Raffaella De Santis e Dario Pappalardo firmano questa inchiesta per Repubblica. Mi pare che possa fornire un contributo interessante anche a quanto si diceva ieri.
In Italia si pubblicano ogni giorno 160 libri, circa 60 mila all´anno, di questi 10 mila sono testi letterari alla prima edizione. Ognuno in media vende quattromila copie. Su decine di migliaia di autori, molto meno dell´un per cento vive della propria scrittura. Tra quelli che ci riescono, Andrea Camilleri, Gianrico Carofiglio e Andrea De Carlo, e non a caso in questi giorni figurano in cima alla classifica dei più venduti. Che con la letteratura non si mangi non è però una novità: Svevo, nonostante la stima di Joyce, era impiegato nell´azienda di vernici del suocero; l´ingegner Gadda lavorava in Rai; Bianciardi sbarcava il lunario con le sue traduzioni. E le cose da allora non sono cambiate.
Sono tre in sostanza le fasce in cui si possono dividere gli scrittori nel nostro Paese. La prima, quella degli “esordienti”, può aspirare, quando va bene, a un primo contratto con una grande casa editrice che si aggira tra i 5 mila e i 7 mila euro, con delle percentuali sui diritti che vanno dal 5% dei tascabili all´8%. Uno scrittore “medio”, invece, può contare su un anticipo che sfiora i 50 mila euro. Infine, c´è la ristretta “casta” formata da quelli che vendono oltre le 100 mila copie all´anno. Ed è chiaro che, in questo caso, la retribuzione aumenta: il prezzo corrisposto ancor prima della pubblicazione oscilla tra i 100 mila e i 400 mila euro. Ma qui vanno calcolati anche i guadagni ricavati dagli acquisti dei libri all´estero, di cui il 50% va all´editore e l´altro 50% allo scrittore. In Italia gli autori che possono permettersi di vivere di soli romanzi sono una decina al massimo. Quelli il cui solo nome li scaraventa direttamente nella top ten: come Niccolò Ammaniti e Sandro Veronesi.
Soltanto chi vende tra le 50 mila e le 100 mila copie – una percentuale minima – riesce a garantirsi un discreto tenore di vita. In Francia e nei paesi scandinavi, a soccorrere gli uomini di lettere ci sono sovvenzioni statali e borse di studio. Qui abbandonare il proprio mestiere rimane invece un lusso per pochi. E, per arrivare alla fine del mese, ognuno s´industria come può, tra lavori part time, scuole di scrittura e collaborazioni con giornali e case editrici. Altri rivendicano il diritto alla scrittura attraverso la Rete, dove sono nati collettivi come “Scrittori precari” e “Scrittori sommersi“.
Domenico Starnone, che è stato a lungo insegnante, oggi fa lo scrittore, ma non solo. È anche giornalista e autore di sceneggiature. Il motivo? Lo spiega lui stesso: «Di sola scrittura non si riesce a vivere». Anche quando si hanno all´attivo libri come Via Gemito (Feltrinelli), che nel 2001 ha vinto il premio Strega, o Ex Cattedra (Feltrinelli), ripubblicato in una nuova edizione ampliata. «Facendo una media tra i miei libri più venduti e quelli di minor impatto sul mercato, la cifra dell´anticipo per me si aggira tra i 50 e i 100 mila euro».
Nella rosa dei golden writer c´è Erri De Luca, che con il Peso della farfalla si è confermato uno degli italiani più venduti. «Ma per gli esordienti è diverso: non possono contare sulla scrittura per vivere», dice lo scrittore, che prima di scalare le classifiche ha fatto anche l´operaio: «Per arrivare a scrivere è meglio sporcarsi le mani. Solo così la scrittura può rimanere uno spazio libero, un tempo salvato al lavoro». De Luca però non dimentica i primi passi e il primo libro: «Per Non ora, non qui, uscito nel 1989, Feltrinelli mi pagò 1 milione e 800 mila lire, che equivalevano a due mesi e mezzo di lavoro in cantiere». Ma non sono certo cifre che bastano a dare sicurezza. In ogni caso, De Luca non è d´accordo sull´opportunità dei sussidi statali agli scrittori, come invece avviene in Francia: «L´assistenza economica trasforma lo scrittore in un burocrate. La scrittura è un atto di libertà, non un impiego che ha un fatturato».
Tra chi l´indipendenza l´ha conquistata con relativa facilità, c´è la vincitrice dell´ultimo Campiello (Accabadora, Einaudi). Michela Murgia, il successo di mercato lo raggiunge già con la prima prova narrativa Il mondo deve sapere. Il libro ambientato in un call center, che ha ispirato la sceneggiatura del film di Paolo Virzì Tutta la vita davanti, esce nel 2006 per le edizioni Isbn ed è un caso editoriale. «Chiaro che per farcela devi vendere a sufficienza», spiega la Murgia. «Io sono stata fortunata. Ho avuto successo già con il primo libro e questo mi ha permesso di mollare gli altri lavori. Uno scrittore che venda intorno alle 50 mila copie guadagna come un avvocato di provincia. Io ho già venduto 210 mila copie, dunque guadagno più di un avvocato di provincia». Prima di diventare scrittrice per mestiere la Murgia è stata operatrice fiscale, venditrice di multiproprietà e anche portiere di notte. «Quando ho esordito ho avuto un anticipo abbastanza consistente» – racconta – «ma adesso so che le cose sono cambiate. Gli esordienti sono pagati dalle piccole case editrici cifre irrisorie intorno ai 200-300 euro».
Ottocento euro al mese per il suo impiego part time al 50 per cento come agronomo al ministero delle Politiche agricole. Anticipi di 3500 – 5000 euro sui singoli libri, a seconda delle case editrici. Più collaborazioni con tre quotidiani, insegnamento ai corsi di scrittura, stesura di testi per il teatro. «In tutto 40 mila euro all´anno, se va bene. Ho comprato casa a Roma con un mutuo trentennale»: così Antonio Pascale (La città distratta, Einaudi; Questo è il paese che non amo, minimum fax) mette insieme il suo reddito annuale. «La maggioranza degli scrittori italiani non vive solo di scrittura. Il conto è presto fatto: 15 mila copie vendute, obiettivo che raggiungono in pochi, corrispondono a 15 mila euro di ricavi. Però non c´è solo il fattore vendite, ma anche un problema culturale: spesso gli scrittori non considerano il loro come un lavoro da retribuire. Sono i primi a non chiedere un compenso per le presentazioni. Io senza un gettone di presenza non vado da nessuna parte. Nel nostro paese non si crede più nel valore degli intellettuali come in Francia e Scandinavia».
C´è chi un mestiere non vuole proprio abbandonarlo. È il caso di Cristiano Cavina, che racconta la provincia emiliano-romagnola dove vive in romanzi come Nel paese di Tolintesàc (Marcos y Marcos), 30 mila copie vendute. «Se mi chiedono che lavoro faccio, dico il pizzaiolo», spiega. «Eppure con un libro ogni due anni riuscirei a vivere, soprattutto se accettassi anche altri lavori che rifiuto: articoli e sceneggiature. Per ogni titolo prendo un anticipo di 40 mila euro, poi ci sono gli incontri: ogni partecipazione mi viene pagata 300 euro, ma nelle scuole e nelle librerie degli amici vado gratis. Però non abbandonerei mai il mio posto al forno della pizzeria. Diventerei un pallone gonfiato. Per me è importante ricordarmi da dove vengo. Vivo ancora in affitto nell´appartamento delle case popolari dove sono nato. Gli aiuti agli scrittori? Non mi piacerebbe che lo Stato ci aiutasse. Lavorare davvero è più utile».
Una scelta completamente opposta è quella di Andrej Longo, autore di Dieci e Chi ha ucciso Sarah? (Adelphi), che non ha vissuto sempre di scrittura: è stato bagnino, cameriere, pizzaiolo. «Da due anni posso permettermi di non lavorare, tranne scrivere, ma quello è un divertimento non un lavoro. Sarei contrario comunque a finanziamenti statali agli autori. In Italia è difficile immaginare una commissione esente da interessi e lobby varie che si occupi di questo».
Antonio Pennacchi, vincitore con Canale Mussolini dell´ultima edizione del premio Strega, non dimentica comunque il proprio passato da operaio. «Sono uscito nel ´99 dalla fabbrica, 50 anni di fabbrica. Fabbrica di cavi elettrici e telefonici di Latina. I primi libri li leggevo la notte ai miei compagni di lavoro». E chiude la questione a modo suo. «Comunque non è una vergogna avere successo e fare i soldi. L´importante è raccontare alla gente storie vere».
Sulla medie delle vendite, vi consiglio la lettura di questo pezzo di Seia Montanelli che uscì sul “Corriere nazionale”
http://seiamontanelli.diludovico.it/2008/11/30/ancora-sulleditoria-italiana/
E’ del 2008, ma da allora le cose non sono tanto cambiate.
Finanziamenti agli scrittori? Ci vorrebbe una finanziaria solo per questo, visto che gli scrittori in Italia sono più numerosi dei lettori.
Al contrario, dovrebbero inventare un sistema per catturare più lettori, magari con dei concorsi a premi. O una bella lotteria milionaria fra chi acquista un libro, che costerebbe allo Stato un decinìmo rispetto all’ipotesi di finanziare la scrittura! In questo modo, con più lettori anche gli scrittori sarebbero avvantaggiati, e non solo economicamente, non c’è dubbio!
Mi pare ci sia un eccesso di nervosismo.
A Giulia dico: scusa se non s’era capito che scherzavo con te (non ostante l’emoticon). Ma insisto 30.00 euro non sono la media aunnua del 95% deglis crittori italiani. Valerio ha ragione a dire che (tolti i grossi calibri) si guadagna decentemente. Ma chi lo guadagna. Non si contano su una mano, sono di più, ma nel novero dei pubblicati restano comunque una goccia nel mare.
E’ giusto, è sbagliato? Io dico solo che forse non dovremmo, per tutto, lasciare al mercato la risposta.
E NON STO PARLANDO DI ME. Mi tocca sottolinearlo altrimenti si scatenano i soliti maliziosi.
Io nella mia vita ho fatto i lavori più ignobili, mi sono sporcato le mani e il cervello, quindi sono più che consapevole che, in fondo, vivo decorosamente con la mia attività.
Ma autori di ottima fattura non vivono della loro scrittura. E spesso non scrivono, non leggono, non fanno ricerca, non si aggiornano, perché devono pagarsi l’affitto. Embe’, tutti lo devono fare, giusto? Sì, ma dato che io credo che una nazione deve stimolare i talenti, che siano scientifici o artistici, che male c’è a pensare, ad esempio, a istituire borse di studio a poeti o narratori (cercando di trovare il modo equlibrato nella erogazione, certo. Mica voglio che a Camilleri o Faletti diano una borsa di studio! O all’ultimo degli scalzacani amico del ministro di turno). Queste cose, in Europa (e non solo) si fanno, senza che la cosa faccia subito venire in mente gli inciuci, i magheggi e le consorterie.
Magari pensando a un premio nazionale, non so.
Insisto, non parlo per me, ma per molti autori di grande qualità ma che non hanno la fortuna di avere un pubblico di lettori alle spalle. Cazzi loro? No, non credo. Perché, poi, quegli autori sono spesso letti, digeriti, assorbiti, dagli stessi autori che poi vendono molto.
La ricerca non è ricerca del successo, ma di nuovi scenari, insisto.
Per chi lo vuole sapere, comunque, per il mio ultimo libro scritto con Michele Monina, abbiamo ricevuto 10.000 euro di anticipo. Da dividersi in due. E’ poco? E’ tanto? io so quanto lavoro c’è dietro, da quanto tempo (anni) ragiono sui temi poi esposti nel testo, conosco la fatica fisica e mentale prodotta. Nulla di che, ben inteso. Se nella vita hai pulito cessi o scaricato camion sai fare la tara. Però resta il fatto che è l’unico mio libro pubblicato nel 2010. E, ammettiamolo, con 5.000 euro di anticipo ci pago a malapena l’affitto di casa per qualche mese.
(perdonate la scrittura sciatta del commento qui sopra, ho scritto di getto)
Sì Stel, penso anch’io che qui le cifre siano sballate.
@Stel
Concordo con te. Ma vedi, il problema è ormai un classico. L’umanista medio farebbe bene a leggere invece di scrivere. Ma non romanzi, prego. Potrebbe addirittura imparare a usare le quattro operazioni senza farsi sbertucciare da statistiche idiote. Però poi il giochino finirebbe, il giornalista dovrebbe sudare di più per scrivere articoli consistenti, nel senso matematico del termine. Dovrebbe addirittura gettare a mare il sensazionalismo che persegue a suon di dati, perché per ora si limita a dare i numeri. E l’umanista medio ha bisogno di quei numeri, altrimenti come farebbe a imbastire le sue tirate senza una parvenza oggettivante? Che delirio.
@valerioevangelisti. sei comunque da considerare nella fascia dei bravi & fortunati (“Talent is nothing, except in fortunate circumstances”, ricordi?). vediamo il mio caso. 6 titoli pubblicati per editori per ragazzi negli anni 90. anticipi modestissimi, royalties pure. poi un litigio con la mia boss ed eccomi presto sbattuto fuori di brutto persino dai cataloghi (un po’ come anche da carmilla:-) ). non avessi fatto, in parallelo, anche il traduttore e l’insegnante, ora sarei alla fame. e tu stesso mi consideravi bravo.
Lo scrittore è un mestiere a rischio,chi lo vuol fare,sa già a cosa va incontro.Se è bravo e fortunato può campare della sua scrittura,altrimenti cambia mestiere o fa la fame,come tanti grandi hanno fatto, e che mai si son posti certi generi di problemi in questi termini.
Era più importante la loro opera di tutto il resto e non ragionavano come impiegati.
Miller ha scritto i Tropici negli anni trenta e ha dovuto aspettare molto prima di esser riconosciuto e così tanti altri.Nel frattempo vivacchiava,ma credo non gli importasse molto.
Se mi passate la battuta,si dovrebbe finanziare certa gente perchè smetta di scrivere.
Onestamente anche io resto del parere che pochi, pochissimi, possano permettersi di campare di scrittura (indipendentemente dal talento).
Io sono sempre stata dell’idea che il lavoro rende liberi quando non rende schiavi, e concordo con chi dice che la scrittura è un atto di libertà, ma davvero riusciamo a immaginarsci uno scrittore che si mette davanti al pc dal lunedì al venerdì dalle 8.15 alle 13.15 e dalle 14.30 alle 16.45? Poi il week end ovviamente riposo, i giorni festivi anche. Ma che scrittore sarebbe? Insomma, lo scrittore scrive quando, quanto e come vuole, è normale che non abbia una retribuzione ma che il suo guadagno sia frutto del mercato. Lo scrittore deve essere libero, come libero è (o dovrebbe essere) il mercato. In che modo una sovvenzione statale può aiutare uno scrittore? I sogni li hanno tutti, allora diamo sovvenzioni a tutti i calciatori della serie Z che non possono campare come quelli di serie A? A tutti i cantanti che fanno i piano bar anzichè i concerti a San Siro?
Sarebbe bello poter vivere del prorpio talento (sempre che ci sia davvero il talento), ma non sempre è possibile. Non mi aspetto di certo che lo Stato si faccia carico del talento non riconosicuto, questo è compito del mercato, e il mercato lo fa il pubblico.
Poi, l’emoticon di certo avrebbe dovuto indirizzarmi verso una battuta piuttosto che verso una critica da parte tua, ma credo siamo tutti un po’ suscettibili quando si parla di certi argomenti. Perciò chiedo scusa se non in questo senso non sono stata di larghe vedute.
@giulia
Pochi giorni fa ho visto Lindqvist a Cagliari, intervistato proprio da Loredana Lipperini. Prima di “sfondare” come scrittore, ha fatto diversi lavori. Ora scrive e basta. Scrive tutti i giorni, di mattina. L’ha detto lui stesso. Io credo che la scrittura sia un mestiere più che un’arte, e che vada coltivata con una pratica rigorosa, anche se può sembrare di ridurla a un lavoro d’ufficio.
Nel caso in questione, abbiamo avuto se non altro tre romanzi uno meglio dell’altro.
Mi commuove, e lo dico senza ironia, quest’idea romantica dello scrittore che preso da sacri furori verga di getto sulla pagina bianca le sue ossessioni.
Quelli che conosco io, viventi e morti da decenni (persino quelli più insospettabili e furibondi), si danno un regime monastico, scrivono con orari da impiegato, studiano, approfondiscono, vanno in biblioteca, in libreria, girano per le scuole a parlare del loro mestiere (non dei loro libri, ché nelle scuole NON si vendono libri, come è giusto), collaborano – nel nome della patria- a riviste, e spesso, ultimamente, contribuiscono al dibattito culturale in rete.
Fanno una vita che “d’artistico” ha ben poco. Lavorano di lima, giorno dopo giorno, pazienti, umili e un po’ fanatici.
(di straordinari scrittori del Novecento che lamentavano nel loro epistolario, la mancanza cronica di denaro, l’ignavia di una cultura nazionale spenta e l’invidia per i modelli europei, ne è piena la letteratura).
Credo si aquestione di punti di vista. Il fare tutti i giorni un’attività non è una condizione sufficiente a farne un mestiere. Ciò non toglie che qualcuno possa pensare alla scrittura come a un mestiere. Io non sono tra quelle persone.
@ biondillo. sempre ligio alla nuova retorica dello “scrittore = onesto artigiano” teorizzata dai wuming. peccato che, senza un minimo di ‘sacro fuoco’ (metafora per processi bio-chimico-cerebrali, ovviamente) difficilmente escano capolavori…
Non ho mai detto che il sacro fuoco non debba esistere. Ma che da solo non basta, e tu Lucio lo sai meglio di me.
Giulia, cosa c’è che non va nella parola “mestiere”? Sono alla fine i risultati a fare la differenza, non le pose d’artista. (che uno può avere come non avere). E neppure, però, le vendite, altrimenti si giustifica il turbocapitalismo avanzato e perciò la Parodi è la più grande scrittrice vivente.
@ giulia
D’accordo che ci sono vari modi di intendere la scrittura, e benissimo che tu non la veda come un mestiere 🙂
Parlando però di chi campa di scritture, non credo sia raro trovare un approccio di tipo “professionale” alla scrittura, fatto di orari, studio, continue limature, magari confronto. Sono convinto che questo tipo di atteggiamento non sia visto come una prigione da chi scrive.
Ma mi sa che parliamo di sfumature distinte.
Si, parliamo di sfumature distinte e nella parola mestiere non c’è nulla di male, io ce l’ho un mestiere e mica me ne vergogno. La stragrande maggioranza degli adulti ha un mestiere, e con quello porta (o cerca di portare) la pagnotta in tavola.
Però ritengo (ed è solo il mio parere) che l’obbligo (o il dovere o chiamatelo come vi pare) sottostante un mestiere sia diverso da quello di uno scrittore.
Poi ripeto, ognuno si approccia alla scrittura come gli pare, e non sarò io a gridare allo scandalo. In ogni caso, che sia un mestiere o no, non ritengo che sia lo Stato a dover pagare gli scrittori che non riescono a portare a casa la pagnotta con la loro scrittura, tutto qui.
Vivere del proprio lavoro, sobriamente e con felicità. Dovrebbe essere tanto difficile? Deve essere tanto difficile? Non ci riesco ancora ma voglio riuscirci. Vince chi resiste un minuto di più, mi par di ricordare. E se non ho alti redditi ho comunque resistenza e memoria. Buttale via!
Vedi, Giulia, se quello dello scrittore non è un mestiere, come tu sostieni, mi spieghi come dovrebbero campare gli scrittori? O i musicisti di un’orchestra sinfonica, o i teatranti come, che so?, quelli della Raffaello Sanzio, che sicuramente non fa tour per i palaforum d’italia? Con i finanziamenti, forse? Funziona così in tutto il mondo occidentale. Le istituzioni finanziano la ricerca in campo scientifico e in campo umanistico, e fina a prova contraria la scrittura rientra in questo settore. Ma se invece vogliamo vedere in questo la poca voglia lavorare e di morire di fame di chi, presumibilmente, ha un talento e cerca di alimentarlo, spiegatemi poi perché passate le mezze giornate a parlare di libri nei blog e non di bonifici o transazioni finanziarie (tanto per fare un esempio non a caso). Detto questo, mi ripeto, io dal 2004 vivo di scrittura di libri a Milano, in una casa di mia proprietà per la quale pago un mutuo, con moglie dipendente di una multinazionale e due figli. Posso chiamare la scrittura mestiere?
@Michele Monina
Certo che può chiamare la scrittura mestiere. Lei è quindi un artigiano, produce il suo prodotto da sè. Come un artigiano va a vendere il suo manufatto. Se lo vende ed è contento del reddito che ne trae, bene, altrimenti cambi prodotto o cambi mestiere. Ha mai visto un artigiano pagato dallo Stato?
Hommequirit, non sono un artigiano. Lo stato non mi inquadra come tale. Non posso iscrivermi alla Confartigianato, per dire. L’Istat non mi inquadra come artigiano, né come professionista, ma come inoccupato, nonostante abbia un reddito (variabile, ma crescente) e paghi regolarmente le tasse. L’Inps non mi inquadra. Neanche l’Enpals mi inquadra. Se mi ammalo non c’è una cassa artigianati pronta a sostenermi. Non giochiamo con la vita degli altri, suvvia. Qui si sta discutendo di un argomento serio.
Ecco, sul mestiere, io farei una distinzione almeno per i poeti: io non che posso piazzare versi con orari da ufficio, per dire.
(ho dimenticato una “è” fra il “non” e il “che”. eccola).
Hommequirit, un amico mi raccontò che una troupe televisiva giapponese intervistò un artigiano restauratore di mobili, nel centro di Roma. “Quanto le dà il comune per poter continuare a lavorare, portare avanti questa tradizione, questo deposito di cultura?”
Lui li guardò interdetto: “niente. Mi tocca pure pagare un affitto pazzesco. Infatti sto chiudendo, non trovo i soldi per pagare un ragazzo di bottega.”
I giapponesi NON ci volevano credere.
allora, io sostengo che mettersi davanti al pc per scrivere un romanzo e avere la pretesa di essere pagati a priori sia da pazzi salvo i casi in cui i libri vengano commissionati.
Se poi qualcuno decide di investire e guadagnare sul prodotto dello scrittore allora è ovvio che quest’ultimo debba essere pagato, ma in caso contrario penso sia assurdo chiedere di essere pagati dallo Stato.
Questo è quello che io sostengo, e sostengo anche che se qualcuno vuole fare lo scrittore di mestiere è libero di farlo.
Giulia, non dico che TUTTI quelli che si siedono al computer debbano essere pagati, ma che, attraverso un sistema ponderato, si dia la possibilità a chi fa lavoro di ricerca letteraria di potersi esprimere, anche grazie all’aiuto di istituzioni. Come? Non lo so. Tipo: sgravi fiscali, residenze per artisti, borse di studio, etc. Cose che in Francia, in Olanda, in Gran Bretagna, in Germania (etc. etc.) si fa, da sempre. Non sto inventando nulla, fidati. Si tratta di investire sui talenti. Quelli “naturalmente” commerciali troveranno nel mercato il loro spazio (io non ho nulla contro la scrittura popolare. Anzi la difendo ad oltranza!), ma chi ha un talento di diversa natura e che comunque arricchirà tutti – anche se non lo conosciamo direttamente (ma per “rimbalzi culturali” ci arriva lo stesso) – non voglio che disperda le sue facoltà perché “fuori dal mercato”. Non ci conviene, lo capisci?
Si tratta anche di alzare il livello di civiltà collettiva, migliorare la fruizione di tutti. E la cultura di base di tutti. Non solo finanziamenti, ma anche biblioteche, conferenze nelle scuole, etc. etc.
@biondillo
vede,non si tratta di sacri fuochi o di romanticherie,il fatto è che forse ci son troppi artigiani e mestieranti e pochi artisti.
E questo è poco commovente,senza ironia.
In sintesi (perchè la discussione è vecchia…),un artigiano produce in primis per vendere il suo prodotto,un artista in primo luogo per soddisfare una necessità interiore,così la vedo io.
Poi entrambi posson fare cose egregie,ma la motivazione è diversa.
In rari casi un artigiano è anche un artista.
Altrimenti non ci sarebbe nessuna differenza tra Man Ray e un bravo fotografo di matrimoni,tra Caravaggio e gli imitatori,tra Liala e Simenon…
Che c’entra poi il regime monastico e tutto il resto che lei cita…..col fatto d’essere artista?
Ognuno ha le sue metodologie e non corrispondono sempre a quelle impiegatizie che lei espone.
Quanto poi al discorso di assistenze varie non oso immginare come finirebbe in Italia.Soliti maneggi e magari ci sarebbe pure lo sciopero degli scrittori!
La distinzione arte-artigianato, per come la vedo, lascia il tempo che trova. Le cattedrali gotiche non hanno un progettista, sono l’opera di artigiani eppure sono capolavori. Ho visto stalli di cori rinascimentali che chiamarle opere d’artigianato, arti minori, è insultante.
Io vorrei si riconoscesse il talento, ovunque si annidi. La fortuna di alcuni è che hanno una grande capacità di comunicare il prorpio talento, ne sono felice epr loro e gioisco se il pubblico li premia. ma c’è chi il suo talento, quello della “necessità interiore”, lo può esprimere in forme non “Popolari”. E anche lui, però, vorrei riuscisse a trovare il modo di esprimersi.
Da me non troverete mai un discorso che dice: Poesia=arte, romanzo di genere=merda. Ci sono poeti cani e noiristi geni.
Ma se oggi il noirista genio trova il modo di campare del suo talento (e ne gioisco) vorrei che capiti anche al poeta genio. Poi, i cani si fottano.
Beh, se si trovasse (sempre che possa esistere) il modo di investire sui talenti in questo senso io di certo ne sarei felice, per carità.
Ma qua il talento si esprime nei talent show, dove vinci se sei un nerd balbuziente e solo raramente se sei davvero bravo.
La mia posizione non è quella di promuovere lo slogan “gli scrittori (o i musicisti, i cantanti, i pittori…) si arrangino”, assolutamente.
E’ che mi pare che la meritocrazia in questo Paese non sia mai passata nemmeno per sbaglio, e se si dessero sovvenzioni agli scrittori si farebbero avanti migliaia di persone con mucchi di libri scritti (spesso illeggibili) e pochissimi libri letti a pretendere il proprio riconoscimento in quanto “scrittori”. Diverso invece è l’investimento sulla ricerca in campo artistico o la possibilità di borse di studio (diciamo che per questo ci sono i concorsi, anche se sono la prima a riporvi ben poche speranze): ecco, queste sono cose che potrebbero fare solo bene a tutti quanti.
In altri Paesi già accade, dici? Quindi ci basterebbe “copiare”, ma mi sa che in Italia non siamo buoni nemmeno a fare quello.
@biondillo – “Si tratta anche di alzare il livello di civiltà collettiva”…
ah, per questo scrive chi scrive? E per questo ha diritto a essere finanziato? In sostanza, a voi l’onere di elevare noi, a noi l’onere di finanziare voi?
Io per me non ho chiesto nulla, Diana. Non mettermi in bocca cose che non penso. Io sto nel mercato, nel mio piccolissimo.
Credo però che abbiamo bisogno di musei d’arte contemporanea di livello europeo (e chi compra le opere? L’istituzione pubblica), biblioteche fornite e diffuse capillarmente (e chi compra i libri?), compagnie di teatro all’avanguardia, etc. etc. Cose che nel resto dell’occidente sono date per scontate, mentre da noi l’idea è che si voglia fare i furbetti e mangiarci sopra. Ciò dimostra che il livello di civiltà collettiva, appunto, è basso.
D’altronte il nostro ministro dell’economia l’ha detto: “la cultura non si mangia.” Qui, dove la nostra unica risorsa è proprio la cultura. O meglio: era.
@biondillo. Scusami, ho reagito a una tua frase (virgolettata), a com’era formulata. Il commento era mio (non parole che mettevo in bocca a te), è quello che mi è arrivato: “Stiamo lavorando per voi”. No, ho pensato, ognuno lavora per sé e deve trovarsi un suo spazio. Come me, come tutti. Se poi vale qualcosa, si vedrà, sarà misurato sul campo.
Michele Monina scrive:Non posso iscrivermi alla Confartigianato, per dire. L’Istat non mi inquadra come artigiano, né come professionista, ma come inoccupato, nonostante abbia un reddito (variabile, ma crescente) e paghi regolarmente le tasse. L’Inps non mi inquadra. Neanche l’Enpals mi inquadra. Se mi ammalo non c’è una cassa artigianati pronta a sostenermi. Non giochiamo con la vita degli altri, suvvia. Qui si sta discutendo di un argomento serio.
Quali tutele anche minime pensa riceva un artigiano? Ricordo a tutti i presenti che queste categorie non possiedono tredicesime, indennizzi per la gravidanza, la malattia, le ferie, il fallimento. Dove ha letto che se si ammala c’è una cassa artigiani pronta a sostenerla? E i sussidi di disoccupazione? E la cassa integrazione?
Ho la sensazione che chi scrive abbia un’idea dei diritti che solo i dipendenti sperimentano.
confermo (come traduttrice) quanto scrive Sara.
Qua si stan michiando discorsi diversi,biblioteche,musei…compiti istituzionali,che nulla hanno a che vedere con l’assunto del post.
Sarà anche a noi sconosciuto,e non in tutti i casi,ma le cattedrali gotiche avevano sempre un architetto progettista che presentava al vescovo e al capitolo della cattedrale la pianta e il modello della chiesa. Se questi venivano approvati, l’architetto dirigeva i lavori, controllava il taglio della pietra, organizzava il cantiere, forniva disegni dei partiti decorativi e delle iconografie e sceglieva i materiali.
Per me,la distinzione tra arte e artigianato resta,nel senso appunto della motivazione.Ciò non toglie che anche alcuni artigiani fossero anche artisti,come già ho detto.Non è questione di arti minori o maggiori,che riguardano più la tipologia dell’opera che la figura dell’artista.
Certo è che la cosa più importante al fondo di ogni discorso è sempre il talento,in qualunque cosa nella vita ,e che certo non può nascere da molte iniziative qui proposte.O ce l’hai,o non ce l’hai,e non c’è verso di insegnartelo o di comunicarlo se non c’è.
Joyce e tantissimi altri si esprimevano in forme popolari?
Eppure il talento non è rimasto sconosciuto.
Poi ,come per molte altre cose,il riconoscimento del talento dipende anche da altri fattori che nulla hanno a che vedere con questo.
Ma volere che tutto si incastri perfettamente,è certo una buona intenzione,ma finisce lì,è come dire che tutti dovrebbero vivere felici.
Una domanda a Biondillo: “se oggi il noirista genio trova il modo di campare del suo talento (e ne gioisco) vorrei che capiti (o capitasse?) anche al poeta genio.
Perchè secondo lei questo non accade?
Cara Sara, riporti una mia affermazione, poi mi rispondi come se avessi detto altro. La mia era una risposta a chi mi diceva che ero un artigiano. Non che io ritenga l’artigiano una figura privilegiata nei miei confronti. Ma ci sono delle differenze oggettive (per il mio commercialista io sono un “professionista”, e anche lì ci sono delle differenze, a partire dall’assenza di un albo e tante altre). So perfettamente che l’argiano, spesso, non è un lavoratore dipendente. Ma vengo da una regione, le Marche, dove artigianato e piccola impresa sono assai diffuse, e ti posso assicurare che Casse Mutue per le malattie degli artigiani esistono, così come esiste la Confartigianato, quindi, prima di dire che chi scrive non sa di cosa parla, magari, informati.
Tornando poi a quanto intendevo dire, e volendo spiegarmi spero una volta per tutte. Mi ripeto, io sono tra quanti vivono grazie al mercato. Vivo di libri. Non integro con presentazioni, articoli e tutto l’indotto che di solito si crea scrivendo libri, ma solo di anticipi e royalities maturare. Quindi non è di me, nello specifico, che sto parlando. Ma se come dite voi, con un livore che in un contesto come un blog letterario davvero annichilisce, gli scrittori devono guadagnarsi la pagnotta o cambiare mestire, che ne sarebbe dei poeti? Io soprattutto a questo penso. Trovo aberrante che in un paese civile non ci sia un minimo investimento dello stato nella cultura. Anzi, che Tremonti si possa permettere di dire “la cultura non si mangia” nel silenzio assordante di quasi tutti. Ma poi leggo i vostri commenti, che più che un silenzio sono un fragoroso coro di assenzo a queste affermazioni. Voi pensate che sia solo il mercato a dover sostenere la cultura. Bene. Poi, immagino, schifate Moccia e le barzellette di Totti, pensando, che so?, che la pubblicazione il Meridiano Arbasino si basi sulle vendite del suddetto. Ho, abbiamo cercato di fare un ragionamento un po’ più articolato, ma ripetete “la cultura non si manngia”. Io continuo a mangiare. Voi leggetevi le poesie di Bondi su Vanity Fair, le uniche, al momento, che il mercato è in grado di passarci.
@lady yoko: perché, a quanti poeti viventi e non troppo anziani capita di campare solo con la propria poesia?
(la domanda non è ironica, davvero, è sincera).
Non è che i cantanti siano gli unici a non poter campare fel loro talento, lo stesso avviene per cantanti, musicisti, ballerini, attori, animalisti, stilisti, modelle, pittori, baby sitter, insegnanti, calciatori (sportivi in genere) e altro ancora.
Tante persone che sanno di poter fare una cosa molto bene, ma non trovano il modo di portarci in tavola la pagnotta.
Non dico che sia un vanto, anzi, ma possiamo sovvenzionare il settore nell’insieme, mica i songoli.
singoli, scusate.
Scusa, Giulia, mi spieghi alcuni concetti che mi sfuggono: 1) in cosa un/una baby sitter rientra nell’area di ricerca umanistica di cui si stava parlando? 2) Non ti risulta che lo stato, attraverso fondi stanziati a fondazioni abbia finanziato teatri stabili, orchestre, corpi di ballo, il mondo del cinema- direttamente con finanziamenti, con borse di studio, con sgravi fiscali? 3) gli insegnanti non vivono del loro lavoro in che senso? Lo fanno gratuitamente? 4) i calciatori e gli sportivi in generale che hanno a che fare con il mondo di cui sopra? Il continuare a sparigliare le carte in tavola, temo, non faccia un buon servizio a nessuno.
hai csritto: “Ma se come dite voi, con un livore che in un contesto come un blog letterario davvero annichilisce, gli scrittori devono guadagnarsi la pagnotta o cambiare mestire, che ne sarebbe dei poeti?”
e io ritengo, ed è un parere e niente di più, che sì, lo scrittore si debba guadagnare la pagnotta. Se quanto guadagna dal proprio lavoro non gli è sufficiente, può fare anche altro per arrotondare, lo fanno tutti (Musicisti, sportivi ecc…)
Questo per quanto riguarda i singoli.
Se si amplia la cosa ai finanziamenti nel settore concordo che si possa e si debba fare di più, ma non credo che questo “di più” comporti un drastico cambio nelle disponibilità economiche degli scrittori che finora non hanno potuto vivere dei prorpi libri.
Questo è quello che penso, poi dato che ho già scritto molto sull’argomento mi ritiro nel mio angolino, che poi sembro logorroica.
Continua a sfuggirmi perché un orchestrale debba essere pagato anche grazie a finanziamenti pubblici (come anche danzatori, attori e e registi e affini) e uno scrittore no. E continua a sfuggirmi perché ci si lamenti spesso della qualità dei libri offerti dal mercato ma poi si voglia lasciare solo a questo il potere di decidere che libri meritino di essere scritti. Ma probabilmente sono io un po’ tardo…
@Michele Monina
Lei non è tardo, perché ha appena dimostrato di essere acuto nel capirlo.
Discussione illuminante per farsi (o confermarsi) un’idea di quale sia la (squallida) situazione della cosiddetta letteratura italiana di oggi e di coloro che la rappresentano o aspirano a rappresentarla.
In ogni caso, anche alla luce della controversa pretesa del cantante Califano, consiglio a tutti gli scrittori che con i loro libri non ci campano, e sono la maggioranza, di sottoscrivere le quote di una qualsivoglia pensione integrativa. Che non essendoci quella vera non integra un bel niente ma almeno evita ci si ritrovi sotto un ponte.
Costa 100 – 150 euro al mese, questo è tutto.
Suppongo sia perfettamente inutile ricordare a tutti coloro che pur sentendosi oggi misconosciuti aspirano ad esser riconosciuti come gli astri fulgenti della letteratura italiana d’oggidi (per la serie “non sanno cosa si perdono, se perdono me”) che gentaglia come Kafka, Conrad, Pessoa, Melville, Baudelaire, Gadda, Achmatova, Cvetaeva, Fallada, Mandel’stam, Prato (oh, yes: Dolores Prato – chi – era – costei?) è riuscita a conquistarsi un posto nella storia della letteratura nonostante alcuni di loro abbiano, in vita, fatto mille mestieri e/o la vita del travet (Kafka, Pessoa) ed altri abbiano impiegato la loro vita a cercar di salvarsela, quella loro vita, senza peraltro riuscirci (Mandel’stam. Babel…)?
…Ma mi rendo conto che io sto parlando di letteratura, e che qui forse sto andando OT.
Scusate.
Abbassare i toni, Gabriella, grazie. Tenderei a ricordare ai commentatori che questo blog non è la televisione: il “chi dice la battuta più urticante” vince qui non funziona.
Mi sono seguita tutta la discussione e sono perplessa. Cosa c’è di strano nel fatto che letterati/poeti/giornalisti/ saggisti aspirino a pagare le bollette con il loro lavoro? Non è un affronto. Che non si possa “pretendere” un salario – nel senso di una busta paga mensile – è un altro conto. Per quanto mi riguarda, più che di sostegni statali ci sarebbe bisogno di borse come quella della Guggenheim Foundation, che – a fronte di un progetto – sostiene (non so se bisogna scrivere sosteneva) lo scrittore per un anno. O altre benemerite istituzioni che finanziano il lavoro dei poeti. Lo stato no. O almeno non quello italiano, visto come usa i fondi in genere.
Ho posto, giorni fa, una semplice domanda cui nessuno ha dato risposta. Ci riprovo: perché si sta lì tutti a lamentarsi del mercato che vorrebbe imporci solo robaccia (ho anche fatto nomi, ovviamente, da Moccia alle barzellette di Totti) se poi, temo per un certo livore dato dall’assenza di libri con il proprio nome sulla costa (berlusconismo d’accatto, il mio), si pretende che sia proprio il mercato a decidere chi è degno o non degno di andare avanti con la scrittura? Detto questo, continuo a ripetermi, io di libri ci vivo lo stesso e le poesie, quando voglio, me le leggo su Vanity Fair o dentro i Baci Perugina.