IL PRIMATO DELLE TRAME

Dal momento che domani parto per Stoccolma, dove insieme a Lorella Zanardo e Adriana Ripandelli parteciperò a un incontro, presso l’Istituto italiano di cultura, su donne, media e comunicazione, vi lascio un regalo per i prossimi giorni di quasi assenza dalla rete. E’ un vecchio testo di Borges (i giornali italiani lo ripresero nel 1985) che forse può contruibire alle ritornanti discussioni sul realismo, possibile o impossibile che sia. Buona lettura e buon tutto.
Nel secondo secolo della nostra èra, Luciano di Samosata compose una Storia veridica che comprende, fra altre meraviglie, una descrizione dei Seleniti, i quali, a dire del veridico storiografo, filano e cardano i metalli e il vetro, si tolgono e si rimettono gli occhi, bevono succo d’ aria o aria spremuta; agli inizi del secolo XVI, Ludovico Ariosto immaginò che un paladino scopre sulla Luna tutto ciò che si perde sulla Terra, le lagrime e i sospiri degli amanti, il tempo sprecato nel gioco, i progetti inutili e i non saziati aneliti; nel secolo XVII, Keplero redasse un Somnium Astronomicum che finge essere la trascrizione di un libro letto durante un sogno, le cui pagine prolissamente svelano la conformazione e i costumi dei serpenti della Luna, che durante gli ardori del giorno si riparano in profonde caverne uscendone al calar della sera. Fra il primo e il secondo di cotesti viaggi immaginari trascorrono mille e trecento anni, e fra il secondo e il terzo, un centinaio; i due primi sono peraltro invenzioni libere e irresponsabili e il terzo risulta quasi intorpidito da una preoccupazione di verosimiglianza. La ragione è chiara. Per Luciano e per l’ Ariosto un viaggio alla Luna era simbolo o archetipo dell’ impossibile, come i cigni di piumaggio nero per il latino; per Keplero invece, come per noi, era già una possibilità.
Non pubblicò forse in quell’ epoca John Wilkins, inventore di una lingua universale, la sua Scoperta di un Mondo sulla Luna, discorso tendente a dimostrare che può esserci un altro mondo abitabile, con un’ appendice intitolata Discorso sulla possibilità di una traversata? Nelle Notti attiche di Aulo Gellio si legge che Archita il pitagorico fabbricò una colomba di legno che volava per aria; Wilkins predice che un veicolo di meccanismo analogo o simile ci condurrà un giorno o l’ altro sulla Luna. Per il suo carattere di anticipazione di un avvenire possibile o probabile, il Somnium Astronomicum prefigura, s’ io non m’ inganno, il nuovo genere narrativo che gli americani del Nord denominano science-fiction o scientifiction, ammirevole esempio del quale sono queste Cronache marziane. Il loro tema è la conquista e colonizzazione del pianeta. Quest’ ardua impresa degli uomini futuri sembra destinata all’ epoca, ma Ray Bradbury ha preferito (senza proporselo, forse, e per occulta ispirazione del suo genio) un tono elegiaco. I marziani, che agli inizi del libro sono spaventosi, meritano la sua pietà quando li raggiunge l’ annientamento. Vincono gli uomini e l’ autore non si rallegra della loro vittoria. Annuncia con tristezza e con disinganno la futura espansione del genere umano sul pianeta rosso – che la sua profezia ci rappresenta come un deserto di vaga arena azzurra, con rovine di città costruite a scacchiera e tramonti gialli e antiche navi per muoversi sulla sabbia…
Col rischio di commettere un anacronismo, delitto non previsto dal codice penale, ma condannato dal calcolo di probabilità e dall’ uso, trascriviamo ora una voce della Enciclopedia Sudamericana che verrà pubblicata a Santiago del Cile nel 2074. Abbiamo omesso qualche paragrafo che poteva risultare offensivo e usato un’ ortografia antiquata, che non sempre soddisfa le esigenze del lettore moderno. Il testo così dice: Borges, Josè Francisco Isidoro Luis: Autore e autodidatta, nato nella città di Buenos Aires, a quei tempi capitale dell’ Argentina, nel 1899. Si ignora la data della sua morte, poichè i giornali, genere letterario dell’ epoca, scomparvero durante i magni conflitti che gli storici locali ora compendiano. Suo padre fu professore di psicologia… Trovava diletto nei racconti, caratteristica che ci ricorda la sentenza di Poe, There is no such thing as a long poem, ribadito dall’ uso della poesia fatto da alcune nazioni orientali. Per quanto riguarda la metafisica, ci basta ricordare una certa Chiave di Baruch Spinoza, 1975. Insegnò come cattedratico nelle università di Buenos Aires, del Texas e di Harvard, senz’ altro titolo ufficiale se non un vago baccellierato ginevrino sul quale la critica continua a indagare. Fu dottore honoris causa a Cuyo e a Oxford. Una tradizione vuole che agli esami egli non ponesse mai alcuna domanda, ma che esortasse gli allievi a scegliere e trattare un aspetto qualsiasi del tema. Non chiedeva date, adducendo che lui stesso le ignorava. Abominava la bibliografia, che allontana lo studente dalle fonti. Era soddisfatto di appartenere alla borghesia, testimoniata dal suo cognome. La plebe e l’ aristocrazia, devote del denaro, del gioco, degli sport, del nazionalismo, del successo e della pubblicità, gli sembravano quasi identiche. Verso il 1960 si iscrisse al Partito Conservatore, perchè (diceva) “è senza dubbio l’ unico che non può far nascere fanatismi”. La rinomanza di cui Borges godette in vita, documentata da un cumulo di monografie e di polemiche, non cessa di stupirci ancora adesso. Ci risulta che il primo a stupirsene fu lui e che sempre temette di venir denunciato come impostore o bugiardo, o come una mescolanza di entrambi. Non bisogna dimenticare, in primo luogo, che gli anni di Borges coincisero con una decadenza del paese. Egli era di stirpe militare e sentì la nostalgia per il destino epico dei suoi antenati. Riteneva che il coraggio fosse una delle poche virtù di cui gli uomini sono capaci, ma il suo culto lo portò, come tanti altri, alla venerazione avventata degli uomini della malavita. Perciò il più letto dei suoi racconti fu Uomo della casa rosa, il cui narratore è un assassino… Escludendo Las fuerzas extraas (1906) di Lugones, la prosa narrativa argentina solitamente non andava oltre la comparsa, la satira o la cronaca di costume; Borges, tutelato dalle sue letture settentrionali, la elevò al fantastico. Groussac e Reyes gli insegnarono a semplificare il vocabolario, a quel tempo appesantito da sorprendenti brutture: complessato, aggressività, alienazione, ricerca, presa di coscienza, conduzione, congiunturale, generazionale, di gruppo, negoziato, promozionarsi, ricezionare, sentirsi motivato, sentirsi realizzato, situazionismo, verticalità, il vissuto… Le accademie che avrebbero potuto sconsigliare l’ uso di simili stravaganze, non ne ebbero il coraggio. Coloro che accondiscesero a quel gergo esaltavano pubblicamente lo stile di Borges. Sentì mai Borges il contrasto intimo della sua sorte? Sospettiamo di sì. Negò il libero arbitrio e gli piaceva ripetere questa massima di Carlyle: “La storia universale è un testo che siamo costretti a leggere e a scrivere incessantemente e nel quale anche noi siamo scritti”.
Stevenson, verso il 1882, osservò che i lettori inglesi non dimostravano molta simpatia per le peripezie, giudicando prova di maggior abilità un romanzo privo di argomento, o con argomento infinitesimale. Josè Ortega y Gasset – La disumanizzazione dell’ arte, 1925, – tenta di razionalizzare l’ atteggiamento osservato da Stevenson e statuisce a pagina 96 che “è molto difficile che si possa inventare oggi un’ avventura capace di interessare la nostra sensibilità superiore”; e a pagina 97 che codesta invenzione “èpraticamente impossibile”. In altre pagine, in quasi tutte le altre pagine, si pronuncia a favore del romanzo “psicologico” e opina che il piacere delle avventure è inesistente oppure puerile. Tale è senza dubbio il parere comune del 1882, del 1925 e anche del 1940. Alcuni scrittori (fra i quali mi compiaccio di annoverare Adolfo Bioy Casares) considerano ragionevole dissentire. Riassumerò qui i motivi di cotesto dissenso. Il primo (il cui aspetto di paradosso non intendo sottolineare nè attenuare) è l’ intrinseco rigore del romanzo di peripezie. Il romanzo caratteristico, “psicologico”, tende ad essere informe. I russi e i discepoli dei russi hanno dimostrato fino alla noia che nessun personaggio è impossibile: suicidi per allegria, assassini per benevolenza; persone che si adorano fino al punto di separarsi per sempre, delatori per fervore o per umiltà… Tale libertà totale finisce con equivalere al totale disordine. D’ altra parte il romanzo “psicologico” vuol essere anche romanzo “realista”: preferisce che dimentichiamo il suo carattere di artificio verbale e fa di ogni precisione (o di ogni languida vaghezza) un nuovo dato verosimile. Ci sono pagine, ci sono capitoli di Marcel Proust che, come invenzioni, risultano inaccettabili: ai quali senza saperlo ci rassegniamo come a quanto c’ è di insipido e di ozioso nella vita quotidiana. Il romanzo d’ avventure, invece, non si propone come una trascrizione della realtà: è un oggetto artificiale che non soffre alcuna parte ingiustificata. Il timore di incorrere nella mera varietà successiva dell’ Asino d’ oro, del Chisciotte o dei sette viaggi di Simbad gli impone un argomento rigoroso. Ho allegato un motivo di ordine intellettuale; altri ce ne sono di carattere empirico. Tutti tristemente mormorano che il nostro secolo non è capace di tessere trame interessanti; nessuno ha il coraggio di comprovare che se qualche primato ha questo secolo rispetto ai precedenti, tale primato è quello delle trame…

6 pensieri su “IL PRIMATO DELLE TRAME

  1. accidenti che densità per essere solo martedì mattina…
    evviva le trame dunque
    Nicoletta (della libreria Trame di Bologna… era impossibile non cogliere il gioco di parole…)

  2. Davvero molto interessante!!
    E divertente la voce enciclopedica (auto)biografica di Borges, il cui tono autoironico mi ricorda quello di Hesse ne “La cura”.
    Io preferisco le trame realistiche a quelle che contemplano avvenimenti del tutto impossibili, inverosimili. Certo, ogni tanto è bello immergersi in letture spumeggianti, ricche di fantasiosa immaginazione, di invenzioni contorte e surreali, come Ariosto e lo stesso Borges. Mi pare comunque che anche gli autori di testi fantastici o fantascientifici abbiano sempre cura di offrire agli occhi del lettore un mondo di finzione coeso, coerente, verosimile, consentendo quella “sospensione dell’incredulità” senza la quale non è neppure bello lasciarsi raccontare una storia.
    Non comprendo però perché il romanzo d’avventura non possa essere realistico e perché il romanzo psicologico debba necessariamente avere pretese di verosimiglianza. “Il conte di Montecristo” non è forse realistico, per quanto improbabile sia il concatenarsi delle vicende? E non si potrebbe scrivere una specie di “Recherche” in cui un venusiano, sbocconcellando l’equivalente marziano di una madeleine, si ricorda improvvisamente della sua infanzia trascorsa presso la famiglia affidataria su Marte? La differenza non sta nel concentrarsi su quanto accade all’esterno piuttosto che all’interno dell’animo dei personaggi?
    Non sono del tutto convinta che il Novecento abbia avuto il “primato” delle trame: mi pare che, anche con ambientazioni particolari e dotazioni tecnologiche particolari, inventando mondi dei più strani e scegliendo punti di vista dei più strani, escogitando matrioske meta-letterarie e interpretazioni psicanalitiche, alla fine le dinamiche essenziali tra i personaggi siano sempre le stesse, come è normale che sia. In ogni modo, bisogna riconoscere che concepire una trama originale è tanto più difficile quanto più passano gli anni, perché la storia della letteratura si fa sempre più vasta e il rischio del “già sentito” aumenta esponenzialmente…

  3. Che coincidenza, Loredana. Ho appena scritto un post sul realismo (anche se il mio è dedicato a Dostoevskij) ed ora, passando di qua, vedo che tu ne hai pubblicato uno. Mi sa che l’aria che tira è la stessa un po’ per tutti.
    Buon viaggio!

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