prima, e l’ultimo ventennio poi, hanno trovato le cose così come stavano, e non è convenuto cambiarle evidentemente. Ma vorrei sapere cosa avrebbero potuto fare i cosiddetti italiani in generale, senza una formazione permanente, senza lettura dei giornali, senza incentivazioni dopo l’istruzione di base. Prendete internet: mi spiegate perchè noi, sì, siamo tutti su facebook, ma una contadina inglese fa la spesa sul web mentre le italiane no, o poco, pochissimo?
Però, un filino di autocritica da parte di Fofi non guasterebbe. Rivendica uscite e separazioni dai tempi del giornalino delle medie, mai una volta che ammettesse che avevano ragione gli altri e torto lui. E non è una questione di stile, o del modo in cui ci piace ricordare le cose come ci piacerebbe, e non come furono. Chi, come me, sulle riviste di Fofi ci è in parte cresciuto, e in parte le ha recuperate da grande, ricorda anche, assieme a tanta (ma tanta) roba buona, le stroncature di “Vogliamo tutto” di Balestrini o “Barry Lyndon” di Kubrick: siamo certi che non ci sia è qualcosa nelle analisi che dettavano questi giudizi da ripensare?
La battaglia per l’alfabetizzazione è stata sacrosanta, per carità. Ma partiva da un presupposto sbagliato: che sarebbe bastato dare la scuola a tutti, e si sarebbe innescato un meccanismo di fluidità sociale, quel famoso ascensore sociale che porta i figli meritevoli dei poveri in alto e i figli non meritevoli dei ricchi in basso. Beh, questa si è rivelata un’illusione, l’Italia è seconda solo alla Gran Bretagna per rigidità sociale, e i membri della classe dominante sono, in maggioranza, figli di appartenenti alla stessa classe, allo stesso ceto, alla stessa fascia di reddito e di alfabetizzazione. Lo sappiamo da almeno 12 anni, sarebbe ora che chi ha puntato la maggior parte dele proprie fiches sull’alfabetizzazione riconoscesse qualche errore di analisi e di presupposti.
Quanto all’alfabetizzazione di massa, anche questa è un’illusione. Dagli anni Settanta agli anni Novanta è diminuito, in modo consistente, il tasso di analfabetismo, ed è aumentato, in modo altrettanto consistente, il numero di coloro che sono in grado di compiere operazioni intellettuali complesse. Nondimeno l’Italia, per il retaggio di un lungo secolo precedente, è ancora uno dei paesi con la più alta percentuale di analfabeti di ritorno, e di soggetti a rischio di analfabetismo di ritorno. Per cui, dire che la battaglia non è servita a niente, quando è ancora in corso e non l’abbiamo ancora vinta, è, oltre che sbagliato, pericoloso.
Dopo di che, tanto di cappello alla rivista “Gli Asini”, davvero ben fatta: ma, com’è inevitabile, d’élite. Sarà un’élite di insegnanti impegnati e di buon cuore, invece che di frequentatori dei salotti buoni, ma sempre élite è: e questo dobbiamo dircelo, per non rischiare che tutta la battaglia da compiere si riduca al bell’editoriale de “Gli Asini” o dello “Straniero” che ci scambiamo per dirci se siamo d’accordo o no, e concludere che nel bene e nel male Fofi è sempre Fofi. Che sarà anche vero (Fofi è sempre Fofi, come Godard all’uscita di un suo film era sempre Godard), ma anche nel senso che interviste e dichiarazioni come questa rischiano di portare acqua al mulino della nostalgia, del “com’era bello quand’era bello”, ecc.
Girolamo, l’obbligo dell’istruzione scolastica, anche dopo il 1948, per lasciar perdere i tentativi fatti prima (nel ‘900 comunque), si è concretizzato solo in parte. Dalle mie parti nel censimento di dieci anni fa, tutta la generazione degli allora cinquantenni e sessantenni aveva fatto sì e no la terza elementare – pochissimi la quinta. Su un totale di quasi quindicimila abitanti. Mai nessuno se li è andati a cercare, mai.
Tra le virtù della nostra Italia contadina, e analfabeta, vi erano l’umiltà, la modestia, la discrezione. Che ne ha fatto il signor Fofi? Oppure, se non vogliamo personalizzare il discorso, che ne hanno fatto quelli come lui, avvezzi ad un giudizio inconfutabile, superbo, e un tantino rancoroso? Possibile che non si accorgano di perpetuare un’attitudine, forse utile ai tempi della loro giovinezza, ma oggi, per i veri giovani, dannosa?
“È quella la vera sfida di oggi: il recupero dei babbei”
Su questo sono assolutamente d’accordo, è necessario, direi imperativo, recuperarli. E io attribuisco alla parola babbeo il significato letterale, quello di persona facile da raggirare e insultare senza che se ne renda conto. Purtroppo oggi pochi, pochissimi sono in grado di rendersi conto della loro ignoranza o, se preferite, del loro livello di istruzione. Per fare un esempio, a molti è stato fatto credere di essere in possesso della cultura e delle nozioni necessarie per essere uno scrittore o addirittura un poeta. Si inizia fin dalla tenera età, quando ogni poesiola a rima baciata, per quanto orrenda sia, viene lodata da genitori, parenti e financo insegnanti. Si continua poi con una scuola che è solo una lunga sala d’attesa prima di ricevere il fatidico pezzo di carta. Si finisce con una certa editoria , per la quale, qualunque cosa tu scriva, sei Calvino redivivo. Poi l’ “abbassamento” di tutta la produzione artistica, ludica e dell’ informazione in generale, conferma i novelli scrittori nella convinzione di essere persone assai colte e capaci. Ecco dunque le stagionali transumanze verso fiere, blog e social, dove gli scrittori-lemming si preparano per il futuro e definitivo balzo nel baratro dell’ incapacità di comunicare.
Fortunatamente non tutto è perduto, esistono ancora insegnanti capaci e persone conscie dei propri limiti e di cosa occorra fare per superarli. Ora arriverà la crisi, di idee e di capitali, poi si ricomincerà.
un ignorante con bassissimo livello di istruzione non è necessariamente un babbeo … e viceversa.
L’intervista inevitabilmente sollecita un dibattito su cosa abbia rappresentato il ’68, con cui molti c’hanno fatto i conti, magari ognuno a proprio modo, mentre Fofi, almeno questo suggerisce l’intervista, neanche un poco. Senza entrare nel merito di quanto di buono c’era nel ’68 e che si è perso e di quanto di brutto e che invece pervicacemente permane e si intensifica in modo preoccupante sino ai nostri giorni, l’intervista rimane come una testimonianza direi di una persona originale e ostinata, sicuramente simpatica ed interessante, ma che rimane fuori dal dibattito contemporaneo.
Naturalmente, non la penso come altri che giudicano la sua esperienza dal punto di vista dell’insuccesso , perdente e quasi automaticamente sbagliata. No, ma forse si è già capito da quanto dicevo, di sbagliato trovo il fatto di non avere voluto fare i conti con quel periodo storico così fondamentale per la sua formazione.
anonimo: lo è se non si rende conto di essere ignorante. Il babbeo è sovente una persona che non conosce i propri limiti e, giustamente, anche una persona colta e istruita può non conoscerli, ma è meno probabile.
Un leggero fastidio l’ho provato anch’io, per i toni profeticamente amareggiati di questo signore. Traspare una certa supponenza, l’ostentazione implicita di una sorta di superiorità intellettuale. Oltrepassando il fastidio, credo che molti tra quelli che commentano si possano ritrovare – almeno in parte – in certi atteggiamenti e in certe amarezze. Io di certo, pur essendo parecchio più giovane di Fofi. Però in questa denuncia generalizzata non riesco a trovare una definizione adeguata del problema, che non credo si possa ridurre al “recupero dei babbei”. Quelli li ha creati un trentennio e più di bombardamento a base di volgarità televisive, cinepattoni, commedie pecorecce, risate all’ingrosso e, in tempi più recenti, di adeguamento della scuola a questi standard, quasi che una realtà in decadenza richiedesse un’istituzione ad essa conforme, anziché un baluardo di resistenza civile, morale, emotiva e intellettuale. Non concordo con Valberici, quando dice che “pochi, pochissimi sono in grado di rendersi conto della loro ignoranza”. Se ne rendono conto benissimo, invece, e se ne compiacciono. Uno dei danni più grossi arrecato a questo paese dal berlusconismo è l’aver creato una specie di mitologia dell’ignoranza, l’aver legittimato la rivendicazione orgogliosa della propria volgarità, contrapposta ad una visione caricaturale degli “intellettuali”, categoria squalificata nella quale si sono fatti arbitrariamente confluire tutti quelli e quelle anche solo abituati a leggere un giornale, un libro e a scrivere in italiano con attenzione a non commettere errori. Poi sì, possiamo discettare sugli sbagli di chi, prima dello tsunami di volgarità, si era prefisso di “alfabetizzare” (altro verbo da cui non traspare certo una percezione di pari dignità tra “docenti” e “discenti”); ma temo che andare alla radice del problema qui denunciato, sia pure con poca chiarezza, richieda molto più che il semplice recupero dei babbei. Che, già di per sé, a me pare un problema pressoché insolubile.
Però Maurizio, Fofi si riferisce al “popolo” de sinistra, che lurka Fazio et Saviano et Travaglio et cetera, e che si mette in coda al museo col numeretto in mano come dal salumiere, quel popolo colto e chic che blatera di decrescita biologico e via discorrendo
Non mi sembra che ci sia della malinconia nelle parole di Fofi anzi, vedo una continua apertura verso coloro che non sono illuminati dai riflettori. E’ in questi luoghi, da queste parti che secondo me si trova una realtà che è difficile da descrivere in uno slogan – e proprio perché non la si può racchiudere in una frase, in un motto, uno slogan, non la si considera… finché non la si scopre. Allora sì, si darà un po’ meno attenzione a ciò che fa il rumore di una grancassa e ci si imbeverà di quella cosa che conta, e conta molto, proprio perché non ha i clamori della ribalta ma è la realtà nella sua piena articolazione, silenziosa e sotterranea… e così formativa.
Per me Fofi si rivolge verso questa realtà ed è comprensibile se da una intervista si creino dei fraintendimenti. Poiché il suo linguaggio proviene da una realtà che non ha termini, né un incomincio né una chiusa: prenderne una parte non significa inquadrarla nella sua interezza.
Ah, e poi qualcuno mi spieghi perchè dovremmo “fare i conti col 68”. Se non stiamo facendo altro! Se si continua a far passare quel momento, e il decennio successivo, come il lato tenebroso (mentre, semmai, il lato delle tenebre è venuto dopo, negli Ottanta che hanno contribuito a formare gli “you”, l’aspirazione cieca al successo individuale infischiandosene di ogni rapporto sociale).
Io continuo a trovare ai limiti dell’allucinante, che si sentenzi sul fatto che esista un’attenzione alla cultura. Che sia un danno andare alle mostra in fila con il numeretto come dal salumiere, che si vada a sentire uno scrittore, e persino che si desideri essere scrittori. Ci continuo a leggere, dietro questo tipo di scandalo una zozzeria, qualcosa che non mi torna, qualcosa che è solo e solo per se e per nessun altro. So’ antica se vede.
I bambini dell’asilo non fanno più casino, sono rimasti molto pochi, dopo i fuochi (cit.)
L’analfabeta inteso come colui che ha una comprensione limitata della realtà, non è molto diverso dal rintronato culturale che fa la fila ai festival. D’altronde credo che al fascino per la “cultura abbocchino molte ipocrisie borghesi, insieme alle ingenuità ( e alle astuzie) contadine.
Ciao,k.
Mah, cara Dr. Lipperini, forse lei dimentica o rimuove il fatto che gran parte degli uomini di berlusconi sono ex-lotta continua. Non è possibile farne una questione di carattere individuale, una serie di persone che hanno fatto una piroetta clamorosa e sono andati a fiondarsi dalal parte opposta dello schieramento politico.
Il punto che non si dovrebbe appunto rimuovere sta nello spiegare la forma di percorso politico di costoro.
Forse, in germe, in una certa parte dei contenuti culturali del ’68, c’è qualcosa che ha aiutato costoro a trovare una loro estrema forma di coerenza.
Poi. naturalmente, può essere consolante ignorare quanto l’individualismo dei diritti si sia tramutato nell’individualismo degli interessi, ma a me sembra più saggio approfondire questi temi, anche se so bene quanto tutto ciò risulti impopolare: pazienza, non si può sempre essere di moda ed avere successo, non è un buon motivo per tacere sui propri dubbi.
Facciamo un patto. Lei mi elenca tutti gli uomini di Berlusconi che facevano parte di Lotta Continua e dei movimenti del 68 e 77 e io le perdono il “dottor”. 🙂
La ringrazio per la risposta cortese e davvero spiritosa, ma mi spiace di non essere all’altezza del compito che mi affida. Adesso, ricordo soltanto Paolo Liguori, Mughini, ospite fisso su programmi Mediaset, Gianfranco Miccichè, ma sono certo che ce ne sono degli altri.
Consideriamo poi l’orbita attorno a Giuliano Ferrara che vorrà anche lei includere tra i berlusconiani, e cito la Franca Fossati e Toni Capuozzo, ma lettori più attenti di me de “Il foglio” riconoscerebebro senz’altro altre firme.
Senza poi volere citare il ruolo di altri quali lo stesso Sofri, che scrive su “La Repubblica”, o Paolo Mieli che ha ricoperto incarichi prestigiosi al Corriere della sera”. che allora chiamavamo “Corriere del padrone”.
Non sono un esegeta di LC, a cui non sono neanche stato iscritto, e sul web è molto facile informarsi molto più dettagliatamente di quanto possa fare qui io.
In ogni caso, mi pare che gli esempi riportati vanno ben aldilà di un fatto puramente statistico, c’è una prossimità intellettuale tra la rivendicazione di una estrema libertà in campo economico con i cosiddetti diritti civili. Ciò ovviamente non può significare che si tratti di cose tra loro equivalenti, ma solo di porsi il problema, di rifletterci su, cosa che mi pare manchi nel dibattito complessivo contemporaneo, e quindi non mi riferisco specificamente a questo blog, sia chiaro.
Io il sessantotto non l’ho fatto per ragioni anagrafiche, ma trovo che la ricorrente demonizzazione di quel periodo e dei movimenti che lo hanno animato sia strumentale all’ingaglioffimento della cultura, della comunicazione e del vivere comune che è venuto dopo. Tra l’altro lei, signor Cucinotta, identifica il sessantotto con LC (anzi, con alcuni suoi esponenti che hanno saltato il fosso), il che mi pare a dir poco riduttivo. Senza contare che LC è forse più riconducibile ad anni successivi, decisamente più arrabbiati. Che da quegli anni siano nati frutti anche velenosi non può essere negato, ma qual è il fenomeno storico che ha partorito solo il meglio? Il sessantotto, per me che allora avevo tre anni e che lo guardo da lontano, con gli occhi dei cugini più grandi che poi me l’hanno raccontato, è stato soprattutto un moto liberatorio. Senza quella contestazione oggi non staremmo qui a parlare di diritti delle donne, di sessualità libera e di tante altre cose. Ha ragione Loredana, le tenebre sono arrivate negli anni ’80, che purtroppo sono stati gli anni della mia adolescenza. Il craxismo, precursore del berlusconismo, è nato allora. E, anche se oggi si tende a non dirlo, anche il debito pubblico che ci sta schiacciando.
Caro Maurizio, on so a chi si rifrisca quando parla di demonizzazione, io non l’ho fatto e quindi devo supporre che non riguardi il mio intervento, io mi limitavo a manifestare dei dubbi, dei punti poco chiari, eppoi io che l’ho fatto da protagonista come potrei mai demonizzarlo, è impossibile demonizzare la propria stessa giovinezza, guardi è una cosa che può tranquillamente escludere.
Poi, non è che io identifichi il ’68 con LC, ma LC ne fu certamente uno dei fenomeni più interessanti e rilevanti, non è che possiamo ignorarla. Anzi, convergendo verso le sue posizioni, proprio LC ne fu l’aspetto più discutibile, ma, guardi un po’ dove si va ad infilare il diavolo, è proprio quell’aspetto più libertario che lei così tanto adora.
La informo, visto ch io ho l’onere e l’onore di essere più vecchio di lei, che al quel tempo c’erano anche dei partiti maoisti che, guardi un po’, imponevano ai loro iscritti di sposarsi tra loro, una cosa da far raccapricciare, un giorno il leader andava da Maria e Giovanni e diceva loro che dovevano sposarsi tra loro, ha capito cosa ancora è stato il ’68? Un fenomeno molto complesso che non si può certo liquidare in due parole.
Un ultimo punto, lei è una persona che sta ben dentro il pensiero mainstream, e per sostenere le sue tesi, non fa che esporre le ovvietà della nostra epoca. Ma il fatto che certe idee siano mainstream non implica nulla sulla loro qualità, forse questo andrebbe ricordato.
Caro Cucinotta, spesso le ovvietà sono tali perché sono vere. O vogliamo forse dire che quello che avete fatto voi da giovani non ha avuto rilevanza alcuna nell’affermazione di certi modi di essere e di vivere dei quali oggi nessuno o quasi è più disposto a fare a meno? Se questo è pensiero mainstream sono felice di riconoscermi in esso, e anzi lo rivendico. Che poi il sessantotto, che lei certamente conosce meglio di me, sia stato un movimento variegato e portatore (anche) di pulsioni tutt’altro che libertarie, questo sì mi pare un’ovvietà. Un movimento di massa, che ha impattato su scala planetaria, come avrebbe potuto non generare contraddizioni e fenomeni deteriori? A fianco delle istanze libertarie esistevano tentazioni totalitarie come quelle che lei racconta e, all’altro estremo, si muovevano certamente figure anarcoidi (non anarchiche, che lei sa meglio di me essere un’altra cosa); figure che hanno poi trovato piena espressione nel “famo un po’ come cazzo ce pare” che appena quindici anni dopo è diventato l’imperativo categorico del rampantismo prima e del berlusconismo poi. Che sia giusto e sano criticare quello che il ’68 ha portato, io lo condivido. Ma inviterei soprattutto quelli come lei, che quegli anni li hanno vissuti da protagonisti, a non fermarsi all’autocritica, pur necessaria. Avete anche il dovere di rivendicare con orgoglio molte delle cose che ci avete svelato, e qui spesso siete assolutamente carenti: o vi autoflagellate o vi assidete sdegnosi in un augusto olimpo di titani stanchi, ma raramente condividete. Concludo regalandole un altro tassello per la sua lista: Minzolini, che una mia amica più grande di me ricorda come un gran fico capelluto sempre a capo delle contestazioni nel suo liceo. Guardare com’è diventato, che tristezza…
Vincenzo Cucinotta, mi tolga una curiosità, Maria e Giovanni sono ancora sposati o hanno divorziato?
Bene Maurizio, certamente avrò gravi problemi di espressione, ma non ho rivendicato nessuna opinione tranchant sul ’68, anzi intendevo sollecitare una riflessione più ponderata, che però non avvenisse dal punto di vista del pensiero mainstream di oggi, tutto qui.
Eh, Claudio, erano nomi di fantasia, come immagina, ed io non stavo in simili ambientacci.
Se non fosse per questioni di privacy, le potrei suggerire un blogger che sono certo si trovava in simili situazioni, ma naturalmente non dirò il nome neanche sotto tortura.
Cucinotta, nessun problema di espressione. E’ che anch’io avrei potuto leggere con più attenzione, e magari avrei interpretato meglio il suo pensiero. A volte purtroppo capita, di estrapolare una frase e ricostruirci sopra un contesto in qualche modo noto, che però in quel caso non c’è. Siccome sparare sul ’68 è uno sport nazionale in voga da anni, come se fosse questa la causa di tutti i mali d’Italia, e lo si fa proprio riducendolo a quanto di deteriore ha partorito, il suo richiamo a LC e alle giravolte dei suoi accoliti mi ha indotto a fare confusione. Resta valida la raccomandazione di raccontare quello che avete fatto e vissuto. Nessuno vuole darvi il ruolo di maestri, ovviamente, ma quello di testimoni sì. Ed è importante che certe eredità non si perdano.
Porca miseria, era per verificare se i leader maoisti possedessero la capacità di intuire le affinità di coppia, io ho provato a inviare un sms con i nomi Giovanni e Maria al servizio apposito e pare che funzioni.
@ Vincenzo Cucinotta
Premesso che dei nomi che Lei fa la metà non erano di LC, il ’77 ha visto cortei (dal 12 marzo a Roma a quello conclusivo del convegno di Bologna) di decine di migliaia di militanti. Rispetto alle quali, la decina scarsa di nomi che Lei porta a supporto della sua apodittica affermazione, prima ancora che all’ordine della percentuale aritmetica, pertiene all’ordine della pernacchia.
Certo che il fattore Maria e Giovanni non è stato preso in considerazione da nessuno storico di fine Novecento. Complotto!
Beh, nessuno è obbligato a credere alle mie parole, per me rimane comunque curiosa questa reazione sbalordita fino all’incredulità.
Poi, caro Girolamo, guardi che sta facendo confusione, qui si parlava di dirigenti, mica di militanti, altrimenti dovremmo avere l’elenco di tutti gli iscritti e magari di tutti i collaboratori di Berlusconi.
In ogni caso, si può dissentire senza tirare in ballo le pernacchie, possibile che lei non riesca a colloquiare senza passare al dileggio? Anche questo è un brutto segno dei tempi.
A parte Sofri (che non mi risulta essere berlusconiano), tutti gli altri citati non erano dirigenti ma comuni militanti, e qualcuno neanche tanto. Ferrara, poi, era nel PCI.
La pernacchia ha una dignità politica e retorica sin dai tempi di Totò.
Il ’68 non è stato un momento tenebroso. E’ stato un momento “incasinato” con il bene e il male che si intorcinavano fra loro, come in tutte le cose della vita (e vai a capire qualche volta quale sia il bene e il male). Sono stati, poi, gli uomini, certi uomini a virare completamente nel corso della loro esistenza. Ciò che mi è rimasto dentro di quegli anni da insegnante è il nuovo rapporto instaurato con gli studenti. Più fresco, più franco, più positivo. Più umano. Certo anche qui qualcuno esagerava mandando, per esempio, la grammatica e la memorizzazione in soffitta e scadendo in un rapporto fanciullesco che faceva perdere qualsiasi forma di autorità (non autoritarismo).
Girolamo, come dovrebbe essere ovvio anche per lei, il problema non riguarda certo la pernacchia in quanto tale, ma il suo tirarla fuori in un contesto di discussione civile, in cui non se ne vedeva l’opportunità.
Comunque, aspettiamo speranzosi che lei rivaluti il peto e non so quale altro rumore di suo gradimento. Ad majora!
Girolamo, anche tu: non sai che la pernacchia è troppo mainstream? 😀
Fisiologia del peto: aria che va in giù.
Quando va in su fa parole.
Quando si ferma scrittura.
Io penso che il ’68 è stato nefasto non in quello che ha fallito, ma in quello che ha prodotto volontariamente.
Immaginazione al potere. In senso letterale.