Dunque, da oggi Il segno del comando è in libreria (e negli store digitali). Vi ho già parlato altre volte di come mi sono avvicinata alla storia originale, creata da un bellissimo team nel 1971 e trasmessa dalla Rai. Il team: la regia di Daniele D’Anza e una sceneggiatura frutto di molti ingegni dell’epoca, Giuseppe D’Agata, Flaminio Bollini, Dante Guardamagna, Lucio Mandarà. D’Agata ne trasse a sua volta un libro, dove inserisce quello che doveva essere il finale che avevano immaginato e che nello sceneggiato venne cambiato.
E che non è il mio.
Ora, il “mio” Segno del comando è insieme lontano e fedele all’originale (stessa ambientazione, stesso tempo – una manciata di giorni di fine marzo 1971- stessi personaggi o quasi). Ma il lavoro di riscrittura che ho fatto trasforma quei personaggi in altro: a quelli già presenti fornisce una storia e una motivazione, alcuni vengono modificati, altri sono nuovissimi.
Per usare una definizione datami da un caro amico che lo sta leggendo, lo sceneggiato è in bianco e nero, il romanzo è a colori.
Perché c’è la cronaca di quegli anni, sullo sfondo e a volte in primo piano, e ci sono gli scrittori e i ribelli e le sognatrici e studiose che si aggiravano per Roma esattamente negli stessi giorni in cui il professor Forster si smarrisce nella città, ammaliato come fu il suo Byron, di cui spesso riprende e cita versi e sensazioni.
Il mio Forster, dunque, ha qualcosa di Sir Gawain, e comprende del femminile molto più del suo originale: mi interessava creare un eroe imperfetto (cit.) pieno di dubbi e ripensamenti, che attraverso la poesia che tanto ama arriva infine a capire che la realtà non è solo quella che si vede e si tocca. E che le donne possono insegnargli molto.
La mia Barbara ha “Sputiamo su Hegel” in borsa, e non poteva che essere così, nell’anno appena precedente alla grande manifestazione femminista del 1972 a Campo de’ Fiori.
Il mio Powell…beh, ha risvolti interessanti che non dico, e così il mio Barone Rosso: che ha un motivo, secondo me, per portare l’orologio nella parte interna del polso. E’ uno degli irrisolti che ho provato a svelare a modo mio.
Ci sono gli altri, poi. Morgana, che non si chiama così per caso, e che indirizza Forster sulla strada giusta. Un uomo che si chiama Walter Wirth, e che è devoto a un altro uomo senza nome che persegue obiettivi paralleli a quelli del Principe Anchisi e del gruppo di antagonisti di Forster (che a loro volta hanno una storia). C’è un nobile austriaco, il conte Essen, i cui intenti si chiariranno alla fine. E il musicista cieco di cui molti avranno memoria ha a sua volta uno scopo e un nome: Arturo Belbo, e se vi ricorda qualcosa avete ragione (sì, ci sono moltissimi easter egg qui dentro).
Quanto a Lucia, e al finale, non dico nulla, perché il gioco si può svelare fino a un certo punto.
E’ un gioco? Un esperimento? E’ un romanzo, che spesso somiglia al gioco e a volte sperimenta strade ibride come questa.
Tutto vostro, da oggi, e speriamo che amiate leggerlo come io ho amato scriverlo.