Mi perdonerete se mi soffermo ancora per oggi sul Salone del Libro che si è chiuso ieri a Torino con, come è noto, numeri record. E’ un magnifico modo di concludere un’esperienza, ma quell’esperienza non ha riguardato soltanto i numeri, ma un modo, credo inedito, di concepire la vita e il lavoro culturale.
Ricordo come fosse ieri quella cena autunnale (era il 2016) in un ristorante dell’Esquilino (che era buonissimo, ma non ricordo come si chiamava), dove Nicola Lagioia mi raccontò qual era il progetto a cui tentava di dare forma. La prima cosa di cui mi parlò era il gruppo editoriale. Era, allora, un’impresa difficilissima. Oggi si tende a dimenticarlo, ma il Salone era dato per morto. Fior di editori chiamavano in disparte i propri autori per traghettarli a Milano, a Tempo di Libri, e sussurravano che non aveva senso sprecare tempo per un cadavere.
Io me lo ricordo. Altri meno.
Sembrava impossibile farcela “contro” i gruppi editoriali più forti, ma ce l’abbiamo fatta. Non c’è stato un anno che sia andato liscio, nel senso che abbiamo sempre dovuto lavorare in salita, in affanno, e contro qualcuno. Due anni Tempo di Libri. Un anno Altaforte. Due il covid. L’edizione 2022 Striscia la notizia. Quest’anno “il caso Roccella”.
Ma ce l’abbiamo fatta, ogni volta alzando i numeri, e, se posso, l’asticella.
Non elenco tutto quello che è stato fatto, e che va al di là delle singole presentazioni dei singoli libri. Ma basta compulsare gli archivi o fare appello alla propria memoria, e ricordare che abbiamo portato quello che non c’era, i mondi che non avevano parola, e soprattutto un modo diverso di lavorare.
Oggi mi è ricapitato sotto gli occhi il post di Stefano Petrocchi a commento della prima edizione. Lo trovo bellissimo:
“Perché di rado si produce quello di cui tanti di ritorno da Torino hanno parlato: qualcosa come una “mente centrale” (per dirla con Stevens) in cui scrittori, editori e lettori s’incontrano sperimentando uno “stare insieme” che in sé è già “abbastanza”. Accade, si dirà, in molti festival e occasioni consimili. Senz’altro, ma le circostanze da cui è nato questo Salone hanno moltiplicato la risonanza simbolica dell’evento (e per una volta si può usare la parola senza sentirla consumata dalla lingua dei comunicati stampa). La seconda: Nicola usa toni e argomenti né consueti né convenzionali, proietta il suo discorso in un ambito sovranazionale, trova in quello “stare insieme” che si è prodotto nei corridoi e nelle sale del Lingotto, come negli eventi off, un’idea di vita associata da tradurre in progetto culturale e politico. Dice anche che la domanda per quel tipo di progetto c’è già, quello che manca – ma forse s’intravede – è l’offerta. Volano molto alte le parole di Nicola e però hanno un senso altrettanto concreto. Indicano – se non sbaglio – una visione e una prassi alla sinistra di questo Paese”.
Questo è stato il Salone di Nicola e del gruppo. Qualunque cosa avvenga a partire da oggi, sarà importante ma sarà diverso. E ringrazio per averlo vissuto. Mille e mille volte.