Partiamo da qui. Soprattutto da tre anni a questa parte, ci sentiamo soli, siamo spaventati, e siamo ingannati, per lo più da noi stessi. Usiamo la parola “amico” o “amica” come se tutti coloro con cui interloquiamo sui social lo fossero davvero: non dico che non accada, ma l’amicizia presuppone conoscenza, frequentazione fisica, aiuto reciproco, condivisione di gioie e dolori. E’ diverso da scambiarsi idee su Facebook o su Instagram.
Dunque, ci illudiamo di essere meno soli perché frequentiamo virtualmente molte persone. “Crederanno di muoversi e staranno fermi”, come scriveva Ray Bradbury in Fahrenheit 451. Non è così. Quelle persone, se stiamo male e lo comunichiamo, naturalmente ci manderanno messaggi di incoraggiamento. Ma saranno pochi quelli che verranno a casa tua con un pacchetto di dolci o un fascio di margherite o semplicemente con la voglia di ascoltarti.
Non è un bene, non è un male: è un fatto.
Ma sulle basi di questo fatto ecco che il confine tra reale e vituale è ormai sottilissimo, se non inesistente: se io sono tuo “amico” ho il “diritto” di sapere tutto di te.
Questo, secondo me, è un male, e provo a spiegare perché.
Ieri sera si è scatenato un putiferio su Facebook perché avevo scritto che no, non esiste alcun diritto di sapere quale fosse la malattia che ha condotto a morte Andrea Purgatori. Il quale, per inciso, non era mio amico: o meglio, non ho il diritto di chiamarlo così, perché pur avendolo conosciuto nella famosa vita reale, e pur avendolo ammirato, e pur avendo presentato generosamente un mio romanzo e contribuito a un mio podcast, non era un amico. Nel senso che non mi avrebbe chiamata per dirmi come stava e non lo avrei chiamato per dirgli come stavo io. Questo dovrebbe ridimensionare un poco, mi auguro, il senso della parola amicizia.
Ho scritto questo prima che la famiglia, che aveva e ha mantenuto il riserbo sulla malattia, desse mandato di indagare su eventuali diagnosi sbagliate. E comunque non ha detto altro, non ha parlato della malattia stessa e ha scelto, come è suo diritto, di procedere per le vie legali e non per quelle della comunicazione al grande pubblico. Perchè è un suo dolore, una sua ferita, e ancora una volta un suo diritto.
Si chiama scegliere. Anche se si è un personaggio noto, si può condividere o no la propria malattia. Ho già scritto di quanto ammiri la scelta di Michela Murgia di raccontare il suo cancro e di usare le sue parole prima che altri le usino per lei. Ma è una scelta sua, e non bisognerebbe mai dimenticare che ne esistono altre, perché siamo tutti diversi, e nonostante cronache giornalistiche e libri ci spingano a voler rendere pubblico ogni istante delle nostre vite, facendosi così simili ai social, non è detto che tutti siano obbligati a farlo. Perché ci sono momenti sacri (rubo la definizione a Simona Vinci, che l’ha usata ieri in quella delirante discussione su Facebook) su cui nessuno al mondo può sindacare se non i diretti interessati o coloro che li amavano. Nessuno.
Ribadisco che questo discorso non ha niente a che fare col tabù di usare la parola cancro (che appartiene a un altro piano) e tantomeno con l’inchiesta che la famiglia ha chiesto di aprire: la malattia e la morte non sono uno spettacolo.
In un libro di straziante bellezza, Tutti i bambini tranne uno, Philippe Forest compie un atto di impudicizia e di amore: racconta il cancro e la morte della figlia bambina, Non riuscirà a raccontare altro, nei libri successivi, e lo fa consapevole, come leggerete, di essere parte di uno “spettacolo raro”: la morte, e la morte di una bimba di pochi anni.
“La morte di un bambino è uno spettacolo raro. Riempite la sala. Fate il tutto esaurito. Si spintonano in platea, si spintonano in galleria. Dietro le quinte, il direttore di scena batte i tre colpi. Il sipario si alza, stupore. Non credete ai vostri occhi. In un batter d’occhio, la commedia è diventata tragedia. (…) Però non siete nella tragedia. Siete nella vita, e sono gli altri che chiamano la vostra vita: tragedia. Il disastro che vivete è al di là delle parole. Non se ne può dire niente. Non si scompone in atti, in scene”.
Forest è consapevole del ruolo che si assumeva durante la malattia di Pauline e di quello che si assume mentre racconta la sua morte. Questa consapevolezza e questa autocritica, anche, è quella che può fare la differenza. Ed è rara.
Siamo stati abituati per anni al dolore altrui esibito in televisione. Ora ci abituiamo al dolore narrato sui nostri social, spesso con ottime intenzioni e persino con ottimi risultati. C’è un mio contatto, che non nominerò, che postava con frequenza piccoli video sulla madre malata di Alzheimer. Chi è caregiver come lui si riconosce, si commuove, partecipa, lo sostiene. Lo comprendo. Resta in me un neanche sottinteso orrore verso l’esibizione di quel volto innocente e inconsapevole, esposto alla visione degli altri. E anche se quei video sono importanti per chi è nella stessa situazione, non riesco a non rabbrividire. Certo, dalla mia posizione di privilegio, io che ho perduto una madre lucidissima a dispetto dei suoi 91 anni.
C’è una morale in tutto questo? Non lo so, e non era mia intenzione trarne una. Vorrei che ci fosse rispetto nei confronti delle scelte degli altri. Anche se tutti abbiamo bisogno di raccontare il nostro lutto o la nostra paura o la nostra malattia. Ma non tutti decidiamo di farlo.
Come scrive, ancora, Forest:
“La maggior parte degli umani pensa che esista nel mondo una quantità limitata di fortuna. Di qui l’espressione di contentezza che passa sul loro volto quando vedono un morente. Credono che il morente, con la sua disgrazia, liberi così la parte di fortuna che gli era riservata e che questa possa reintegrare il totale a disposizione dei vivi”.
Provare a dire questo non significa fare la morale. Anche se davanti a certe reazioni scomposte lette ieri sera viene voglia.
Quella che dice che sapere se Purgatori è morto di cancro ai polmoni aiuterebbe a smettere di fumare (giuro).
Quella che dice che il giornalismo è questo (col cavolo: il giornalismo è scrivere del missile di Ustica, non chiedere di cosa è morta una persona).
Quello che dice che la causa sono i vaccini (e magari le reazioni avverse, che ci sono, andrebbero ben indagate, ma mai e poi mai usate).
Quelli che, per farla corta, riversano le proprie paure e le proprie ferite sul dolore altrui, mentre magari sarebbe importante guardarle in faccia, queste paure che ci paralizzano, e provare a capire cosa possiamo fare.
So perfettamente che non torneremo in epoca pre-social, quando era ancora possibile tenere per sè alcune parti della propria vita o della propria morte: e, no, dire che un personaggio pubblico deve aspettarselo è una fesseria epocale. Ci si può aspettare la curiosità, ma non l’avidità di sapere tutto, minuto per minuto.
Fa male, in primis, ai vivi. A noi, se non fosse chiaro. Perché stiamo perdendo drammaticamente il contatto con le parti più importanti di noi. Quelle sacre, appunto.