IL ROSA E IL NERO (E IL VERDENERO, ANCHE)

Il discorso sugli stereotipi fatto al NoirFest in ottima compagnia andrebbe ripreso, naturalmente. In particolare, bisognerebbe rispondere all’obiezione finale di Paolo Repetti che difendeva i medesimi e l’idea di una letteratura che vada al di là dell’appartenenza di genere. Il che piacerebbe anche alla vostra eccetera, nel migliore dei mondi possibili: non questo, dunque.
Ci ripensavo questa mattina, leggendo un articolo che non parla di libri ma di videogames, e che festeggiava la “valanga rosa” delle videogiocatrici: peccato che i giochi destinati alle medesime le invitino ad allevare cuccioli o ad allenarsi per diventare una ballerina.
Comunque.
Bilancio da Courmayeur: positivo, piacevole, interessante. Approfitto per un corollario: ieri Carlo Lucarelli ha parlato del suo ultimo libro per Verdenero. E oggi il quotidiano riporta questo articolo della vostra eccetera. Ve lo propongo anche qui.

Navi a perdere di Carlo Lucarelli è il tredicesimo titolo di VerdeNero, una delle iniziative editoriali più interessanti, e più meritevoli, della piccola editoria. VerdeNero è una collana nata dalla collaborazione tra Edizioni Ambiente e Legambiente,  ha aggregato molte firme della narrativa italiana (Loriano Machiavelli, Piero Colaprico, Giancarlo De Cataldo, Simona Vinci, Wu Ming, Massimo Carlotto) e soprattutto si è data come tema unico quello dell’ecomafia. Dunque, abusivismi, scempio ambientale, traffici illegali: tutto quello che affligge l’Italia da anni, raccontato nel linguaggio del noir.

 Navi a perdere (pagg.136, euro 10)  ha due protagonisti che non esistono più. Il primo personaggio è una nave. Anzi, una motonave da carico: si chiama Rosso, meglio nota come nave dei veleni. Si è arenata su una spiaggia calabrese il 14 dicembre 1990.

  Il secondo personaggio è Natale De Grazia: in un altro giorno di dicembre di cinque anni dopo sta viaggiando in macchina verso La Spezia. Si ferma per un caffè. Risale in auto. Impallidisce, respira a fatica. Le persone che sono con lui chiamano soccorso: l’ambulanza arriva sotto la pioggia e lo porta all’ospedale di Nocera. Natale De Grazia, capitano di corvetta, muore per arresto cardiocircolatorio. Aveva trentotto anni. Era in ottima salute. Indagava sulla Rosso e su altre navi scomparse per conto della Procura di Reggio Calabria. I suoi compagni di viaggio erano due carabinieri.

  Lucarelli parte da qui: racconta il poco che è dato sapere su un uomo insignito di riconoscimenti alla memoria per i suoi sacrifici, il suo senso del dovere e per la contrastata indagine sui traffici clandestini che avvenivano a bordo della Rosso e di altre motonavi misteriosamente affondate (cinquanta, secondo Legambiente). Lucarelli racconta per particolari: ritrova, per esempio, le parole della vedova Anna: “Da quando si occupava di queste vicende era sempre molto preoccupato, stressato. Ma a me diceva di non avere paura”.

   Sottolineare quelli che sembrano dettagli non è secondario: perchè lo stesso autore avverte che i dettagli “non sono mai neutrali”, ma anche perché  Navi a perdere non è soltanto un’inchiesta.  E’ una narrazione fitta di intersezioni, di colori, di suoni: con una profonda ricerca sul linguaggio e una costruzione lucidissima.

   Che parte dal 1988 e dai rifiuti speciali (diossina proveniente da Seveso) trasportati dalla Jolly Rosso, che in virtù di quel carico conquista il suo sinistro soprannome. L’anno successivo si chiamerà in un altro modo: via il Jolly, resta Rosso. Ancora un anno, e affonda. Ma come? Intanto, racconta Lucarelli, non si trova la falla che avrebbe fatto imbarcare acqua: c’è un buco nello scafo, è vero, ma è  “così netto e squadrato” che può averlo fatto solo la fiamma ossidrica. E c’è quel marinaio che nella tappa a Napoli si fa sbarcare: ufficialmente, per malattia. Ma ai compagni dice un’altra cosa: “Fate meglio a scendere anche voi, perché questa nave indietro non ci torna”. Poi, ci sono i container: ne vengono recuperati venti su venticinque. E gli altri? Infine, ci sono i camion, visti dai testimoni dopo il naufragio: quelli che arrivano, di notte, ad una discarica, quelli che spariscono verso località sperdute dell’Aspromonte.

  La parola dietrologia viene usata più volte. Con amarissimo sarcasmo, Lucarelli la richiama elencando  i misteri italiani, dalla morte di Enrico Mattei a Ustica. Fino ad arrivare all’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, che indagavano proprio “sull’ipotesi di un  traffico di armi e di rifiuti tossici. Armi arrivate via mare, rifiuti tossici infilati sotto terra, coperti dalla pavimentazione di una strada costruita dalla cooperazione italiana”. Dietrologia significa, anche, sospettare che “ci sarà sempre una città che si trova a una distanza dalla piramide di Cheope che moltiplicata, sottratta, divisa ed elevata al quadrato fa 666, il numero della Bestia”.
In questo caso, però, la Bestia è vera.

11 pensieri su “IL ROSA E IL NERO (E IL VERDENERO, ANCHE)

  1. “peccato che i giochi destinati alle medesime le invitino ad allevare cuccioli o ad allenarsi per diventare una ballerina” credo che questi recinti irreali su cosa deve interessare e cosa non deve interessare siano stabiliti dalla psicologia.

  2. il gioco del ribaltamento degli stereotipi è pericoloso, a volte può sfociare in stereotipi di segno opposto altrettanto ridicoli. è un po’ come quando sartre prende per il culo renard (nel saggio “l’uomo legato”, che ora fa da prefazione a “pel di carota” edito da einaudi), rimproverandogli di non riuscire a far “sanguinare le cose” perché di queste vede solo gli aspetti più superficiali ed evidenti, e cita ad esempio il passo in cui renard parla del “latte disperatamente bianco”, contrapposto alla “nerezza segreta del latte” di audiberti (per tacere del “nero latte” di celan). L’immagine renardiana per sartre è affetta da una tara positiva che la fiacca alla radice. Ora, capisco che un latte bianco possa anche far sorridere, ma un latte “disperatamente” bianco, in specie a paragone di uno
segretamente nero, a me sembra ritenere quanto meno un vantaggio dialettico, perché questo latte bianco, ma bianco con disperazione, non è cosa che ignori la nerezza, anzi, quella stessa nerezza, sottratta al novero dei confortevoli tesori dell’interiorità, la cui funzione precipua consiste nel permettere agli allocchi di gloriarsi del loro
    disvelamento, lo informa di sé con la flagrante pervasività di una speranza tradita. il fatto è che sartre voleva evidenziare lo scarso rilievo connotativo dell’immagine renardiana, assimilandola a un latte povero, ordinario, dal mediocre profilo semantico-nutrizionale. non il “latte più” di arancia
    meccanica, ma qualcosa come un “latte meno”, un latte che è proprio
    come tutti si aspettano, cioè bianco, il trionfo della convenzionalità
    e del perbenismo denotativo, di contro al sapido latte di audiberti,
    complesso, malizioso, eversivo, addirittura (ma tu pensa!) segretamente
    nero. a parte che non si approfondisce affatto un oggetto
rovesciandone
    in maniera meccanica un attributo corrente e facendo di questo
il suo
    insospettabile segreto, altrimenti chiunque 
potrebbe rivelare al mondo
    l’umiltà segreta di moresco, o la bellezza segreta di paola binetti (uno di quei segreti che ci si porta nella tomba, nella fattispecie), per poi correre a 
farsi incoronare d’alloro in campidoglio. ma ammettiamo pure che sia significativo,
    parlando del latte, dar conto di 
certi suoi ambigui commerci col nero: è quello che, secondo sartre, fa
audiberti e non fa invece renard, il
    cui latte monocromo e banale 
(banalmente bianco, appunto), non sa
    parlarci di nient’altro che di questa 
bianchezza, una condizione
    univoca, risaputa, che tutti gli riconoscono e 
che esso stesso, per
    ottusità e dabbenaggine, è incapace di problematizzare. sarebbe forse
    così, ripeto, nel caso di un latte bianco e nulla più, ma sartre, con
    un eccesso di sufficienza, introduce quel “disperatamente” a modulazione
    dell’aggettivo, e la faccenda cambia. il biancore cessa d’essere il
    candore cigneo degli sciocchi, i quali, ignari di nerezze, non 

    avrebbero alcun motivo di disperarsene. questo latte renardiano, a un
    tratto 
disperato (di punto in bianco, verrebbe da dire) nel presentire
    la propria
chiarità come un esilio ha dunque contezza di nero, e la
    partecipa nel modo più eloquente. l’avverbio lo riconsegna dunque a
    quell’intimità con la nerezza che sartre intendeva contestargli: la
    nerezza medesima gli si offre adesso tutta intera, e l’aggettivo la
    riassume in sé, non come cauto possesso borghese, ma come desiderio
    frustrato e lutto immedicabile. se, per citare benjamin, conosce una persona soltanto colui che l’ama senza speranza, allora quel latte disperatamente bianco non solo ci parla del nero ma, soprattutto, ci dice l’essenziale. ecco, io questa strategia di complicazione semantica, ottenuta a suon di ribaltamenti meccanici (in giro è tutta una “serena disperazione”, un silenzio assordante” ecc), la trovo clamorosamente inadeguata. allora perché non riconoscere che negli stereotipi (anche di genere) c’è un fondo di verità incontestabile, per quanto fastidioso e risaputo?
    Vabbe’, vado a farmi un
    latte macchiato 🙂

  3. Ho capito, ma è sposato, ama sua moglie, la ricorda in alcuni libri con grande tenerezza, cioè insomma, devi fartene una ragione…

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