Domani è sabato e anche questo blog rispetta il silenzio elettorale, ammesso che si rispetti ancora (ma qui si è di altri tempi, come è noto). Dunque posto gli ultimi due articoli scritti per L’Espresso, rispettivamente sul programma di Unione Popolare e su quello del PD. Ora. L’articolo su Unione Popolare è stato duramente contestato al momento dell’uscita (a volte in termini irricevibili, con l’accusa di far parte, in ordine sparso, di un complotto, del sistema, della volontà di oscuramento, di aver scritto sotto dettatura in quanto non conoscevo il testo, di volermi riciclare come commentatrice politica): il motivo è il dubbio da me espresso sulla fattibilità di tutto quanto contenuto nel programma, che, come potrà notare chi legge, è semmai quello verso il quale sono stata meno critica. Accade, in una campagna elettorale strana, confusa, feroce e disperata insieme.
In conclusione, vi chiederete forse perché ho fatto le pulci a tutti i programmi: da scrittrice, non da commentatrice politica. Perché credo nelle parole e nelle cose e nei fatti, ma se quei fatti non discendono da parole pensate e proiettate nel futuro, forse non diverranno mai azione.
Vi chiederete, suppongo, anche per chi voterò. Ebbene, so solo che voterò. Mi prendo ancora queste ore per pensare e decidere. Leggere i programmi è servito anche a questo. A lunedì, sperando in bene.
UNIONE POPOLARE
Ricordate Picnic at Hanging Rock? E’ un bellissimo, inquietante romanzo scritto da Joan Lindsay nel 1967, poi film di Peter Weir nel 1975, e più recentemente serie televisiva. La storia, che per un po’ è passata per vera, è quella di un gruppo di studentesse del collegio australiano di Appleyard, che il giorno di San Valentino del 1900 va in gita fino al gruppo roccioso della Hanging Rock. Tre di loro, Miranda, Irma e Marion, più la professoressa di matematica Greta McCraw, si allontanano e scompaiono. Irma riapparirà, ma priva di memoria. Delle altre non si saprà più nulla.
A rievocare questa vicenda è uno studioso, scrittore e filosofo che va nominato nel raccontare il programma elettorale di Unione Popolare: si tratta di Mark Fisher, autore fra l’altro del famoso Realismo capitalista ma anche di un testo meno noto ma importante come The weird and the eerie (grossomodo, lo strano, il fuori posto). Ecco, Fisher dice delle due ragazze scomparse che sono in grado di compiere il passaggio e di saltare nell’ignoto, mentre Irma, che torna indietro, non riesce a liberarsi dalla pesantezza del già noto e del quotidiano.
La metafora sembra perfetta per le dichiarazioni di intenti di Unione Popolare: perché una volta letto attentamente il programma spunta sulle labbra l’antica interiezione romanesca: che je voi dì?
C’è tutto quel che si può sognare e di certo c’è il salto nell’ignoto. Cito: “è l’unico programma pacifista e contro le guerre, per la fratellanza universale, la giustizia sociale, economica ed ambientale, contro corruzioni e mafie”. Ed è solo l’inizio. Perché le 120 proposte elencano tutto il desiderabile: salario minimo legale di almeno 10 euro lordi e riduzione dell’orario di lavoro, ritorno al contratto a tempo indeterminato e abolizione del Jobs Acts, assunzione di 10.000 ispettori del lavoro, eliminazione dell’IVA su prodotti di prima necessità e ripristino della scala mobile. Altro che eerie, altro che sognante: alloggi pubblici, aumento del reddito di cittadinanza e delle pensioni, sostegno alle aree interne. Si legge e si sogna, cullati dalle parole di una scrittrice come Sandra Newman, autrice del bellissimo I cieli, che non molto tempo fa mise in guardia dall’abuso di distopie: “non c’è nulla di vergognoso, infantile e irrealistico nel volere un mondo migliore. Dobbiamo lasciarci alle spalle la superstizione che ogni tentativo di risolvere i nostri problemi finisca nella distopia di Orwell. La storia ci insegna che le buone intenzioni non sono un segno di fallimento: dobbiamo permetterci di ragionare in termini utopistici, e di agire pragmaticamente per farli diventare realtà”.
E dunque ragioniamo. Spesa pubblica nella sanità che non scenda sotto la media europea, cure dentistiche a prezzi economici o gratuite, rafforzamento dei centri antiviolenza, estensione del congedo di paternità, consultori gratuiti e laici, applicazione della 194, approvazione dello ius soli e della cittadinanza ai figli degli immigrati, abrogazione della Bossi Fini.
Però a un certo punto ci si fanno un paio di domande: perché nei fatti il programma, ripreso in gran parte da quello del francese Mélenchon e da Sinistra Europea, prevede l’autonomia dell’Italia, sia dall’Unione europea (“superamento delle politiche di bilancio stabilite dall’accordo di Maastricht e dal semestre europeo”) che dalla Nato. E qui ci si chiede: si può fare sul serio? Bisogna essere utopistici, questo è vero: ma fino a che punto? E, soprattutto, con quali coperture?
Sorge il sospetto che nel programma sia finito tutto quello che ci si può mettere per immaginare un mondo diverso, ma senza vincolo di fattibilità: un po’ il contrario politico dell’OuLiPo e della sua letteratura potenziale, che invece poneva vincoli proprio per stimolare gli scrittori. O quasi tutto. Perché per esempio nella parte che riguarda la scuola (dove finalmente si parla di eliminazione delle classi pollaio e di stabilizzazione del personale precario), magari si poteva accogliere la molto più strutturata proposta di legge di iniziativa popolare “Per la scuola della Costituzione” (LIP), firmata da oltre 100.000 cittadini, che ha soggiornato in parlamento tra il 2006 e il 2017 senza uscire dalla commissione istruzione per essere discussa in aula. E allora ci si chiede: perché non affidarsi a un progetto saldo per farne un altro? Perché pensare di poter fare tutto da soli?
Ancora. So perfettamente che la cultura sembra faccenda marginale. E non lo è: come ha ricordato a fine agosto Nicola Lagioia su La Stampa, non solo “offre un’identità a un popolo che con fatica ne trova una nello Stato, è uno dei (non inesauribili) motivi per cui ci rispettano all’estero”, ma “rappresenta un formidabile strumento di emancipazione per chi vi ha accesso, non da ultimo genera ricchezza economica e lavoro.” Vale per i libri, in particolare, laddove il mercato editoriale “genera in Italia oltre tre miliardi di fatturato”. Nell’elenco delle meraviglie la cultura è trattata in modo sbrigativo: si dice, certo, che gli investimenti devono raggiungere “almeno l’1% del Pil”: ma non è un grande obiettivo. Secondo l’ultima elaborazione openpolis su dati Eurostat, il paese che spende di più, l’Ungheria (!) investe l’1,3. L’Italia è al quartultimo posto con lo 0,3% , davanti a Irlanda, Grecia e Cipro. Inoltre: benissimo il vincolo sul cambio di destinazione d’uso di tutti i luoghi della cultura (sale cinematografiche, teatrali, biblioteche, librerie, musei). Ma non è, se paragonato al resto, un po’ poco?
E, soprattutto, se la narrazione dev’essere nuova e potente e ribaltare quella preesistente, ancora una volta non vale la pena insistere sulla teorizzazione del progetto insieme alla sua attuabilità? Perché alla fine, chiuso il documento, resta quella perplessità che Jonathan Swift conferisce al suo Lemuel Gulliver quando arriva nell’isola degli Houyhnhnms (non provate a pronunciarlo, è impossibile): i cavalli pacifici e un po’ snob che non hanno termini linguistici per quel che deprecano. Ma a forza di scarnificare le parole, quanto riescono a essere efficaci le utopie?
PD
I pilastri della terra è un romanzone di Ken Follett, pubblicato nel 1989, che si apre con un’impiccagione e si chiude con re Enrico II che entra nella cattedrale di Canterbury in ginocchio, confessando di aver istigato l’assassinio dell’arcivescovo Thomas Becket. Quando Thomas Stearn Eliot scrive Assassinio nella cattedrale, fa dire a uno dei cavalieri omicidi che, insomma, la colpa era però dell’arcivescovo: “Usò ogni sorta di provocazione; dalla sua condotta, passo per passo, non si può concludere se non che: aveva deciso di morire martire”.
L’analogia con il programma elettorale del Pd è fin troppo facile: primo, perché al centro del programma medesimo ci sono i pilastri. Niente cattedrali gotiche, ma tre punti: sviluppo sostenibile e transizione ecologica e digitale, lavoro, conoscenza e giustizia sociale, diritti e cittadinanza. Secondo, perché, come si vedrà, non proprio una vocazione al martirio ma una chiusura in difesa è più che evidente.
A favore: questo è un programma scritto come andrebbero scritti i programmi, ovvero con una visione ampia e un approccio concreto ai punti che si intende realizzare.
A sfavore, sempre restando sul piano generale, c’è l’elefante. Se ricordate, l’inizio di questa serie di articoli richiamava George Lakoff e il suo pamphlet sull’importanza di non pensare all’elefante, ovvero di non far proprio il frame dell’antagonista, ma di crearne uno nuovo. Ecco, qui c’è non un solo elefante, ma l’intero corteo degli elefanti rosa di Dumbo (quelli che hanno terrorizzato varie generazioni di bambini con la canzoncina “Son qua… son qua… i rosa elefanti siam”). Nella lunga premessa, infatti, si evoca continuamente la destra, rimarcando l’importanza di “offrire agli Italiani e alle Italiane un progetto limpidamente alternativo a quello di una destra che ha riconfermato tutta la sua inaffidabilità “. E ancora: “un governo di queste destre rappresenterebbe un pericolo per l’Italia”, “la destra italiana rappresenta una concreta minaccia per l’economia, la coesione sociale, l’ambiente. La destra italiana propone una visione oscurantista e isolazionista del Paese. La destra italiana diffonde paura, avversione, odio”. D’accordo, non hanno letto Lakoff. Se ne era avuta un’avvisaglia in una delle immagini diffuse all’inizio della campagna elettorale, raffigurante un pensoso Salvini e alcune delle sue, diciamo, promesse: “faremo centomila espulsioni all’anno” “mi dia due settimane al ministero dell’Interno e ne espello cento al giorno.”. Ecco, se pensate che gli sia stata contestata l’idea dell’espulsione sbagliate di grosso: la scritta (del Pd) era “Un anno con Salvini ministro: 7289 rimpatri, 19,96 al giorno”. E subito sotto” Destra italiana: solo propaganda, zero soluzioni”. In pratica, gli è stato rimproverato di aver espulso troppo poco.
Già che ci siamo, andiamo a vedere cosa si dice nel programma sui migranti: come forse immaginate, non appare il nome di Minniti. Sì, c’è l’Agenzia di Coordinamento delle politiche migratorie, l’abolizione della Bossi-Fini, l’allargamento dei corridoi umanitari. Ma non si parla del Memorandum Italia-Libia, degli accordi con la Guardia Costiera di Tripoli, e ci si dimentica anche qualcosa: quando nel programma si scrive: “Siamo stati, siamo e saremo sempre contro politiche di respingimenti, apparenti “chiusure dei nostri porti” o, addirittura, non meglio precisati “blocchi navali”: vale il sacrosanto principio per cui chi è in pericolo in mare va soccorso e salvato sempre”, forse sfugge dalla memoria che quel sempre andrebbe preceduto da un quasi: per esempio, Anna Ascani, vicesegretaria Pd e poi viceministro all’istruzione, il 20 gennaio 2019 dichiarava: “Non mi vergogno di quanto ha fatto Minniti perché c’era un problema di accessi non regolati nel Mediterraneo mentre ci preoccupavamo solo dei superstiti “. Vale la pena di ricordare che il 14 novembre 2017 l’Alto commissario Onu per i diritti umani Zeid Raad Al Hussein aveva definito disumano e vergognoso il memorandum (per il resto, continuare a chiedere a Papa Francesco).
Però nel programma ci sono tante sagge proposte. C’è molto spazio alla cultura, al piano nazionale per la lettura, alle periferie. E, a proposito, si parla della “scuola come motore del paese”. Benissimo. Però verrebbe sommessamente da ricordare che per 8 degli ultimi 9 anni il Pd poteva ben occuparsi di scuola avendo di fatto avuto quattro ministri dell’istruzione: Maria Chiara Carrozza, Stefania Giannini, Valeria Fedeli, Patrizio Bianchi. Passi. Inoltre, a ben spulciare, si nota che la Buona Scuola di fatto non viene toccata: restano i pieni poteri del Dirigente Scolastico, per esempio, né vengono eliminati i guasti di Moratti e Gelmini, e dunque resta il maestro unico alla primaria, dopo la cassazione dei tre maestri operata da Gelmini. In compenso, non si parla del taglio di 10.000 posti di lavoro nei prossimi anni (DM 150/22 del 29 giugno, il cosiddetto Decreto PNRR2) né della creazione del “docente esperto” (DL 115/22 del 9 agosto), né dell’attribuzione dei fondi per la lotta alla dispersione col criterio delle classifiche INVALSI (DM 170/22 del 24 giugno) che privilegia i licei classici, esclude i Centri Provinciali per l’istruzione degli Adulti, e privilegia la scuola secondaria rispetto alla primaria, e neppure della sperimentazione del liceo di 4 anni. Ma forse, appunto, è perché qui ci sono le parole, ma certe disattenzioni, diciamo così, trapelano ancora.
E dunque? Alla fine della storia, e dei programmi, non c’è che il voto di domenica prossima. L’analisi fatta in queste settimane è un appello ad astenersi? No, in nessun modo. C’è, invece, l’invito a riflettere, e provare a trovare una possibilità in quello che viene offerto. Sapendo, magari, che la società che sogniamo dobbiamo costruircela tutti e tutte, e non solo trovarla scritta in un programma. Abbiamo cominciato con Eliot, con Eliot chiudiamo: da un’altra opera, Il canto d’amore di Alfred Prufrock, questo l’invito, questo il primo gesto:
Allora andiamo, tu ed io,
Quando la sera si stende contro il cielo
La vita è – tutto sommato e molto sottratto – assai breve; meglio assecondare delle utopie che precipitare nelle usuali distopie.
Alf