Il problema non è la qualità di SanPa, la serie Netflix su San Patrignano: la qualità è ottima, Gianluca Neri e il suo gruppo di lavoro hanno lavorato al meglio, il passaparola è fortissimo. Il problema è come mai tutti parlano di SanPa, come se su una lunghissima dimenticanza fosse stata improvvisamente accesa una luce. Come se, di colpo, tutti coloro che flirtano con la retromania (ne parlò, a proposito di musica, Simon Reynolds) , che si innamorano di film, abiti, giochi, programmi televisivi esaltando i Settanta e gli Ottanta, avessero fin qui ignorato davvero quella lunga oscurità, quel vuoto d’aria che furono, anche, i Settanta e gli Ottanta. In quel vuoto d’aria c’era l’eroina, come hanno raccontato, fra gli altri, Silvia Ballestra e Vanessa Roghi in due romanzi, I giorni della rotonda e Piccola città.
Ma guarda, cosa è successo, cosa è potuto accadere? In questi giorni leggo post e status pieni di stupore, oltre a quelli di chi quella realtà l’ha conosciuta da vicino, perché ci è stato immerso o perché figlio o figlia di genitori che ci erano stati immersi. Io non sono turbata, affatto, che la rivelazione, o lo scossone, vengano da una serie televisiva. In questo momento la narrazione delle serie è potentissima: basti pensare al grande successo a distanza del romanzo di Margaret Atwood, Il racconto dell’ancella, che risale al 1985, dopo la serie che ne è stata tratta. Quindi, ben vengano davvero le serie, se hanno il potere di farti ricordare, o di farti sapere.
Semmai è il momento di rileggere, i leggere, i libri che possono farci sapere qualcosa in più. Ne aggiungo dunque un terzo, L’aspra stagione di Tommaso De Lorenzis e Mauro Favale. Sono passati otto anni dalla sua uscita, e andrebbe letto e riletto. Qui uno stralcio dell’intervista a Wu Ming1, su Giap. E’ proprio questo di cui si parla ora.
“L’ aspra stagione non è un libro sugli anni Settanta se per anni Settanta intendiamo quel periodo che comincia col ’68, o – ancora meglio – col ’69 operaio, e arriva fino al 1980. Piuttosto è un libro sull’uscita dagli anni Settanta, sui mille modi per tirarsi fuori da un’epoca. È questo che lo rende tragico, forse nero, perfino al di là di Carlo Rivolta. Perché l’uscita da quella fase è costata la vita, oppure l’anima. In troppi hanno perso la prima. Molti si sono venduti la seconda. In questo senso il libro, secondo noi, rientra nel filone dei racconti dedicati alla Transizione, cioè agli sfuggevoli punti del continuum in cui si consuma un trapasso.
Indicativamente l’“aspra stagione” potrebbe essere compresa tra la mattina del 16 marzo 1978, quando viene rapito Aldo Moro, e l’11 luglio del 1982, quando Dino Zoff alza la coppa d’oro col globo per celebrare la vittoria della nazionale italiana al mondiale di football in Spagna. Questo vale nonostante l’arco temporale della narrazione cominci prima attraverso il meccanismo del flashback: nel 1973 per l’esattezza, quando Carlo era un giovanissimo cronista di «Paese Sera».
In quel lustro si compie – almeno a nostro avviso – la fine della prima Repubblica, della Repubblica uscita dalla Resistenza, con i suoi partiti di massa, la grande fabbrica, la centralità operaia, un preciso statuto del politico e via dicendo. Ed è anche il momento in cui si manifesta l’inversione di tendenza, il ribaltamento dei rapporti di forza, l’offensiva liberista che in Italia assume le forme del craxismo. Se la consideriamo in questi termini, quella stagione non è mai finita, coincidendo con la genesi dell’Italia contemporanea, quando le possibilità vengono scartate una dopo l’altra, gli eventi prendono una determinata piega e la Storia scandisce il suo corso. È l’eterno presente, il passato che ritorna, di cui abbiamo provato a scrivere. In altre parole: l’origine dell’oggi. Al di là dell’alternanza tra fasi ritenute espansive e congiunture recessive, al netto della Milano da bere, di Tangentopoli, della discesa in campo dell’imprenditore milanese e delle bolle speculative, per trent’anni abbiamo sperimentato le medesime politiche di attacco al lavoro, disintegrazione dei diritti, devastazione del pubblico e dannazione di un’idea di società. Anzi: queste politiche sono cambiate nella misura in cui sono mostruosamente cresciute d’intensità. Per non parlare degli uomini che hanno praticato o legittimato ideologicamente le ricette in questione. E non a caso sono alcuni dei comprimari – o delle comparse – del libro.
Va anche detto che abbiamo scritto alla fine degli anni Zero, in un momento in cui il quadro politico sembrava definitivamente chiuso ed era lontanissimo il ricordo del ciclo di lotte e mobilitazioni che avevano segnato l’inizio del decennio. Mentre lavoravamo a LAS esplodeva la bolla dei subprimes e si palesava la crisi finanziaria internazionale. In Europa e in Italia si sceglieva l’opzione di uscita a destra. Insomma, la delusione era forte e una storia come quella di Carlo aiutava a misurarsi con un certo sconforto.
Oggi, in tempi di guerra al debito sovrano, di «sacrifici», di uso politico della crisi – come avremmo detto una volta –, certi riverberi tra epoche sembrano quasi riflessi, con l’aggravante che viene esplicitamente palesato lo scenario di un superamento del modello welfaristico continentale. Un vero e proprio regolamento di conti in stile western. Sempre più aspro. Un salto nel passato che vuole ricacciarci – una volta per tutte – a prima del XX Secolo.
Per questo abbiamo provato a cogliere il punto in cui tutto ciò è cominciato: per capire come abbiamo fatto ad arrivare fin qui”.