A proposito di critica. A proposito di guardare indietro. Volendo, anche a proposito di sesso degli angeli, come dice Paolo Beneforti in un commento al post precedente. Da Vibrisse, discussione a distanza tra Alberto Arbasino e Giuseppe Caliceti. Il primo è intervenuto sabato scorso su Alias. Stralcio:
Non essendoci più le riviste meramente letterarie, fuori dagli assistentati e dalle docenze,però con ‘pezzi’ di Bassani e Pasolini e Calvino e Citati e Giuliani e Manganelli e Guglielmi e Garboli e Wilcock, e neanche più gli spazi ampi ma selettivi dei quotidiani e settimanali con un cast di scrittori notevoli, i ‘pezzi’ dei critici appaiono sistemati come le novità sui banchi delle Feltrinelli, o fra le ‘anticipazioni’ di stragi eccellenti, massacri misconosciuti, eccidi ignorati e remoti, e le consuete lettere compromettenti fra letterati dimenticati e gerarchi sconosciuti ai più. Talvolta lo spazietto assegnato viene preso da considerazioni facete sul risvolto, la fascetta, la foto. (Ho ricevuto arguzie perfino sull’indice dei nomi e la singolarità degli accostamenti nell’ordine alfabetico)…Chissà però se in questa estate di organi e orgasmi e origami gialli e noir e filosofici, con revival di Moro e del Muro fra mojito e infradito, i villeggianti da bravi premi e canoni e convegni di pensatori bestseller su “Clonazione & Fibrillazione & Testosterone” hanno meditato sulle sospensioni del giudizio e del pregiudizio critico o acritico o precario, negli ‘eventi’ dove ci si è fatti spiegare dagli autori ‘live’ i loro libri, dunque diventa inutile comprarli e leggerli. Molti impegnati e integrati reduci dell’ex-Sessantotto in tournée avranno anche spiegato che fra gli slogan e le spranghe dell’epoca taluno si sarà chiesto chi poi fra i capetti sarebbe stato capace di far funzionare una linea d’autobus o una centrale del latte per i poveri senza i mezzi per andare dai dentisti in Svizzera. E i più esteti, allora: possono portarci via anche le mutande, ma non già i bei giorni che abbiamo vissuto a Venezia con Coco Chanel.
Secondo stralcio, dalla risposta di Caliceti:
Ci sono in tanti, oggi – tanti anche che in un modo o nell’altro quando erano più giovani e debuttanti per esempio erano vicini al Gruppo ’63 e che credevano in una funzione forte (stavo per scrivere fon-da-men-ta-le) della critica e la praticava pure, (senza remore, a volte anche un po’ squadristicamente), che a una certa età hanno deciso di dichiarare, chi in un modo o nell’altro, che non esiste più alcuna funzione della critica artistico letteraria e/o che la critica artistico letteraria di oggi è tutta inevitabilmente, assiduamente, assolutamente: merda. O quasi. Vassalli, Celati, tanto per fare due nomi a caso. Adesso anche Arbasino. Non me l’aspettavo. E’ come se, in questo modo, avvalorassero la tesi che la critica letteraria abbia una funzione meramente propedeutica, di “lancio” e di “marketing”, solo da giovani: quando si è diventati un mito, chissenefrega! Esattamente come la considerano i giovani autori di oggi e chi lavora in una casa editrice italiana. E così, benedicendo la sapienza del libero consumo e del libero mercato, il cerchio si chiude. Il mio sogno? E’ che attorno all’anno Domini 2080 Alberto Arbasino si reincarnasse in un neonato italiano di Voghera. Sono sicuro, sicurissimo, che attorno all’anno 2150 scriverebbe sui giornali italiani articoli brillanti, splendidi, pieni di nostalgie per il bel mondo letteral cultural artistico di cinquanta, sessanta, settant’anni prima, articoli invidiabili e memorabili tutti farciti di ricordi di sue brillanti, splendide, memorabili conoscenze e frequentazioni di grandi e grandissimi del mondo artistico e culturale di ieri.
Ah, e a proposito di critica: su Carmilla, Valerio Evangelisti versus Silvia Dal Pra’ a proposito della recensione su Lo sbrego.
Arbasino dice in modo mirabile quello che dicono tutti i suoi coetanei e sicuramente diranno anche i ventenni di oggi fra vent’anni.
Mi pare che la morte della critica sia la frase preferita dei critici.
Eppure continuano a scrivere. Com’è?
Premetto che sono d’accordissimo con il discorso che fa Evangelisti.
Ma c’è un ma.
Io cerco sempre di distinguere “Antonio”, col quale posso litigare o andare a berci una birra, da “Moresco”, nel senso del corpus delle sue opere… Ma la confusione fra l’artista, l’uomo e la sua opera, la sovrapposizione fra questi fattori non è solo di “critici urlatori” come quella che ha scritto su Lo straniero la recensione di un libro senza parlare del libro ma dell’antipatia che prova nei confronti del suo autore… È anche di critici di altissima qualità che sentono importante la presenza dell’autore dietro l’opera, la sua “ombra lunga” che non può essere dissipata tutta in funzione dell’opera.
È proprio questa posizione critica che, involontariamente, crea il terreno di coltura, o se vogliamo la giustificazione teorica, a certe futili recensioni “ad personam”.
P.S. e poi vorrei dire a Silvia Dai Pra’ che in famiglia viviamo in 4 in un microbilocale (in affitto, neppure di proprietà). E non siamo né extracomunitari arabi, né sudamericani accoltellati. Questo ci fa meno autentici?
Gianni, e ti pare democratico occupare da solo nel bilocale – con la tua stazza – lo spazio di due/tre persone?
Arbasino, nella sua qualità di trombone ipersofisticato, dice cose mirabili, anche se la critica letteraria è perlopiù inutule e deleteria.
Non ho letto la recensione originale della Dal Pra, però in questo caso lo stesso Moresco fa coincidere persona e opera.
Io attendo di vedere Moresco difendere Evangelisti da una stroncatura livorosa e immotivata 🙂
Angela, ehm…se leggi il finale del brano stralciato dall’articolo di Arbasino, dice letteralmente “I bei giorni che abbiamo vissuto a Venezia con Coco Chanel”, riferito, con ammirevole ironia arbasiniana, agli “esteti”.
Lippi, e va bene, mi devo vergognare, sputtanare davanti a tutti, e far vedere che Arbasino-lo-conosco-a-memoria? non volevo, ma tant’è. Come può, una che ha scritto fino alla nausea, frasi come questa “Prout, che fa eminentemente danni: perchè clamorosamente scambiato per un elegiaco che incoraggia a chiudere gli occhi sul presente adulto per cullarsi nelle melensaggini delle infanzie più bozzettistiche, prolungandole fino agli ottant’anni con un consumo eccessivo di madeleines in serie”, oppure, “…diventa una dichiarazione di poetica dichiarare a se stessi: basta con le rimembranze e con le dimenticanze, e col repechage, anche se siamo tutti ovviamente passati attraverso eventi variamente emozionanti e traumatici…”. L’unica cosa che mi dà fastidio è dover ammettere quanto molto io possa aver appreso dal mio ex marito.
Scusa Angela: non mi pare che qui nessuno stia mettendo in caricatura Arbasino. Nè Caliceti con la sua risposta, nè la sottoscritta, nè altri.
La caricatura di Arbasino la fa già Arbasino, e da quel dì.
Io tutte queste geniali analisi non ce le trovo, in quel che scrive Arbasino. Non le trovo nelle iper-qualunquiste e stracotte letterine con cui inonda le redazioni dei giornali. Non le trovo nelle spaventose e noiosissime lenzuolate sulle opere che vede a Bayreuth o alla Scala o al Festival di S. Giovanni d’Ostellato. Non le trovo nelle articolesse che scrive al ritmo di dieci alla settimana. Non le trovo nei suoi tritissimi “rap” (di rara insignificanza). Non le trovo nemmeno nel “Fratelli d’Italia 2.0”. Secondo me non ha proprio un’idea di cosa gli succeda sotto i piedi, e si trova in questa condizione da parecchio tempo. La caricatura non se la fa scientemente: non è proprio in grado di esprimere altro.
Su Moresco: credo che dovremmo leggere l’articolo de Lo straniero, prima di parlare. O no?
E Arbasino: sì, quando vado dal mio medico di base ascolto le stesse lamentele nella sala d’aspetto: oh, come si stava meglio prima! Sapete, a volte mi viene un terribile dubbio: la cultura serve a migliorare la consapevolezza che abbiamo della realtà o solo a infiocchiettare con effetti speciali i nostri luoghi comuni?
Perdonate il conflitto di interesi, ma francamente mi sento chiamato in causa. Da Arbasino, purtroppo, che almeno due libri (per me) importanti (*Fratelli d’Italia* e *Un paese senza*) li ha scritti. E che oggi (forse non da oggi) non rende onore al suo passato acume nel porsi, ammiccando al partito degli -antani (Luperini, Segre, Asor Rosa, Guglielmi) per i quali la letteratura italiana è morta verso il ’75 (e di conseguenza anche la critica, che ci ha messo trent’anni per accorgersene?), nel porsi, dicevo, a padre nobile di un partito della critica più recente (probabilmente involontariamente, non credo che vada a bere il gin tonic dalla ragazza Benedetti). Va benissimo snobbare il giallo-nero-thriller, ci mancherebbe; va benissimo sostenere che la forma è più importante del contenuto, mica sono tutti obbligati a sapere chi erano Benjamin, Hjelmslev e Guattari-Deleuze (e Pasolini e Contini, se qualcuno non s’incazza a sentirli nominare da me) e a credere che forma e contenuto sono due tagli nella stessa sostanza, peggio per me che me li sono letto e ci ho anche scritto sopra e continuo a seguire Paolo Fabbri, c’è chi rimastica poche pagine (mica tutte, per carità) di Adorno, Bateson e Anders. Però nessuno entra poi nel merito, nessuno dice mai qualcosa sulla lingua e sulla forma di questi romanzi popolar-restaurativi: è bella, brutta, promette senza mantenere, resta nel mezzo, usa i dialetti, gli idioletti o cosa, che struture sintattiche predilige, è ipotattica, paratattica o cos’altro? Si ha sempre l’impressione che ci si fermi alla quarta di copertina o si gabelli la recensione sbirciata per la lettura del testo. Proprio come col pezzo di Arbasino, che ama sempre non fare nomi.
Quanto alla battura finale sui 68ini (ma io quella volta lì non c’ero), ho troppo rispetto per Feltrinelli (Giangiacomo, non certo Inge) e per le pagine che Arbasino gli dedicò in memoriam per essere maleducato come la battutaccia da spiaggia cafona meriterebbe. Mi limito a ricordare che, dove è successo, i 68ini hanno governato, informatizzao nazioni e borghi, creato reti logistiche e di solidarietà, diretto radio e giornali, ecc. ecc., non tutti, ovvio, ma né meglio né peggio di quelli venuti prima: solo, a loro è stato concesso molto meno di provarci, e più in Francia e Germania che in Italia. Del resto i 63ini tutti grandi editori, direttori di collane, sperimentatori straordinari di mezzi di comunicazione? Nessun venditore di fumo, nessun cattivo traduttore, nessun parolaio tra cotanto senno?
(Ecco, Arbasino, lo vedi l’effetto che mi fai? Mi metto a sproloquiare di categorie astratte come 6*ini, e non di individui concreti, uno per uno, come dovrei sempre fare).
Al volo: l’articolo della Dai Pra’ è qui:
http://www.lostraniero.net/ottobre05/DaiPra.html
Adesso che ho letto l’articolo della Dai Pra’ devo dire che sì, è una recensione. Ed Evangelisti, secondo me, ha torto. Anche perché, sinceramente, è difficile separare la fiction di Moresco dalla sua vita. Quando parli di lui parli dei suoi libri e viceversa. Poi, Moresco scrive, a proposito degli extracomunitari di piazza Duomo: “Io mi trovo bene seduto per terra, là in mezzo. Non mi sento diverso. Mi sento più diverso quando mi capita di stare in mezzo alle persone che circolano attorno ai libri”. Lui è libero di pensarla come vuole ma per me questa è una solenne, stereotipata cazzata. Io mi trovo bene con chi mi trovo bene. La favoletta che i poveri sono buoni e i ricchi cattivi… Ma dai! Insomma, la cultura a cosa serve (e non mi riferisco solo a Moresco)? Ad affermare con sicumera e con belle parole una serie di luoghi comuni?
Ho letto anch’io e sono d’accordo con Nicolò.
Incollo un articolo di Walter Pedullà tratto da Stilos del 13 settembre: “SERVE Il BIPOLARISMO. Poiché oggi tutti parlano di bipolarismo, anch’io vorrei dire la mia: naturalmente per dichiararmi a favore. Sono stato un fautore dell’alternativa fra destra e sinistra quand’era più facile distinguerle che non ora. E tuttavia io non intendo parlare di politica, bensì di letteratura, che ha un suo modo particolare di prender partito, scontrarsi o fare unione. li bipolarismo letterario è stato sempre un fattore di crescita artistica e sociale. In mezzo secolo ho esperienza diretta di cinque episodi di conflitto radicale di idee e di linguaggi: primo, il passaggio dall’ermetismo al neorealismo, dopo il ’45; secondo, la transizione dal neorealismo al neosperimentalismo (’56?’60); terzo, lo slittamento dal neosperimentalismo alla neoavanguardia, (’60?’68): quarto, il ritorno dei nuovo realismo che si fa iperrealismo degli anni Settanta (1969?1979) e infine, quinto, l’avvento del post?moderno, che dura dall’80. I «successori» non erano migliori, ma erano indispensabili a chi non tollerava la pigra ripetizione. Mentre declinava una cultura già egemone, i vecchi critici d’allora negavano qualità artistica a libri che a un bilancio storico oculato risultano ora non meno belli dei precedenti e più nuovi. Savinio, Landolfi, Palazzeschì, Vittorini, Brancati, Bilenchi, Bontempelli, Pea, Gadda e Moravia (mi fermo a dieci, più uno, Zavattini) scrivevano ancora i loro romanzi o racconti legati alla tradizione del nuovo che era nato dalle avanguardie storiche, quando esordirono Pavese Calvino Rea, Fenoglio, Testori, Bonaviri Ortese D’Arzo, Bassani, Parise (mi fermo a dieci, più uno, Cassola, facciamo due con Soldati, tre con Tobino e quattro con Sciascia), che negli anni Quaranta non erano più noti e più promettenti di tanti giovani narratori d’oggi ma che pensavano di più al futuro perché fosse migliore il presente. Bisognava trovare il paese lontano dove buongiorno vuoi dire solo buongiorno. Tra ermetici e realisti fu necessario essere persino neorealisti Dovevano dire qualche cosa per cui non c’erano ancora le parole e le trovarono. Di mille narratori sopravvivono dieci, quelli che ebbero l’idea di cercare ciò che serviva all’individuo e alla collettività. Negli anni Cinquanta erano sconosciuti più di quanto lo siano gli scrittori che oggi pubblicano le loro opere prime narratori come Manganelli, Arbasino, Malerba, Alice Ceresa, Pizzuto, Volponi, Meneghello, Roversi, Pasolini e D’Arrigo (facciamo undici con Ottieri, dodici con Massimo Ferretti, tredici con Rosso e quattordici con La Capria). Tra loro vanno cercati gli autori che hanno raccontato meglio la transizione dalla civiltà contadina alla società industriale. Hic Rhodus híc salta. Solo alcuni rimasero in piedi ma gli anni Sessanta furono magnifici sia per la letteratura che sta in sé, sia per quella che va fuori di sé, cioè nella società. C’è voluta un’iniziativa dei linguaggio ma così si è «aggiunta vita alla vita», è stata data una nuova forma all’informe, dal quale nacque la contestazione: il dire di no che afferma il contrario. Bando alle parole, torniamo ai fatti, dissero poi gli anni Settanta, il grande decennio in cui trionfò il realismo dell’avanguardia. La parola ritrovò la cosa, i pazzi tornarono a casa, i vecchi sindacalisti furono proclamati scemi, ma, per l’iniziativa della realtà, molte fantasie della contestazione divennero riforme. Da vent’anni giochiamo tutti al centro, vecchi e giovani. li post?moderno è estremismo di centro? Ora però è la palude. Che fare allora? Serve di nuovo il bipolarismo. E tuttavia vincera sempre il centro, se il bipolarismo non ha un programma, un’idea di letteratura, un’ipotesi di linguaggío che vada alla ricerca della vicenda in cui annegherà chi non tiene in alto la testa. Anche stavolta ci vuole dunque un’iniziativa della cultura, cioè filosofia, storia, psicologia ecc. «Per diventare pazzi, serve un cervello grande, poderoso e fantastico» (Palazzeschi). Ce n’è qualcuno in giro? Sono pazzi i vecchi critici che negano l’evidenza, e cioè che ci sono in giro, ancora poco noti, alcuni buoni narratori e molti giovani intellettuali capaci di darsi forte pensiero di un’alternativa da prevedere. Si faccia dunque una nuova unione di cultura e letteratura, e poi si bandiscano le primarie per stabilire quale idea ba più futuro. Genera esigenze ed energia anche il dibattito fra individuí, materia prima purché dotata di materia grigia. Comincio io con l’esprimere un voto: vinca il progetto che ha più ragione e fantasia”.
L’articolo di Silvia Dal Prà mi ricorda una breve (e poco signorile) stroncatura di Cioran da parte di Magris (*Danubio*): se la mena tanto con la figura del pessimista cronico perchè gli rende bene. Invece Cioran era poverissimo, per lui era un problema comprare un dolce da offrire al suo traduttore tedesco ospite a casa sua: ma questo Magris, evidentemente, non lo sapeva. Questo per dire che è sempre pericolosissimo dedurre un carattere umano da uno scritto. Pericolosissimo e anche sottilmente inquisitorio, fa un po’ odore di incenso, cera e carni bruciate. Oltretutto grandissimi fetenti sono stati grandissimi letterati (Rimbaud, Jim Morrison, per dire). Io dal pezzo della Dal Prà ho capito che Moresco se la mena (secondo l’autrice), non ho capito di cosa parla il libro, se non che è un libro (commissionato?) sulla lettura che non parla di lettura: se dopo aver letto una recensione ne so esattamente quanto prima la recensione è scritta male.
Quanto al pezzo di Pedullà, fa pensare che fare il critico sia ancora possibile, che si possa scrivere cose sensate e anche un po’ leggere persino nell’età della restaurazione. Come quello che scrive Caliceti, del resto (e non parlo solo del pezzo di oggi). Ma com’è che i post di Caliceti non se li fila mai nessuno? Più interessante becchettarsi per un pugno di granaglie nel pollaio, o nello studio dell’Azzeccagarbugli?
“persino nell’età della restaurazione”, scrive l’anonimo (o anonima).
La restaurazione è nell’occhio di chi la guarda.
Ad esempio: è impossibile separare la vita di Iannozzi dalle sue opere.
Per l’anonimo che ha scritto il post che ricorda Cioran. Se ti interessa, posso mandarti la recensione allo Sbrego apparsa sull’ultimo numero di Fernandel. Non che sia nulla di trascendentale, anzi…, ma almeno lì è Moresco stesso a dire qualcosa del libro. Te la propongo perché secondo me Lo sbrego è un bel libro. Se ti interessa scrivimi a titonco@hotmail.com
ciao
Cioè, Moresco che recensisce Moresco? Son belle cose 😀
Sorry, l’anonimo che parlava di Cioran sono io, mi è saltato il nome nel postare. Chiaro che l’accenno alla restaurazione era ironico, sono anch’io un restauratore, no?
Sì, Nicolò, ora l’ho letta anch’io la recensione. (a proposito: Grazie Babsi)
Ecco, in effetti la trovo meno urlata di quanto il pezzo di Evangelisiti mi avesse indotto a credere (ma è, in fondo, colpa mia).
Però resta una recensione “fastidiosa” per il tono saccentello da “te lo do io Moresco”, “mo’ ti faccio vedere i sorci verdi!”, “Ti ho sgamato, a me non la si fa!”
Insisto comunque a restare della mia opinione espressa più sopra. La confusione e la sovrapposizione di Moresco con la sua opera e della sua opera con il suo autore, non è, solo e soltanto, del recensore de Lo Straniero, ma anche di chi gli sta vicino.
Non è detto che grandi, morali, persone siano necessariamente grandi autori che producano grandi opere. E opere grandi non danno automaticamente moralità ai loro estensori. Questo sillogismo non regge.
(“di chi gli sta vicino” a Moresco, intendevo… Dio come scrivo male!)
Girolamo tu non sei un restauratore tu sei:
GRANDE!!!!!,!!
Sììììììììììì. siamo costellazioni di virtuose dipendenze! contraiamoci ché siam tutti funtivi implicati nella manifestazione del sincretismo! processiamo i testi! sistemiamo la lingua!
Hjelmslev è meglio dell’acido lisergico. e costa pure meno.
Graaandi!!!,!!!
Ciao a tutti e scusate se mi intrometto.
Visto che, tra di voi, qualcuno ha rincarato la dose e qualcuno mi ha difeso, vi mando la risposta ideale (mica è facile rispondere a Carmilla…) che avevo pensato di scrivere.
Visto che non l’avevo scritto, però, lo dico qui: penso che per uno scrittore come Moresco sia impossibile separare “l’uomo” dall’ “autore”, perché è proprio lui a non volerlo. Forse sarebbe stato possibile per altri libri più riusciti, non per questo.
Comunque, vi allego qui la risposta ideale a Evangelisti
Roma, 23 settembre 2005
Gentile Evangelisti,
mi scusi se mi avvalgo del diritto di replica. Non mi soffermo troppo sugli attacchi personali contenuti nel suo pezzo. In effetti, rileggendo ciò che avevo scritto – mi dispiace che manchi il link all’articolo, forse un eventuale lettore dovrebbe avere la possibilità di verificare ciò che viene detto – non ho trovato il livore che invece ho trovato in lei. Soprattutto mi è sembrato un po’ scorretto il modo in cui lei ha estrapolato alcune citazioni estraniandole dal discorso che stavo conducendo, magari tagliandole anche al punto giusto, in modo che, alla fine, non volessero dire nulla. Potrà dire che io ho fatto lo stesso con Moresco, ma non credo: infatti le citazioni da me riportate tendono ad essere smodatamente lunghe, e a riassumere prima il contesto da cui vengono estratte.
Quello su cui stavo ragionando, comunque, mi sembra un po’ diverso.
Innanzitutto mi chiedevo se le modalità di attaccare il mondo letterario di Moresco non siano un po’ stucchevoli. In soldoni, se serva ancora a qualcosa ribadire ogni volta che il nostro panorama letterario è composto da “piccole schiere funzionarie e gregarie che si fanno del male, si leccano il culo per emergere dal pentolone pieno di merda. Tutti lì a quattro zampe, ad annusarsi, come i cani nei giardinetti. Vecchi scroti penduli che si allungano per mezzo metro in mezzo alle gambe”. Ha ragione a dire che, nello Straniero, non è difficile trovare invettive contro il mondo culturale che non suonano esattamente più gentili. Quello che le rende diverse, però, è che, in generale, o si fanno i nomi, o si discute sulle strutture dell’editoria, dei media, sulle connessioni tra letteratura e potere, cercando di condurre un discorso che vada un po’ più a fondo dell’immagine viriloide degli “scroti penduli”. Si sa che alcuni hanno il tic di replicare ad ogni critica con l’accusa di avere assimiliato “le logiche del dominio imperiale”. E’ uno slogan un po’ semplice, non trova? Era questo che intendevo quando scrivevo: “continuando a discutere in questi termini, non si andrà molto lontano. Se, alla fine, il postmoderno a qualcosa c’è servito, è anche perché ci ha insegnato a sospettare tanto dei saltimbanchi del potere quanto di quelli della contestazione. Siamo diventati scaltri nello smascherare le pose, le frasi ad effetto, gli inni alla rivoluzione troppo sbrigativi. E non riusciamo più a pensare che qualcuno, per presa di posizione, possa porsi in una condizione di purezza pregiudiziale”. Lei può pensarla diversamente, ma io sottoscrivo ciò che ho detto. Le garanzie rivoluzionarie che lei mi chiede, poi, non posso offrirle, visto che nell’ ‘89 stavo in prima media. Cerco semplicemente di trovare un punto di vista sul mondo odierno che si svincoli da prospettive non più attuali, e di riconoscere quegli autori che mi possano aiutare a costruirlo.
Ma la citazione che mi pare più estrapolata arriva verso la fine. Quella che lei definisce come un insulto e una pura cazzata, fa parte infatti di un discorso che cercavo di porre in termini ben diversi. “E’ inutile sfoderare gli anni del monolocale come garanzia di autenticità. Lo scrittore Moresco non è un extracomunitario arabo, non è un sudamericano accoltellato”. Che Moresco non sia un extracomunitario mi sembra cosa evidente. Nel pezzo, che immagino abbia letto, mi riferivo a un brano dello Sbrego in cui lo scrittore si dipinge solitario, notturno, con una birra in mano, mentre si va a sedere sugli scalini del Duomo tra arabi ubriachi e sudamericani accoltellati: “Io mi trovo bene seduto per terra, là in mezzo. Non mi sento diverso. Mi sento più diverso quando mi capita di stare in mezzo alle persone che circolano attorno ai libri”. Ecco, questo brano mi era sembrato sintomatico di quello che chiamavo “un fitto reticolo di maschere, di pose e di facili vie di fuga”. Lo scrittore Moresco può non sentirsi diverso dagli extracomunitari accoltellati e ubriachi, ma è oggettivamente diverso da loro. E’ troppo facile usare le sofferenze altrui per collocarsi immediatamente nel mondo degli oppressi. Condurre un discorso sull’oppressione, sulla politica, sulla letteratura richiede un’ analisi che va necessariamente oltre le belle immagini e le pose. Una depressione, delle ferite più che giustificate per i tanti rifiuti editoriali – quello a cui nell’articolo faccio riferimento come a “gli anni del monolocale”, su cui, secondo me, lo scrittore indulge un po’ troppo, fino a finire nel compiacimento – sono un dolore personale che va descritto con altre armi, credo, che quelle del compianto. Lei ha ragione, poi, a dire che Moresco ha fatto benissimo a seguire fino in fondo la sua passione. Bisogna però vedere se fa bene a edificarci sopra un monumento. E’ per questo che scrivevo che, forse, l’autore avrebbe potuto raccontarci tutte le sue “sofferenze autentiche” magari mettendole un po’ più in discussione, cercando di presentare anche qualche punto di vista un po’ diverso. Sarà una posizione personale, ma le autoesaltazioni non mi convincono, e neanche un certo vizio che esiste da sempre nella sinistra italiana, quella di rappresentarsi in veste di puri, costretti a combattere contro un mondo di mostri.
Ed ha perfettamante ragione anche quando scrive che il mio rischia di suonare come l’ elogio del minimalismo. Non era però questo che intendevo fare, visto che tra il minimalismo e il dannunzianesimo mi sembra che ci siano molte sfumature. Tutto qui. Non ho niente di personale contro Moresco, mi è sembrato semplicemente che il suo libro ci desse poco, anche nelle parti in cui parlava di letteratura, che non mi sono sembrate proprio illuminanti.
La casualità ha voluto che leggessi Lo sbrego proprio nel momento in cui stavo leggendo Elizabeth Costello di Coetzee, e il modo in cui quest’autore ragionava sulla sul potere, sul mondo, sul corpo, mi è sembrato un modo un po’ più profondo di condurre un discorso a metà tra narrazione e saggismo che partisse dallo spunto della letteratura. Magari il paragone potrà suonare stonato, a sproposito: ma mi sembra che ci siano molte persone che trovano Moresco in grado di gareggiare alla pari con i migliori nomi della letteratura mondiale. Io non lo penso. Così, ho cercato di ragionare sul perché l’ autore Antonio Moresco non riuscisse a convincermi, pur riconoscendogli un talento che appare specialmente nei Canti del caos.
Come si ricorderà, il suo racconto apparso su Patrie impure aveva sollevato un piccolo polverone: purtroppo ad attaccarlo era stato un editorialista del Giornale, e questo aveva fatto sfumare ogni possibilità di analisi sincera, anche da sinistra. Ma non credo di essere stata l’unica a pensare che riesumare Alfredo da Vermicino, che si rifiuta di uscire dal pozzo perché ciò che è fuori gli fa schifo, fosse un atto di cinismo un po’ gratuito: e fosse anche una via semplice, che permette di rifugiarsi in un “grido di dolore” (altrui, tra l’altro), invece di provare ad analizzare la realtà odierna in modo più complesso, con tutto il suo carico di caos e contraddittorietà. Realtà in cui uno scrittore è immerso e con cui convive, e con cui forse un po’ si sporca, ben diversamente dal modo in cui può farlo un bambino caduto in un pozzo. Non c’è nulla di male nel fatto che io pensi questo, e non credo che non stracciarsi le vesti per uno scrittore che viene attaccato da un forzaitaliota sia un atto poco di sinistra: piuttosto, come scriveva Fortini nella Difesa del cretino, è proprio tra persone che, sommariamente, hanno le stesse idee che deve esercitarsi il diritto di critica, altrimenti si finisce nella logica di clan. Critica fraterna, ovviamente, come forse non è stata la mia: ma, nonostante tutto, continuo ad essere convinta che la mia recensione allo Sbrego non contenesse un decimo degli insulti che invece ho trovato nella sua replica. Con questo chiudo, sperando che ciò che ho detto non suoni come l’ennesimo sfogo isterico di Antonella Elia. Ma, se il panorama deve essere questo, bisogna pur sempre vedere a chi spetta il ruolo di Walter Nudo, a chi quello di Pappalardo.
Cordialmente
Silvia Dai Pra’ (scusi se preferisco usare il mio nome per esteso)
se vi interessa silvia dai prà ha appena postato nella bacheca di NI una replica all’articolo di Evangelisti
http://www.nazioneindiana.com/2005/09/01/bacheca-settembre-2005/
Potete leggerla anche sul mio blog
http://georgiamada.splinder.com/
dove ho postato anche un articolo (sempre da lo straniero) dove c’è una storia di Nazione indiana
geo
:-)))
scusatemi vedo che l’autrice si era già presentata da sola mentre scrivevo
georgia
Una minuscola nota a margine, giusto un appunto di netiquette: sarebbe bene che tutti linkassero i pezzi a cui fanno riferimento, se ne esiste una versione online. Il pezzo della Dai Pra’ l’ho dovuto segnalare io in questo post (il link su Carmilla non c’era), e Georgia ha fatto un lavoro utilissimo di segnalazione e di assemblaggio. In assenza di volontariato, però, seguire repliche e controrepliche diventa difficile. Linkate, ragazzi, linkate 🙂
babsi io guardo sempre lo straniero appena esce e ti posso assicurare (almeno credo) che all’inizio la recensione di silvia on-line non c’era e neppure l’articolo che parla di nazione indiana (l’avrei notato).
Lo aveva segnalato giorgio nella bacheca di nazione indiana, ma lui lo aveva letto sul cartaceo che gli era appena arrivato per posta.
Credo, anche se naturalmente non potrei giurarlo (in rete tutto appare, scompare, riappare :-), che i due articoli siano stati messi on line in un secondo tempo.
Forse per questo evangelisti non l’aveva linkato. Lo straniero non è mai tutto on-line.
Ma silvia potrà dircelo con maggior precisione
georgia
Ciao Georgia
(scusa la curiosità, ma è il tuo nome vero o un nick?)
l’articolo c’era, a quello che ricordo io, il mio e quello di Morreale stavano in rete da almeno 4-5 giorni.
Poi, se Evangelisti non ha voluto linkarlo, amen.
ciao silvia