L’edizione della Buchmesse di Francoforte, quella con l’Italia paese ospite, quella che doveva portarci prestigio e diritti venduti, si è chiusa. Maluccio, nonostante gli squilli di tromba e le dichiarazioni di Mauro Mazza sull’ottima riuscita. Ah, Mauro Mazza. Nell’intervista rilasciata a Raffaella De Santis su Repubblica si decide finalmente a dire qual era il motivo dell’esclusione di Saviano, com’è noto non presente nella famosa lista proposta dagli editori (che a scorrerla tutta include nomi che lasciano un po’ frastornati, ma pazienza):
«Quella lista non l’ho composta io. Sono nomi proposti dagli editori all’Associazione italiana editori».
Risulta però siano stati aggiunti autori fuori dalla lista.
«Ho proposto io Antonio Franchini, Giuseppe Culicchia, Giuseppe Conte».
Saviano però no.
«Si può pretendere dal commissario Mazza, nominato dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, di battersi per inserire uno scrittore che l’ha definita “bastarda”? Mi si chiede troppo. Non ho fatto quella battaglia, non l’ho voluta fare. Perché avrei dovuto?».
Inoltre. A mia memoria fin qui nessun direttore della Buchmesse era stato maltrattato. Mazza, invece, gli tira le orecchie:
«La verità è che Juergen Boos sapeva già da prima che Saviano sarebbe comunque venuto a Francoforte ma ha fatto il furbettino, ha fatto finta di non saperlo per poi fare il bravo e correre in soccorso. Mi sarebbe piaciuto vederlo al nostro padiglione Boos in questi giorni, non ha trovato per noi neanche un minuto».
Pare che Mazza abbia piagnucolato con lo stesso Boos perché non aveva visitato il Padiglione Italia. Ma ci si chiede perché avrebbe dovuto. Qualche giorno fa Nicola Lagioia ha postato un video dal Padiglione medesimo dove una signora cantava, accompagnata da una chitarra, Tu vuo’ fa’ l’americano, invitando il pubblico a battere le mani a tempo. Su Repubblica, Paolo Rumiz racconta di aver sentito intonare dallo stesso Padiglione ‘O sole mio mentre provava a raccontare, insieme a Mauro Covacich, la comune radice mitteleuropea.
“Non era solo un inconveniente. Era percepibile ovunque nello spazio centrale offerto al mio Paese, ospite d’onore della rassegna, una rappresentazione tendenzialmente da cartolina, un’ambientazione sonora che lasciava poco spazio alla forza della parola nuda. Il tutto con la preoccupazione di riempire gli intervalli tra gli incontri con mandolinate o musiche vagamente sedative, stile sala d’aspetto di un dentista o comunque tali da evitare, con motivi nazional-popolari, eccessivi acuti intellettualistici nei conferenzieri”.
Del resto Mauro Mazza lo rivendica all’Ansa:
“La rappresentazione che ho cercato di dare grazie all’architetto Boeri è quella della cultura alta della nostra storia che incontra la tradizione popolare. La musica che intervallava con eleganza tra un dibattito e l’altro con le musiche di Morricone e quelle di Battisti era un filo conduttore che legava alto e basso. Questo è stato apprezzatissimo”.
Dunque, da quanto si legge nei racconti di chi c’era, e non nelle cronache ufficiali, non è affatto andata come si sperava, né dal punto di vista dell’immagine, né dal punto di vista dei diritti. Ancora Nicola Lagioia, da Facebook:
“Ma cos’è successo all’interno del Padiglione? Gli incontri con gli autori (cioè quelli organizzati di concerto con gli editori) hanno restituito un’immagine piuttosto vitale della vita culturale del paese. Quelli voluti dalle istituzioni governative (la stessa cornice, oltre che i contenuti) hanno spesso restituito l’immagine di un paese in cui Dante Alighieri inforna la pizza mentre suona il mandolino e Leopardi trova a Napoli l’ottimismo cosmico. Il sospetto: con altri esecutivi sarebbe andata tanto meglio?”
E incalza Rumiz:
“Ma c’era anche, in quel contesto politico ormai annacquato, dove la realtà e il profumo della patria erano semplicemente assenti, l’ombra di Berlusconi, che davvero sembrava frequentare ancora quelle sale col suo chitarrista Apicella. Era come se fosse lì, più presente del ministro Giuli, a sedurre le tedesche e intrattenere i tedeschi amanti del sole. Era quella l’Italia che vedevo. C’era un’identità in infradito, costruita da abili influencer, dove il sogno era rimpiazzato dall’acquisto e l’intervallo musicale tra gli incontri depotenziava i messaggi come la pubblicità in tv. C’era l’invito a pensare di meno, a lasciarsi andare all’intrattenimento.”
E’ una questione di competenza di chi ha lavorato (male, malissimo, anche prima di Mazza) a uno degli appuntamenti più importanti per la nostra editoria e la nostra cultura? Sì, anche. Ma secondo me entra in ballo anche il concetto stesso di cultura secondo questo governo: perché fin qui, dai tempi del non compianto Sangiuliano, hanno parlato spesso e volentieri di “egemonia culturale” della sinistra senza tirar fuori uno straccio di progetto. Cosa sia l’editoria italiana, cosa si muova nei libri italiani, forse non lo sanno neanche (ma forse non lo sapevano neanche prima). E non danno alla cultura e alla letteratura in particolare il ruolo che si prende anche suo malgrado: raccontare il mondo, raccontare il sentimento del tempo, anche. Certo, volendolo fare. Come scrive Rumiz:
“A Francoforte ho percepito un’Europa travolta dalla sua irrilevanza, schiacciata tra due ipocrisie. Quella di sinistra che finge di non sapere che eludere il problema identitario porta al disastro e suscita vecchi fantasmi. Quella di destra che crede, o finge di credere, che l’economia possa funzionare in assenza di immigrati. «Nulla, e tanto meno la politica, può fermare il fiume in piena della scrittura», ho sentito dire ad Alessandro Baricco. Mi auguro che sia così. Ma a Francoforte non c’era un fiume. C’era una palude. Non si percepiva la capacità della cultura di sbattere le nazioni di fronte alla realtà. Esasperato dai troppi silenzi un ascoltatore austriaco mi ha detto: «Le parole a che servono, se non sono pugni nello stomaco?». Aveva ragione.”
In sostanza: chi ha organizzato e pensato la nostra presenza alla Fiera ha immaginato un invito ad amare l’Italia perché è il paese dove fioriscono i limoni eccetera. I limoni fioriscono pure, tra un diluvio e l’altro: ma c’è molto altro da raccontare. Ancora una volta, volendolo fare. Peccato.