I DON'T WANNA WIN

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B. Rabbit
:…You never gonna judge me, though / ‘Cause you don’t know what the fuck I’ve been through / But I know something about you / You went to Cranbrook – that’s a private school / What’s the matter, dog? / You’re embarrassed? / This guy’s a gangster? / His real name is Clarence / And Clarence lives at home wit both parents / And Clarence parents have a real good marriage…

Giusto una settimana fa, a Pescara, buona parte della discussione seguita in rete agli interventi su letteratura e blog riguardava la conflittualità di questi ultimi, talmente esasperata che, per alcuni, renderebbe impossibile il dialogo.
La questione, tutt’altro che nuova, mi riviene in mente leggendo un articolo tratto, ancora, dall’ultimo Stilos. Si chiama “Una generazione in cerca di maestri”, prende spunto da un libro (Antonio Debenedetti, Un piccolo grande Novecento. Conversazione con Paolo Di Paolo, Manni, pp.175, euro 14), si riaggancia anche ad un intervento di Filippo La Porta sul Corriere della Sera dove si toccava il problema dei maestri. Così: “Per avere un maestro bisogna disporsi ad eleggerlo, a metterlo sopra di noi, a farne oggetto di stima e ammirazione. Oggi non si ammira più nessuno (ci sminuirebbe). Tutt’al più lo si invidia”. A sostegno, nell’articolo viene citato George Steiner (La lezione dei maestri, Garzanti) e la sua definizione di “età dell’irriverenza”: “L’ammirazione…è passata di moda. Siamo assuefatti all’invidia, alla denigrazione e a un livellamento verso il basso”.

Cosa c’entra questo con i conflitti? C’entra, e c’entra con la rete. Continuo a pensare che ci sia un errore di fondo nel considerare lo scontro come qualcosa di negativo e come espressione di veleni personali (cosa che magari, anche, in alcuni casi, è). E  penso che questo sia  profondamente legato al concetto di maestro e di apprendista. Credo, cioè, che continuiamo ad avere in mente un tipo di educazione, o di apprendimento, verticale, e che questo cominci ad avere poco senso. Credo che ci si possa formare, che si possa imparare, che sia possibile creare un sapere che si costituisca-dico una banalità, assai risaputa peraltro- orizzontalmente, dove non ci sia più qualcuno che sta in alto degnandosi ogni tanto di scendere fra i mortali. Nell’articolo si cita l’identificazione debenedettiana fra i maestri letterari e gli dei dell’Olimpo: io mi auguro vivamente che sia cominciata l’era degli umani. Questo presuppone non tanto che ci sia qualcuno disposto ad imparare: ma qualcuno che non ritenga il proprio pensiero come una verità intangibile: e dunque sia disposto a confrontarsi. Sto dicendo che il web è il miracolo? No, sto dicendo che il web è uno strumento che può essere utilizzato in un processo cominciato già prima della sua nascita, ma a cui è straordinariamente funzionale. E il conflitto, in questa processo, è appunto vitale.

Poi, certo, può apparire singolare che stia scrivendo queste righe avendo appena chiuso la porta in faccia ad un interlocutore che mi opponeva la propria granitica verità. Ma c’è ancora una piccola lezione da apprendere, e che viene ancora una volta da mondi apparentemente lontani dalle patrie lettere. Nei duelli verbali dei rapper, e prima di loro dei griots, l’importante, anche se può sembrare l’esatto contrario, non è dire l’ultima parola. E’ poter parlare.


B. Rabbit: [rapping without music] Fuck off, Papa Doc, fuck the clock, fuck the trailer, fuck everybody. Fuck y’all if you doubt me. I’m a piece of fucking white trash and I say it proudly. And fuck this battle, I don’t wanna win, I’m outie. Here, tell these people something they don’t know about me.

82 pensieri su “I DON'T WANNA WIN

  1. Significa che Andrea Barbieri ti ha detto che sei superficiale, ti sei incazzata, giorgia ti ha rimproverato perchè ti sei incazzata e tu ci hai fatto un post?

  2. No. Se ti interessa il passaggio: ho letto Stilos-trovato, finalmente-in aereo ieri, ho ripensato alla discussione di Pescara, mi sono riproposta di scrivere il post.
    Nel frattempo: mi sono scazzata con Barbieri, ho avuto un moto di esasperazione all’ennesima tirata d’orecchie su come dovrei comportarmi in rete, ho sbattuto la porta, l’ho riaperta, ci ho trovato gEorgia che mi rimproverava di aver sbattuto la porta e ho aggiunto la coda finale. Contento?

  3. Non è OT sulla questione del maestro. Genna su Ellis e King, su Carmilla:
    “Forse Lunar Park è la fine di uno scrittore per come l’abbiamo conosciuto. Forse Bret Easton Ellis non sarà sommerso, con questa pubblicazione, dal successo planetario e dal glam stellare a cui lo avevano abituato tempi marci, marci non soltanto per lui. Certo lo scrittore di Lunar Park è un’acquisizione importante delle lettere non patrie, ma internazionale. E’, a fianco di King, uno dei soldati nell’assalto all’arma bianca della mitopoiesi, per la conquista della rappresentazione in forma di leggenda del nostro tempo tutto.”

  4. “Lippa, non temere, domani ti vendico io con il pezzo “Ogni cosa è illuminata… da Barbieri”:- )”
    Sempre in tema, così nessuno di offende: Luigi Pirandello, “il treno ha fischiato”:
    Farneticava. Principio di febbre cerebrale…
    Lucio, mi passi il lanternino di Barbieri, così mi nomino anch’io cacasenno dei lit-blog per il prossimo trentennio?

  5. Dunque: io vorrei prescindere dallo scontro (se di scontro si può parlare) e tornare al concetto. Sui maestri: ho fatto una sintesi davvero troppo estrema del lungo articolo di Stilos, e me ne scuso. Anche perchè secondo me la questione non si pone tanto nei termini “farne o no a meno”, ma DOVE trovare saperi. E in questo senso mi rifaccio al punto due, quello che riguarda l’intervista ad Ammaniti e che ha provocato lo sbattimento di porte di cui sopra. Ieri Andrea citava, in proposito, il parere di GiPi, narratore a fumetti, che testualmente concludeva “Parlo del mio raccontare a fumetti.
    Il mio raccontare a fumetti non subisce alcun stimolo positivo dall’accostamento con il mondo dei giochi.”
    Bene, per altri non è così: non si sta dicendo che dal videogiocare possa venire per tutti, indistintamente, la via della scrittura, nè che basta cimentarsi con GTA per trovare le stesse cose-gli stessi saperi, le stesse storie-che trova Ammaniti. Basta non chiudersi, appunto, porte. Non pensare che i propri maestri, o i propri terreni di apprendimento, siano predeterminati e immobili. Non pensare che esista un’unica verità, appunto.

  6. Wu Ming 1 su Nazione Indiana:
    “Rancori coltivati con dedizione. Esiste un “pollice verde” dei rancori: c’è chi è in grado di farli crescere e chi no, chi crea per loro un perfetto microclima e ha la costanza di annaffiarli tutti i giorni prima di uscire di casa, e chi invece li lascia sul terrazzo, noncurante, li lascia a consumare la stagione finché le foglie non cadono, volano nei giardini sotto casa, tornano concime per il ciclo della vita.
    “Rancore” ha a che fare con l’essere rancidi. Stantii e un poco puzzolenti. Ri-sentimento è il già sentito, emozioni sfiancate dalla ripetizione coatta, come proletari già esausti che vedono allontanarsi l’età della pensione. Livore, legarsela al dito, e ogni giorno guardarsi quel nodo, pensare che quel dito è il centro del mondo, tutto ciò che ti circonda è in relazione a quella cosa – o persona – legata al dito. Vedi nemici dappertutto,intravedi le tensostrutture di complotti destinati a slegarti quella cosa/persona dal dito. La copri con l’altra mano a conca, e continui a guardarti intorno”.

  7. Beh loredana la maniera più antipatica di avere l’ultima parola in rete, e NON parlare chiudendola lì, è proprio la frase (quella si granitica) di dire “ora basta me ne vado e la finisco qui, inutile che mi rispondiate”. E’ molto diffusa questa maniera di prendersi l’ultima parola indirettamente, qualcuno spesso ci aggiunge sempre, come clausola, una offesina (come una accusa di ignoranza o altro) o un ciao ciao ironico;-).
    I maestri (anche quelli piccoli) per avere stima e ammirazione devono meritarsela, almeno offrendo con generosità le loro competenze e io non vedo molti maestri del genere in circolazione, vedo solo tanti narisisti, ma forse mi sbaglio.
    Ad ogni modo quando è uscito lo smilzo libretto di Lavagetto, umile e profondamente intelligente e aperto al nuovo, tutti abbiamo capito subito che aveva qualcosa da drci e lo abbiamo letto con “ammirazione”.
    Purtroppo, come giustamente ha detto giovanni, queste parole ci vengono sempre da persone di due o addiritture tre generazioni fa.
    L’ammirazione non si chiede si conquista sul campo, e non mi sembra che ci sia nessuno disposto a rischiare fino a questo punto, la generazione dei La Porta mi sembra che abbiano fallito, per lo meno su quanto aveva affermato Vattimo che stava nascendo un nuovo tipo di uomo finalmente “umano”, io proprio non lo vedo questo tipo di uomo nella critica letteraria attuale, umano sì ma in senso negativo e distruttivo dell’altro (distruttivo, non critico che è altra cosa);-)
    geo

  8. Georgia: come hai visto, però, sono tornata, e sono dispostissima a continuare il confronto. P
    erò, insisto: la disponibilità su questo e altri punti deve essere da entrambe le parti. Se Ammaniti dice l’esatto contrario di GiPi non significa che le due visioni vadano necessariamente contrapposte: su questo, mi pare, concordava lo stesso Andrea. Sul fatto che i videogiochi siano una “categoria vuota”, come affermava Francesco Forlani, sono meno d’accordo. Sul fatto che la prevalenza del nome (di Niccolò) vanificasse il contenuto dell’articolo, non capisco proprio: ho fatto un’intervista ad Ammaniti in quanto Ammaniti, non un’inchiesta sui videogames. Solo che abbiamo concordato insieme di non parlare di libri, per una volta.
    Quanto ai maestri, mi chiedo e ti chiedo: siamo sicuri che ci sia bisogno di ammirazione, da entrambe le parti?

  9. a me non sembra che ammaniti abbia detto che trova ispirazione dai video gioghi a me sembra che abbia detto che trova ispirazione esaminando i meccanismi, anche psicologici di dipendenza, di una cosa che fa parte del mondo di oggi.
    Ho trovato molto interessanti le sue osservazioni, in fondo lo scrittore deve fare questo: “capire”, che poi lo faccia unendosi ai migranti nei ctp, nei tumulti parigini, nei salotti dell’alta borghesia o nei video giochi, per me cambia poco, basta che ci “illumini” la nostra vita, magari non col faro che acceca l’inquisito, il più delle volte basta anche una piccola lucciola;-), che poi la luce sia puntata su quarto ongaro o sul proprio io in tempesta, non importa, basta che l’esperienza sia in grado di diventare di tutti e non solo di uno stagno protettivo di amici o di una idea preconfezionata come un detersivo.

  10. “a me non sembra che ammaniti abbia detto che trova ispirazione dai video gioghi a me sembra che abbia detto che trova ispirazione esaminando i meccanismi, anche psicologici di dipendenza, di una cosa che fa parte del mondo di oggi”.
    Georgia, non c’è differenza, se ci pensi bene: quel che ti rimane della pratica ludica non è semplicemente l’episodio della porta parlante in “Branchie” 🙂
    Quanto all’idea che diventa di tutti: ancora una volta, il discorso è a doppio taglio e coinvolge nella stessa misura chi “dà” e chi “riceve”.

  11. Odio i videogiochi. Così inutili: in Danko, Swarzy – il che fa ridere e non poco – vedendo l’occidente del porno dice pressappoco “roba da capitalisti”. Be’, stesso discorso per i videogiochi, solo che questi son diffusi sia a est che a ovest. Un business che sicuramente fa felici molte multinazionali, magari le stesse che poi alimentano la fame e le guerre. Ma d’altro canto così è. Però se c’è una cosa inutile sono i videogiochi, che tra l’altro portano a forme di malattie mentali. Da non sottovalutare.

  12. Se non fosse troppo tardi, se non foste incancreniti nella vostra vacuità, avreste tutti bisogno di un maestro. Siete i figli degeneri di un equivoco, dove i film di cassetta hanno lo stesso valore di Kafka. I videogiochi sono l’anelito di una società appiattita ad appiattirsi ancora di più.

  13. lipperina sinceramente. qualsiasi gamer sa che le considerazioni di ammaniti sono vere. le abbiamo fatte tutti, ci siamo passati tutti. non c’è nulla da scoprire, come sostiene barbieri col suo solito malanimo.
    @georgia. ma riflettere un pochettino prima di parlare no eh?

  14. Lucis: lo so bene. Il punto era parlarne ai non gamer, secondo me. Non volevo scoprire, ma raccontare a chi non ha condiviso la stessa esperienza, tutto qui.
    Maestro: lei mi conforta su quanto vado sostenendo, devo dire.

  15. e ohps, dire videogiochi (in astratto, ndr)è come parlare di romanzi (in generale ndr) e dunque di categorie vuote,(chiaro no?) e ohps, precisazione.
    Sul tema dei maestri, ohps mi permetto di far seguire un testo editoriale scritto collettivamente e postato su NI due anni fa.Per dire che siamo totalmente (orizzontalmente) d’accordo, cara Elleelle
    effeffe

  16. Editoriale
    Tutte le riviste hanno numeri da mostrare a lettori, si spera, impazienti. C’è il numero del mago o della donna barbuta, c’è quello dei domatori e c’è quello del funambolo. Che in punta di piedi attraversa il baratro, e perdendo l’equilibrio, giunge all’altro capo della corda tesa. La gente, quasi inconsciamente, vorrebbe vederlo cadere, ma se riesce nel guado è proprio per onorare il pubblico.
    Il numero due (tre, con lo zero) di “Sud” è dedicato ai maestri. Perché la condizione esistenziale dominante dei nostri tempi si ritrova forse nel sentirsi orfani. A tratti sembra di vivere in un enorme brefotrofio. Di maestri in giro non se ne vedono: quelli che ci sono non stanno troppo bene (per parafrasare Groucho) o se ne sono andati via già da un bel pezzo. All’idea della morte di Dio è seguita, debitamente, la percezione della morte del maestro. L’abdicazione alla responsabilità, il rifiuto dello stesso concetto di influenza percepito come minaccia allo sviluppo della personalità – ma gli allievi della Scuola di Barbiana si vantavano di essere ‘influenzati’ dall’educatore – hanno mostrato la deriva di una società priva di maestri, producendo una generazione orfana di figli, costretta a chiudere le scuole per mancanza d’iscritti.
    In questi nostri tempi, statura morale (non meno di disciplina interiore, del resto), con quanto ne deriva, non è espressione politically correct. Eppure, nonostante tutto, in modi spesso poco appariscenti o simbolici, sembra proprio che ancora in molti si sentano orfani e vivano alla perenne ricerca di un punto di riferimento. E di ciò non si può fare una colpa a nessuno.
    Va altresì detto che nell’era dell’evanescenza di questa figura, molto del maestro sopravvive nel mastro. Dal punto di vista linguistico, Mastro è già qualcosa in meno di Maestro: sparisce una vocale, aumenta il peso dei ruvidi suoni consonantici, si torna verso quelle che, nelle lingue semitiche, sarebbero le ‘radici’ del termine. Per sottrazione, la figura del mastro custodisce ed esalta le qualità essenziali della relazione pedagogica, non ancora inquinate dagli orpelli dello status e dalla cristallizzazione di un ceto di ‘maestri’. E sarà il tempo a decidere se i mastri daranno vita alle maestranze, risorse attive nel progresso sociale, o a mostri destinati alla solitudine del vaniloquio.
    Il mastro è colui che si fa portatore di un sapere essenzialmente pratico da trasmettere per apprendistato, a volte per iniziazione: il «miglior fabbro» di dantesca memoria o la più dimessa figura di Geppetto, che si appassiona alla materia manipolata fino a riconoscerne l’autonomia e il diritto alla vita. Non la gamba di un tavolo, ma un burattino da amare come un figlio. Ancora loro…
    Il sapere del mastro comporta una trasmissione in verticale che si costituisce in quanto tecnica, maestria, mestiere. Ma è solo il possesso e l’esercizio del mestiere che autorizza la sua trasmissione, non l’aristocrazia del ruolo o la gelosa salvaguardia dei suoi emblemi. È la trasmissione delle competenze, prendere il tempo di spiegare senza spazientirsi: è precisione, lavoro fatto ad arte.
    Nella bottega dell’artigiano, foss’anche Michelangelo (che tuttavia amava definirsi un semplice ‘dipintore’), la gerarchia tra mastro e apprendista si dissolve di fronte al compito da eseguire che riconosce un solo valore: quello dell’abilità, del tocco, della maestria che a volte può rivelarsi anche nel colpo di martello fortunato o geniale del garzone.
    Il lato positivo è la cura, la passione del mestiere, che si travasa nell’oggetto d’artigianato e che rende proficua la comunicazione tra il mastro e l’iniziato, in quanto colui che impara per imitazione porterà all’oggetto uguale o – auspicabilmente – superiore intensità qualitativa. Insomma, il mastro e l’apprendista entrano in comunicazione in quanto individui complessi attraverso l’oggetto che entrambi contribuiscono a forgiare. L’eredità che l’apprendista ha in dono è in questo senso ineguagliabile: l’autorevolezza del mastro elude ogni pericolo di integralismo dell’autorità. Come dice Muñoz nel suo racconto, è l’autorevolezza del maestro, e non la sua autorità, che fa la differenza. Il pericolo è quello di dimenticare che l’educazione non si svolge solo al livello cognitivo, ma prevede anche (sempre) il coinvolgimento delle sfere emotive e affettive dei due partecipanti alla dialettica educativa. Il rischio che questa struttura di potere implica va ricondotto, in definitiva, al medesimo, più generale, che lo sviluppo ipertrofico della tecnica ha comportato per la cultura occidentale: nel fare vengono sublimate le correnti di potere che scorrono tra il soggetto portatore di sapere e l’iniziato, ma la sublimazione resta pur sempre un meccanismo di difesa.
    Il nostro modo di vedere il lavoro di rivista prova nel concreto a farsi laboratorio di un modo diverso di vivere la vacanza del ‘soggetto supposto sapere’. All’incirca, potremmo invocare la pur asettica espressione di ‘magistero orizzontale’: ciascuno si pone all’ascolto dell’altro con la medesima dedizione che si porta a un maestro, con lo stesso senso critico che si richiede al proprio discepolo per non abusare del potere che si incarna. Ecco: vorremmo che il secondo numero di “Sud” si interrogasse su questo mistero: è questa un’epoca di fine dei maestri? Se sì, è vero che questa assenza si tramuta in una cattiva rimozione (il mostruoso dei buoni maestri) che nasconde, in definitiva, la frustrazione del desiderio? Ci chiediamo se sia possibile, dunque, correggere le aspettative e cercare un maestro secolare nel compagno di strada, con cui costruire un rapporto continuamente sottoposto a verifica ma finalmente libero, paritario. Come faremmo con uno di noi, insomma.

  17. guarda lipperini te lo dico con molta sincerità. io qui non ne avrei parlato e nemmeno su repubblica. è il tuo lavoro e, credo, si basa molto sulla autorevolezza. rischi grosso a combattere pregiudizi e stereotipi. Però, per quel che vale, hai la mia ammirazione.

  18. Torniamo un po’ alla divulgazione orizzontale dei saperi, vediamo quali effetti può avere sulla società reale. E’ un tema che va nella direzione della direttiva Bolkenstein, in fondo, no? Abbattiamo i privilegi corporativi e lasciamo fare al libero mercato. Mettiamola terra terra per cominciare a ragionare: fareste fare il chirurgo, oggi, a chi ha imparato sul web o su wikipedia? E l’ingegnere a chi studia sugli appunti presi male da qualche zuccone in studenti.it? E il chimico farmaceutico a chi non ha mai preso una provetta in mano ma conosce a menadito la tavola degli elementi per averla vista su chimica.it? Senza parlare del fatto che certe materie (specie le scientifiche di base) necessitano del rapporto verticale “io-che-so ti-spiego-con-esempi finché non-sono-sicuro che hai capito anche tu e solo-allora ti faccio passare gli esami e tu vai a lavorare nel ramo. Voglio dire: più che orizzontalità dei saperi, si dovrebbe parlare di libero accesso all’opinionismo, che coinvolge tutte quelle materie “aperte”, “sociali”, “non sperimentali” nelle quali ognuno, col suo senso comune, può mettere bocca. A dirla ancora meglio: coinvolge tutte quelle materie “attaccabili” senza che sia necessario (o almeno così viene percepito: ma chiedete a un filologo se è davvero così…) aver dimostrato di aver realmente appreso i concetti elementari di teoria e prassi. In questo senso, l’orizzontalità diviene cicaleccio scomposto e ignorante, e qualcuno (più vecchio) che ha studiato e imparato sul serio giustamente si scandalizza. Il guaio è quando dai turbamenti del critico anziano si passa agli interessi comunitari concreti: diritto alla salute, alla sicurezza, per dire i primi e più importanti. Ho poi l’impressione che tale orizzontalità sia naturale liddove esiste impunità: se io, ingegnere, faccio esplodere un reattore, vado in galera (dovrei andarci, almeno); se un orizzontalista-del-sapere cazzeggia di teoria dei fluidi (come per dire di qualsiasi altra panzana/neologismo ad effetto) e fa per passare per coglioneria la verità sperimentale della teoria, viene acclamato come eroe da altri orizzontalisti come lui. Ebbene, io resto con i vecchi: a chi vuole avere una posizione sociale di “creatore di opinioni” chiedo ancora il curriculum vitae et studiorum e gli faccio fare seri esami, web o non web. Nota: sul web il materiale serio si trova. Dubito però che l’orizzontalismo del sapere sia un invito a studiarselo.

  19. L’appendimento verticale sarà destinato a collassare quando cadranno gerarchie (spesso) inutili. I flussi orizzontali di scambio sono il miracolo del web (sta a noi contribuire che tale livello non sia terra terra affinché senza bisogno di educatori dall’alto sia possibile intendere la differenza fra Kafka e una videocassetta). Purtroppo c’è ancora chi sogna di avere e/o di fare il maestro…

  20. In brutale sintesi:
    siamo assuefatti da un mondo preconfezionato dove molti (leggi troppi) chiedono risposte certe e, appunto, preconfezionate.
    I “maestri” cui tendo a prestare maggior ascolto sono invece quelli che pongono domande. E le domande, per dirla alla Myrdal, sono espressione del nostro interesse per le cose del mondo, sono in essenza delle valutazioni.
    Insomma: dei numerosi distributori automatici di risposte (“autorevoli” o meno poco mi importa) personalmente non so davvero cosa farmene.

  21. Che ci sia… “qualcuno che non ritenga il proprio pensiero come una verità intangibile: e dunque sia disposto a confrontarsi.”
    Sante parole. Raramente applicate nella vita, E ahimè anche sui blog.
    🙂

  22. Una volta ho partecipato ad una conferenza stampa di presentazione di uno dei films di Mel Brooks dove fior di giornalisti anteponevano alla propria domanda seriose premesse più o meno colte. Quando anch’io RIUSCII A PRENDERE LA PAROLA domandai: (maestro) cos’è per lei l’umorismo? In quel momento ebbi la netta sensazione che la maggior parte dei presenti provarono una certa vergogna per la mia domanda dato che un brusìo anonimo mi diede conferma della generale disapprovazione. Il buon (maestro) Mel Brooks allora nel ringraziarmi per la domanda mi diede la risposta. Che io non vi dirò perché mi siete cordialmente antipatici. Voi sapete a chi alludo.

  23. Non vorrei continuare con delle citazioni ma a volte può servire per chiarire dubbi, incomprensioni. Sempre nello stesso numero consacrato alla causa dei maestri Jean Claude Michea, filosofo francese si interrogava sui tempi duri delle scuole e cominciava il suo articolo dicendo: Si delegittimano gli insegnanti in maniera apparentemente libertaria chiamando genitori e alunni a denunciare tutte le forme di autorità del “Maestro”. Ora, la parola “maestro” ha due sensi molto diversi. In latino, “dominus” designa colui che esercita un dominio o un’oppressione e “magister” colui che possiede un’autorità conferitagli da un sapere.
    In questo senso, Bakunin, che era un anarchico, poteva scrivere: “In materia di scarpe riconosco l’autorità del calzolaio”.
    effeffe

  24. Caro effeeffe, ma in questo modo non distingui un Mel Brook da un Kurosawa. O, se preferisci Tomb Rider dalla Kabbala. Proprio perchè delegittimi chi DEVE avere l’autorità per dire che Kurosawa è arte e Brook no.

  25. Ci sono dei livelli del discorso in cui bisogna fidarsi (e affidarsi)della (alla) common decency. Bisognerebbe anche interrogarsi di nuovo sulla differenza tra cultura popolare e cultura di massa.Non confondere insomma Vittorio de Sica con Banfi, per essere più chiaro. Mel Brook e Kurosawa li trovi in case di persone rispettabilissime, insieme, senza un ordine preciso, uno sopra, uno sotto. Perchè il comico dovrebbe essere meno qualcosa? effeffe

  26. Farò un intervento, ma non risponderò a nessuno, perchè non sopporto più l’alone di livore e ignoranza che avvolge il medium ludico elettronico.
    Potete pure ignorare la lezione cruciale di McLuhan, per cui il videogioco, al pari di ogni altro medium ”crea un ambiente. Un ambiente è un processo, non un dato di fatto. È un’azione che modifica il nostro sistema nervoso e le nostre capacità percettive, alterandoli completamente”.
    Considerare il videogioco come puro ludus elettronico equivarrebbe ad affermare che è l’unico media moderno non in grado di veicolare massaggi e contenuti.
    Chi crede che esistano solo i videogame normalmente acquistabili, se vogliamo a caro prezzo quindi capitalisti, si trincera dietro una cazzata di dimensioni apocalittiche e dovrebbe giocare a “Under Ash” o “Special Force” prodotto dal un Hezbollah libanese (questi alcuni esempi, la lista è infinita).
    Chi attacca il mezzo sta conducendo, pur inconsapevolmente, una partita culturale molto pericolosa. Questo la America Army lo sa bene, perché se da una parte i senatori repubblicani conducono una battaglia accorata contro il nuovo satana, dall’altra foraggiano lo sviluppo di giochi mirati. E guardate che mirano bene, perchè veicolare ideologie nella così detta “sottocultura” non è impresa facile.

  27. Sostanzialmente concordo con Alessandra ma il refuso (se lo è) ‘massaggi’ per ‘messaggi’ è più probabilmente lapsus. E il problema è proprio qua, spesso i messaggi sono ‘massaggi’ e questo comunica poco. Ma ostinarsi a demonizzare i videogiochi è stupido: fanno parte della nostra realtà e bisogna farci i conti, con intelligenza e curiosità, se possibile. EffeEffe ha ragione, ci sono videogiochi e videogiochi, e poi ci sono giochi di ruolo e giochi sociali giochi erotici e giochi economici giochi politici e giochi linguistici. Che solitamente definiamo poesia. E allora cosa c’è che non va in un videogioco? In ogni caso, se c’è qualcosa che non va è nei videogiocatori, o finiremo per credere che è davvero l’eroina che uccide tanti esseri umani, o l’alcol, o gli psicofarmaci, e non il dolore, la solitudine, la rabbia.
    Il diavolo non esiste, nemmeno in forma di videogioco
    Lello

  28. @ Magister
    E’ esattamente quello che dico anch’io. Cultura popolare, à mon sense, è proprio riconoscere alla tradizione e alla comunità quel tipo di soglia, politica, culturale, economica,perfino estetica che non si dovrebbe mai abbassare,ai livelli in cui ci ha gettati la cultura di massa. Come fermare la caduta? Come tessere la rete? Mi conforta una piccola utopia,l’idea di appartenere ad una comunità in cui tutti possano avere accesso a tutto e in primis all’altrui autorevolezza e competenza, senza barriere di tipo economico (proprietà intellettuale, copy left)o ideologico (identità di terra o di partito). Una sorta di Linux, per dirla informaticamente, o di peer to peer, per scaricare gli MP3.
    @ AC
    Un videogame la cui scrittura si svolgesse in tempo reale, cioè aperto ad ogni tipo di intervento, senza password, insomma internet.
    effeffe

  29. il diavolo esiste eccome però ha ragione voce, il diavolo non sono le cose e i mezzi, ma siamo noi e l’uso che ne facciamo, il mio concetto di democrazia è ad esempio molto diverso da quello che esporta bush, però … il diavolo non è la demcrazia ma semmai bush e i neocon;-).
    Avete visto l’ultima perla?
    Il presidente del paese che mitizza la libertà di stampa (e di televisione) voleva bombardare al-jazeera e non la sede in Iraq, con cui gli usa sono in guerra (in nme della democrazia) ma la sede principale nel Qatar (uno degli alleati più forti degli Usa) il tutto ha dell’incredibile, altro che videogiochi;-)

  30. non so effeffe cosa sia la cultura popolare e la cultura di massa.
    secondo me la cultura popolare viene scelta, selezionata e preferita dalle popolazioni stesse, mentre la cultura di massa viene imposta dall’alto.
    Amare una cultura popolare non credo sia livellarsi verso il basso è un po’ come nella cucina, alla storia sono passate le ricette “popolari” (e non quelle che facevano venire la gotta all’aristocrazia) insomma adorare la pizza, gli spaghetti, la polenta, il cuscus non vuol dire livellarsi verso il basso anche se amare anche la maionese importata da una medici in francia non è poi un delitto, anzi ;-).
    Insomma per me Dante è popolare come un bel libro giallo;-)

  31. LIPPERINI
    Georgia, non c’è differenza, se ci pensi bene: quel che ti rimane della pratica ludica non è semplicemente l’episodio della porta parlante in “Branchie” 🙂
    GEORGIA
    Beh c’è la grande differenza che corre tra uno scritore e un non scrittore.
    Qualsiasi cosa faccia o osservi uno scrittore diventa poi brani di un libro.
    In branchie ci sono pezzi meravigliosi sulle fogne ma insomma dire che ammaniti cerchi ispirazione nelle fogne mi sembrerebbe errato ;-).
    E poi perchè una esperienza diventi “universale” non necessita certo che tutti l’accettino, vuol solo dire che non appartiene più allo scrittore che se ne è fatto solo tramite.
    Se non fosse così alcuni scritti non durerebbero centinaia di anni e più;-)

  32. Qualche tempo fa ero insieme ad alcuni amici che avevo invitato a seguirmi da Parigi a Napoli per il capodanno. Eravamo in terrazza (quartiere popolare)e guardavamo con una certa curiosità quello che stava per accadere. Non so se qualcuno di voi conosce la cosa. Verso mezzanotte ogni bem di dio brillava da ogni balcone, finestra terrazza. Vista da fuori sembrava di assistere a un tutto di cui tutti facevano parte. Bachtin avrebbe definito la cosa come polifonica. Maurizio Lazzarato,che era con me citava Bachtin, a proposito. Il 14 luglio a place de la Bastille e in ogni piazza francese le autorità organizzano i fuochi. A Napoli assistevamo a qualcosa di popolare, a una moltitudine, a Parigi invece era una massa, peraltro ammantata di tristezza e della promessa di non ritornarci più. Lo steso vale per le Techno parade, le gay pride, les nuites blanches, halloween (à suivre) effeffe
    ps
    @ Georgia. un libro illuminante per me è stato quello di Christopher Lasch, Culture de masse ou culture populaire? E se progressismo oggi(come ieri) significasse assecondamento della logica di mercato?
    ppss
    Ma perchè La divina Commedia non è un giallo?

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