Mentre scrivo, mi accorgo che qualcosa è cambiato in me: nel senso che se oscurità e paura rimangono, alla fine mi ritrovo a dare una possibilità ai miei personaggi. Almeno, è quel che avviene nei due racconti che ho scritto e in quello che sto scrivendo. Mi chiedo da dove venga questa speranza, in tempi nerissimi. Hope, come dice Sandman a Lucifero nell’ultima sfida del loro duello. Hope, anche all’inferno.
Non ho risposte. O forse è l’unica risposta possibile a un tempo avvelenato, dove quel che amavamo fare accelera e si confonde in una sola corsa continua, che non lascia la possibilità non dico di goderne, ma di pensare.
Poi, certo, continuo a scrivere letteratura non realista, oramai esito a dire fantastica perché, puntuale come uno sciopero dell’Ama, qualcuno dirà “ma scrivi fantasy?”. Lo stigma resta, così come resta il rovescio: ovvero, il gruppo ristretto di chi scrive fantasy o horror o fantascienza mettendo lucchetti ai cancelli del canone strettissimo, rifiutandosi di includere i testi “ibridi”. Puntuale come l’autocombustione di un bus romano, dunque, ciclicamente si ripropone la questione del cosa è e cosa non è fantastico, e d’abitudine prevale il paradigma che vuole il cosiddetto letterario fuori dal fantastico. Se è letteratura, non è genere. Roba vecchia, vecchissima, sfinente. Lo stesso J.R.R.Tolkien finì nella diatriba perché non si contrappose al canone modernista che ammetteva come “letterarie” solo le favole per adulti apertamente allegoriche (come Il signore delle mosche di Golding, che uscì nel 1954, insieme al capolavoro tolkieniano): tentò, invece, di dialogarvi, mostrando che le strade potevano essere molto più numerose di quelle tracciate da un pregiudizio critico fermo agli anni Venti del Novecento. Ma ancora oggi l’esperto di fantasy (e a sua volta autore di fantasy) inarcherà il sopracciglio davanti a Il gigante sepolto di Kazuo Ishiguro e con ogni probabilità lo giudicherà un esercizio di stile, o chi è in grado di citare a memoria tutto lo steampunk prodotto sul pianeta bollerà come mal scritta, che so, l’opera omnia di Murakami Haruki.
Qualche anno fa lo disse molto bene Franco Pezzini , ricordando che il punto critico italiano “è che noi che di tali temi ci occupiamo diventiamo i vecchi amici del fantastico, con ciò che di senescente, ripetitivo e onanistico ristagni implicito nel concetto. Nel mondo italiano del fantastico, della sua presentazione e del suo studio, si respira a volte un’aria un po’ asfittica, tra piccoli feudi editoriali o mediatici, derive ideologiche quantomeno equivoche (penso per esempio alle travisanti lottizzazioni evoliane di Lovecraft e Tolkien, non solo storicamente insostenibili ma usate come collante per visioni francamente nefaste della realtà), approcci vecchi. Studiare il genere senza esplorare i suoi interscambi col mainstream e più in generale con l’intero panorama culturale di un certo momento storico rischia di confinare anche un sano fandom (termine in sé da considerarsi positivo) in un ghetto “.
Ancor prima lo scrisse Valerio Evangelisti. Chi volesse incasellare un grande scrittore come lui avrebbe vita dura: ha scritto fantascienza, romanzi storici, romanzi gotici, o per meglio dire ha miscelato i generi all’interno della sua scrittura. Lo ha fatto nel ciclo di Eymerich, in quello dello stregone messicano Pantera, ha scritto dei sindacalisti americani, dei seguaci di Diana, di pirati, rivoluzionari e braccianti romagnoli, fedele a null’altro che alla propria cifra letteraria. Nel 2006, Evangelisti scrisse anche Distruggere Alphaville, dove auspicava e preconizzava la dissoluzione dei generi: anzi l’autodistruzione per poter rinascere. E scriveva: “Se il grosso problema, per lo scrittore senza etichette, è la ripetitività, per quello di genere sono le gabbie. Il successo persino eccessivo arriso al noir, il potere contaminante della fantascienza (che può anche agonizzare, ma dopo avere riversato sulla società immagini, idee e un intero vocabolario utile a descrivere i più recenti sviluppi della società stessa), l’estendersi dell’horror nelle più inattese diramazioni mediatiche, ecc.: tutto ciò resta vitale finché resiste alla minaccia incombente della cristallizzazione in formule prive di anima e di tasso inventivo”.
Quando, insomma, gli investigatori sono cinici e spiegazzati le astronavi viaggiano inevitabilmente verso ultime frontiere, le cripte si spalancano, le catene sferragliano e nani ed elfi bevono idromele in taverna, quando si ripropone il catalogo del genere senza rinnovarne, insieme alla trama, la lingua, non si fa che chiudersi a difesa, accusando il vasto mondo esterno di boicottaggio. Per dirla con Evangelisti:
“Quella che poteva essere una sfida, diventa acquiescenza e consolazione. Inutile criticare, da una posizione tanto fragile, le banalità del romanzo borghese. Inutile stigmatizzare il vuoto a partire da un vuoto ancora peggiore. Sarà magari vero che la narrativa noir (e qui comprendo sotto l’etichetta l’intera letteratura di genere, “nera” in varie forme) ha le potenzialità per descrivere meglio di ogni altra la società odierna. Però non basta prendere atto di questo, e adagiarsi sulla rassicurante constatazione di essere nel giusto. La cognizione deve farsi coscienza e, sul piano dell’atto, tradursi in militanza. Basta con i percorsi obbligati e i luoghi comuni. Basta con l’astronauta coraggioso, il commissario umano, il giudice senza macchia, l’assassinio seriale dalle efferatezze allucinanti e dalla psicologia confusa, il mostro vampiresco che percorre la storia identico a se stesso. Tutto ciò conduce a quella che alcuni hanno chiamato, parzialmente a ragione, la “voga thrilleristica”. No. Il genere è sostanza esplosiva a cui manca l’innesco”.
Quindici anni dopo, le parole di Evangelisti sono ancor più vere. Ma è anche vero che qualcosa comincia a muoversi, e forse sarà il momento in cui l’opera virerà al rosso, e Alphaville si dissolverà in null’altro che in buona letteratura.
Quanto alla parte chiara che sto immettendo nelle mie storie, cito di nuovo, Sandra Newman, autrice del bellissimo I cieli (che è un romanzo fantastico), che disse che siamo pieni di distopie, ma che abbiamo smarrito l’utopia. E’ stata la catastrofe del ventesimo secolo a favorire la distopia, e oggi l’utopia cristiana diventa la Gilead del Racconto dell’ancella di Margaret Atwood, e le innovazioni tecnologiche diventano la possibilità di nuove atrocità come in Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro. O nel terribile Omelas di Ursula K. Le Guin, dove la felicità dei cittadini si deve all’eterna tortura di un bambino. Eppure, la nostra vita, vista dagli occhi di un abitante del diciassettesimo secolo, è utopia. I bambini raggiungono l’età adulta, le donne camminano insieme agli uomini, si va a scuola. Offriamo da sedere agli invalidi, cuciniamo per parenti in crisi, aiutiamo gli stranieri. Quasi tutti soffrono nel rifiutare un aiuto a chi lo chiede. Certo, le regole del cinismo e del nichilismo ci hanno portato in luoghi pericolosi, le democrazie vengono erose da brutali demagoghi, siamo nel mezzo di un’estinzione di massa, i nostri sogni di una vita migliore vengono avvelenati. Bisogna reagire, dice Sandra Newman: “non c’è nulla di vergognoso, infantile e irrealistico nel volere un mondo migliore. Dobbiamo lasciarci alle spalle la superstizione che ogni tentativo di risolvere i nostri problemi finisca nella distopia di Orwell. La storia ci insegna che le buone intenzioni non sono un segno di fallimento: dobbiamo permetterci di ragionare in termini utopistici, e di agire pragmaticamente per farli diventare realtà”.
Continuo, continua.