Raffaella De Santis e Dario Pappalardo firmano questa inchiesta per Repubblica. Mi pare che possa fornire un contributo interessante anche a quanto si diceva ieri.
In Italia si pubblicano ogni giorno 160 libri, circa 60 mila all´anno, di questi 10 mila sono testi letterari alla prima edizione. Ognuno in media vende quattromila copie. Su decine di migliaia di autori, molto meno dell´un per cento vive della propria scrittura. Tra quelli che ci riescono, Andrea Camilleri, Gianrico Carofiglio e Andrea De Carlo, e non a caso in questi giorni figurano in cima alla classifica dei più venduti. Che con la letteratura non si mangi non è però una novità: Svevo, nonostante la stima di Joyce, era impiegato nell´azienda di vernici del suocero; l´ingegner Gadda lavorava in Rai; Bianciardi sbarcava il lunario con le sue traduzioni. E le cose da allora non sono cambiate.
Sono tre in sostanza le fasce in cui si possono dividere gli scrittori nel nostro Paese. La prima, quella degli “esordienti”, può aspirare, quando va bene, a un primo contratto con una grande casa editrice che si aggira tra i 5 mila e i 7 mila euro, con delle percentuali sui diritti che vanno dal 5% dei tascabili all´8%. Uno scrittore “medio”, invece, può contare su un anticipo che sfiora i 50 mila euro. Infine, c´è la ristretta “casta” formata da quelli che vendono oltre le 100 mila copie all´anno. Ed è chiaro che, in questo caso, la retribuzione aumenta: il prezzo corrisposto ancor prima della pubblicazione oscilla tra i 100 mila e i 400 mila euro. Ma qui vanno calcolati anche i guadagni ricavati dagli acquisti dei libri all´estero, di cui il 50% va all´editore e l´altro 50% allo scrittore. In Italia gli autori che possono permettersi di vivere di soli romanzi sono una decina al massimo. Quelli il cui solo nome li scaraventa direttamente nella top ten: come Niccolò Ammaniti e Sandro Veronesi.
Soltanto chi vende tra le 50 mila e le 100 mila copie – una percentuale minima – riesce a garantirsi un discreto tenore di vita. In Francia e nei paesi scandinavi, a soccorrere gli uomini di lettere ci sono sovvenzioni statali e borse di studio. Qui abbandonare il proprio mestiere rimane invece un lusso per pochi. E, per arrivare alla fine del mese, ognuno s´industria come può, tra lavori part time, scuole di scrittura e collaborazioni con giornali e case editrici. Altri rivendicano il diritto alla scrittura attraverso la Rete, dove sono nati collettivi come “Scrittori precari” e “Scrittori sommersi“.
Domenico Starnone, che è stato a lungo insegnante, oggi fa lo scrittore, ma non solo. È anche giornalista e autore di sceneggiature. Il motivo? Lo spiega lui stesso: «Di sola scrittura non si riesce a vivere». Anche quando si hanno all´attivo libri come Via Gemito (Feltrinelli), che nel 2001 ha vinto il premio Strega, o Ex Cattedra (Feltrinelli), ripubblicato in una nuova edizione ampliata. «Facendo una media tra i miei libri più venduti e quelli di minor impatto sul mercato, la cifra dell´anticipo per me si aggira tra i 50 e i 100 mila euro».
Nella rosa dei golden writer c´è Erri De Luca, che con il Peso della farfalla si è confermato uno degli italiani più venduti. «Ma per gli esordienti è diverso: non possono contare sulla scrittura per vivere», dice lo scrittore, che prima di scalare le classifiche ha fatto anche l´operaio: «Per arrivare a scrivere è meglio sporcarsi le mani. Solo così la scrittura può rimanere uno spazio libero, un tempo salvato al lavoro». De Luca però non dimentica i primi passi e il primo libro: «Per Non ora, non qui, uscito nel 1989, Feltrinelli mi pagò 1 milione e 800 mila lire, che equivalevano a due mesi e mezzo di lavoro in cantiere». Ma non sono certo cifre che bastano a dare sicurezza. In ogni caso, De Luca non è d´accordo sull´opportunità dei sussidi statali agli scrittori, come invece avviene in Francia: «L´assistenza economica trasforma lo scrittore in un burocrate. La scrittura è un atto di libertà, non un impiego che ha un fatturato».
Tra chi l´indipendenza l´ha conquistata con relativa facilità, c´è la vincitrice dell´ultimo Campiello (Accabadora, Einaudi). Michela Murgia, il successo di mercato lo raggiunge già con la prima prova narrativa Il mondo deve sapere. Il libro ambientato in un call center, che ha ispirato la sceneggiatura del film di Paolo Virzì Tutta la vita davanti, esce nel 2006 per le edizioni Isbn ed è un caso editoriale. «Chiaro che per farcela devi vendere a sufficienza», spiega la Murgia. «Io sono stata fortunata. Ho avuto successo già con il primo libro e questo mi ha permesso di mollare gli altri lavori. Uno scrittore che venda intorno alle 50 mila copie guadagna come un avvocato di provincia. Io ho già venduto 210 mila copie, dunque guadagno più di un avvocato di provincia». Prima di diventare scrittrice per mestiere la Murgia è stata operatrice fiscale, venditrice di multiproprietà e anche portiere di notte. «Quando ho esordito ho avuto un anticipo abbastanza consistente» – racconta – «ma adesso so che le cose sono cambiate. Gli esordienti sono pagati dalle piccole case editrici cifre irrisorie intorno ai 200-300 euro».
Ottocento euro al mese per il suo impiego part time al 50 per cento come agronomo al ministero delle Politiche agricole. Anticipi di 3500 – 5000 euro sui singoli libri, a seconda delle case editrici. Più collaborazioni con tre quotidiani, insegnamento ai corsi di scrittura, stesura di testi per il teatro. «In tutto 40 mila euro all´anno, se va bene. Ho comprato casa a Roma con un mutuo trentennale»: così Antonio Pascale (La città distratta, Einaudi; Questo è il paese che non amo, minimum fax) mette insieme il suo reddito annuale. «La maggioranza degli scrittori italiani non vive solo di scrittura. Il conto è presto fatto: 15 mila copie vendute, obiettivo che raggiungono in pochi, corrispondono a 15 mila euro di ricavi. Però non c´è solo il fattore vendite, ma anche un problema culturale: spesso gli scrittori non considerano il loro come un lavoro da retribuire. Sono i primi a non chiedere un compenso per le presentazioni. Io senza un gettone di presenza non vado da nessuna parte. Nel nostro paese non si crede più nel valore degli intellettuali come in Francia e Scandinavia».
C´è chi un mestiere non vuole proprio abbandonarlo. È il caso di Cristiano Cavina, che racconta la provincia emiliano-romagnola dove vive in romanzi come Nel paese di Tolintesàc (Marcos y Marcos), 30 mila copie vendute. «Se mi chiedono che lavoro faccio, dico il pizzaiolo», spiega. «Eppure con un libro ogni due anni riuscirei a vivere, soprattutto se accettassi anche altri lavori che rifiuto: articoli e sceneggiature. Per ogni titolo prendo un anticipo di 40 mila euro, poi ci sono gli incontri: ogni partecipazione mi viene pagata 300 euro, ma nelle scuole e nelle librerie degli amici vado gratis. Però non abbandonerei mai il mio posto al forno della pizzeria. Diventerei un pallone gonfiato. Per me è importante ricordarmi da dove vengo. Vivo ancora in affitto nell´appartamento delle case popolari dove sono nato. Gli aiuti agli scrittori? Non mi piacerebbe che lo Stato ci aiutasse. Lavorare davvero è più utile».
Una scelta completamente opposta è quella di Andrej Longo, autore di Dieci e Chi ha ucciso Sarah? (Adelphi), che non ha vissuto sempre di scrittura: è stato bagnino, cameriere, pizzaiolo. «Da due anni posso permettermi di non lavorare, tranne scrivere, ma quello è un divertimento non un lavoro. Sarei contrario comunque a finanziamenti statali agli autori. In Italia è difficile immaginare una commissione esente da interessi e lobby varie che si occupi di questo».
Antonio Pennacchi, vincitore con Canale Mussolini dell´ultima edizione del premio Strega, non dimentica comunque il proprio passato da operaio. «Sono uscito nel ´99 dalla fabbrica, 50 anni di fabbrica. Fabbrica di cavi elettrici e telefonici di Latina. I primi libri li leggevo la notte ai miei compagni di lavoro». E chiude la questione a modo suo. «Comunque non è una vergogna avere successo e fare i soldi. L´importante è raccontare alla gente storie vere».
Con me non attacca, Gabriella. Se ti facessi l’elenco dei lavori che ho fatto nella vita ti verrebbero i capelli bianchi. Non è di me che sto parlando, non sono alla ricerca di qualcuno che mi paghi l’affitto. E neppure penso di passare alla storia di alcunché. Quello che cerco di dire (vedi l’esempio di Barbara) è che un paese che non investe nella cultura è un paese che si suicida. Quanti sono, oggi, quegli scrittori che potrebbero fare molto per la comunità e non possono impediti da una parte dall’indifferenza mercantile e dall’altra dalla pena inflitta da un sinistroido romanticume d’accatto che prevede umiliazioni, sangue e lacrime per essere autentici?
Gabriella non capisco. Ci saranno di certo persone desiderose di riconoscimento e che si sentono misconosciute, ma questi “soggetti” allignano in ogni lavoro. A quanto mi risulta Gadda ha esercitato molti mestieri – tutti legati al filo della scrittura: dalle collaborazioni alla radio (splendidi i suoi radiodrammi) fino al giornalismo. Ma quando apri un saggio – scusa se parlo di saggistica – di uno straniero noterai nei ringraziamenti una lunga lista di istituti “pinchi” e ” palli” che hanno sostenuto l’autore nella sua ricerca. Se apri un saggio di un italiano – pure bravissimo – in genere c’è scritto “alla mia famiglia”. Non è che i saggisti italiani siano bamboccioni e che preferiscono ringraziare la famiglia piuttosto che i datori di lavori altri, che gli hanno permesso di autofinanziarsi le ricerche.
So che posto con anni di ritardo, ma lo scrittore pizzaiolo che dichiara senza vergogna di prendere un anticipo di 40mila euro (o più di uno) e di restare in affitto in una casa popolare che dovrebbe essere un diritto di chi guadagna UN PO’ MENO… ne vogliamo parlare? E fa pure l’uomo di spessore “non vorrei che lo stato ci aiutasse”. Cosa pensi che sia una casa popolare, se non un aiuto? Lo Stato TI STA AIUTANDO, e NON DOVREBBE. Ma se uno può dire quello che vuole anche in un’inchiesta di Repubblica, e NON essere perseguito o almeno CONTROLLATO (metti che sono i giornalisti ad aver capito male)… che nazione è? Vi infervorate per quanto poco prende uno scrittore e non LEGGETE bene il resto?
Io umilmente credo che la case editrici dovrebbero rinnovarsi. Se vogliamo mantenere la qualità dei libri alta, troviamo un equilibrio tra self-publishing ed editoria tradizionale…