Nel 1985 Pietro Citati lesse la classifica dei libri più venduti e scrisse che vi dominava “una purea di viscidi sentimenti, falso sublime, pensieri confusi”. Di qui, l’esortazione di Citati medesimo: italiani, non leggete più, fate fallire gli editori. Fra i suoi bersagli, Il nome della rosa di Umberto Eco, all’epoca ancora in classifica nonostante la “assoluta assenza di ogni talento letterario” (cit. Citati).
Citati tornerà sul punto molti anni dopo, nel 2012, sempre sul Corriere della Sera, sostenendo che la colpa fosse non solo degli editori ma dei lettori:
“Credo che i lettori italiani siano peggiorati negli ultimi trenta- quarant’anni. Non c’è da meravigliarsi. La generazione letteraria del 1910-1924, che pubblicava i propri libri attorno al 1960-1970, è stata la più ricca e feconda apparsa da secoli nella letteratura italiana. I lettori ereditavano le qualità degli scrittori. Erano lettori avventurosi e impavidi, che non temevano difficoltà di contenuto e di stile, fantasie, enigmi, allusioni, culture complicate e remote”.
Ovviamente non fu la prima né l’ultima occasione in cui si disse che la letteratura era morta, e che anzi era morto il romanzo (Franco Cordelli lo ha ripetuto pochi giorni fa). Ci sta: esiste una consolidata convinzione secondo la quale quel che ha fortuna presso lettrici e lettori è di per sé caratterizzato da “assoluta assenza di ogni talento letterario”.
Rispondendo a Citati, Paolo Mauri ricordò all’epoca una plaquette, Del successo in libreria, una lettera che l’ editore Bernard Grasset scrisse nel 1951 a Andrè Gillon, raccontando ciò che fece, nel primo dopoguerra, per dare una svolta al mercato del libro. Ovvero, creare il caso:
“Quando Grasset si trovò tra le mani Le diable au corps di Radiguet non pronunciò affatto la frase che poi la tradizione gli attribuì e cioè: “Ha del genio”, ma disse: “Ha sedici anni”. Sull’ età dell’ autore (vera, falsa?), sulla possibilità di scrivere un romanzo a quell’ età etc. si creò il “caso”. Grasset (e non lui solo) aveva scoperto la necessità di rendere “spettacolare” il libro. Dietro ogni best-seller c’ è una storia di questo genere: Pasternak era lo scrittore oppresso dalla censura sovietica, Tomasi di Lampedusa il nobile in via di estinzione”.
Nulla di nuovo, dunque. Quel che si va invece affermando con frequenza interessante è l’attribuzione della decadenza e caduta alle scrittrici. Mi si rimprovera spesso perché segnalo quel che viene scritto in materia: lo trovo non solo legittimo, ma importante (esattamente come la rassegna stampa che Michela Murgia non ha mai smesso di fare e che è ancora visibile sul suo profilo Instagram). Buon ultimo, come ho scritto ieri su Facebook, l’articolo di Antonio Gurrado sul Foglio, che ancora una volta prende spunto dall’incoronazione de L’amica geniale di Elena Ferrante da parte del New York Times, faccenda che ha evidentemente provocato gastriti nella gran parte del mondo letterario italiano. Vi risparmio la parte più sgradevole e mi concentro su questo passaggio:
“Nell’ultima classifica GfK dei libri più venduti, le donne occupano tutto il podio della narrativa (Donatella Di Pietrantonio, Francesca Giannone e Milena Palminteri) e altre cinque posizioni sulle prime dieci. Ferme restando le ovvie differenze di qualità fra romanzi stupendi e altri illeggibili – e tralasciando il dato che confondere verità e intrattenimento induca un pubblico largamente femminile a prediligere firme femminili – credo che questo monopolio dipenda da una politica semplificata di commercio editoriale”.
Confondere verità e intrattenimento è affermazione su cui ragionare. Intanto, perché andrebbe chiarito cos’è la verità e soprattutto la verità in un romanzo. I romanzi dicono la verità? Davvero? Ricordate queste parole:
“Don Giuseppe pianamente gli spiegava che il lavoro dello storico è tutto un imbroglio, un’impostura: e che c’era più merito ad inventarla, la storia, che a trascriverla da vecchie carte, da antiche lapidi, da antichi sepolcri; e in ogni caso ci voleva più lavoro, ad inventarla: e dunque, onestamente, la loro fatica meritava più ingente compenso che quella di uno storico vero e proprio, di uno storiografo che godeva di qualifica, di stipendio, di prebende. «Tutta un’impostura. La storia non esiste. Forse che esistono le generazioni di foglie che sono andate via da quell’albero, un autunno appresso all’altro? Esiste l’albero, esistono le sue foglie nuove: poi anche queste foglie se ne andranno; e a un certo punto se ne andrà anche l’albero: in fumo, in cenere. La storia delle foglie, la storia dell’albero. Fesserie!»”
E’ l’impostura dell’abate Vella raccontata da Leonardo Sciascia nel più bello dei suoi romanzi, Il consiglio d’Egitto. Anche se noi pensiamo di trovare la verità nella letteratura, veniamo ingannati. La letteratura non racconta mai la verità: la ricrea semmai a seconda del punto di vista di chi scrive, e anche quando chi scrive pretende di raccontare la propria vita, e giura al lettore che quella è un’autofiction, mente, perché racconterà solo quel che vuole raccontare. Mente come mentono gli illusionisti.
E a proposito di illusionisti. Nel 2013 Mariano Tomatis, illusionista e studioso di illusionismo e letteratura e attivista e molte altre cose, pubblica un lungo articolo sul vecchio numero del segare le donne a metà. Dove dice fra l’altro:
“Sono gli anni del Grand Guignol, il teatro che mette in scena violenze e torture sempre più audaci. Nato a Parigi, tocca il suo apice a Londra negli anni Venti. Ed è qui che nel 1921 Percy Selbit (1881–1938) presenta per la prima volta una delle performance più scioccanti di tutti i tempi. L’illusionista immobilizza una donna, legandola con delle corde. La chiude in una bara, che sega in due da parte a parte. Quando la cassa è riaperta, la donna ne esce incolume
La “donna tagliata in due” consolida, anche nel nome, lo stereotipo sessista, e ispira centinaia di trucide varianti. Ma perché nessuno confonda i ruoli, sui cataloghi per i prestigiatori la vittima designata è sempre e chiaramente una donna.
Siamo all’inizio del XX secolo. Lo stereotipo fotografa una società patriarcale, dove il suffragio femminile è stato appena concesso. In quegli anni le sostenitrici del voto alle donne vengono trattate come pericolose terroriste. Come provocazione, Selbit offre 20 sterline alla loro leader Sylvia Pankhurst perché si faccia tagliare in due.
La donna rifiuta sdegnata, ma i giornali non perdono l’occasione per fare dell’ironia:
“Che occasione sarebbe per Selbit poter dire di aver segato in due la formidabile Sylvia, non una ma molte volte!”
Per Selbit e il suo pubblico, segare in due una donna è un messaggio politico. Infierire su di lei significa tenere a bada una figura che pretenderebbe gli stessi diritti di un uomo.”
Mi dispiace davvero scriverlo, ma temo che chi attribuisce alle scrittrici il malessere profondo in cui versa il mondo dei libri mantenga dentro di sé lo stesso atteggiamento di Selbit: “tenere a bada una donna che pretende gli stessi diritti di un uomo”. E anche lo stesso posto non solo nella classifica dei libri più venduti, ma nell’autorevolezza a cui ai libri che la meritano occorrerebbe guardare.
Bellissimo articolo! Ricco di spunti. Come sempre, grazie!
rifletto e ricamo.
la letteratura rifugge, per sua essenza, dal vaglio dei 3 setacci di Socrate (verità, utilità e gentilezza) da applicare all’umano parlare: può essere falsa, futile e scortese. Per questo ci è indispensabile.
Grazie Loredana. Fa male leggere questa riflessione, ma è necessario oggi più che mai.
Sempre un piacere leggerti! Mi sa che noi maschietti, certo non tutti ma forse parecchi, da piccoli ci appassioniamo a schioppetti e soldatini e poi, pur crescendo, assurdamente manteniamo lo stesso approccio… considerandolo però degno della massima considerazione. Neanche fossimo Presidenti del Senato! (oops) Buone vacanze
Mi sembra molto adatto l’incipit de LA MANO SINISTRA DELLE TENEBRE della LeGuin: ” Farò il mio rapporto come se narrassi una storia, perchè mi è stato insegnato sul mio mondo natale, quand’ero bambino, che la Verità è una questione di immaginazione”