Sono rimasta molto colpita dall’articolo che Elena Loewenthal ha scritto ieri per La Stampa, dove raccontava dell’arrembaggio editoriale alla Shoah, come sempre avviene nell’imminenza del Giorno della Memoria. Stavolta, però, ci sono non pochi titoli che vengono declinati in chiave romance. Ovvero:
” Fra i libri usciti per il giorno della Memoria se ne contano almeno quattro che offrono al lettore una versione dello sterminio diluita in salsa amorosa: Astrid Rosenfeld, Per coraggio, per paura, per amore (traduzione dal tedesco di Elena Broseghini per Mondadori, pp.298, € 18), Sarah McCoy, La figlia dei ricordi, traduzione dall’inglese di Claudia Lionetti, Editrice Nord, pp. 456, € 17,60), Millie Werber ed Eve Keller, La sposa di Auschwitz. Una storia vera, (traduzione dall’inglese di Pamela Cologna, Newton Compton, pp. 283, € 9,90) e Ellis Lehman con Shulamith Bitran, Il nostro appuntamento. Una storia vera (traduzione dal nederlandese di Laura Pignatti, Piemme, pp.405, € 18). Questo corale inno all’amore dentro e nonostante Auschwitz ha prevedibili tratti comuni: fascette tinta su tinta (rossa e rosa), volti di donne più o meno trasognate e fili spinati in copertina. Promettono attendibilità o talento narrativo, garantiscono commozione. Al di là delle differenze nello stile, nella lingua e nell’ambientazione (due di questi libri si fondano sull’attestato di verità della storia, gli altri promettono la scoperta di un talento inventivo), fa un certo effetto ritrovare i toni del romanzo sentimentale dentro un contesto così nero. Che sia solo rievocato in flashback o assunto come teatro della storia. «È il terzo giorno della mia prigionia… Piove così forte, tesoro mio, e nonostante la pioggia mi renda così triste sono contenta che piove perché anche lì dove sei tu piove. E quella pioggia rende triste anche te e per questo sono contenta, perché nello stesso momento proviamo lo stesso sentimento…». «Si inizia a scrivere perché c’è qualcuno a cui si vuole raccontare tutto?… Amy, è a te che vorrei raccontare tutto». Che siano storie vere rivisitate o frutto d’invenzione narrativa, i toni lievi sono rassicuranti, i personaggi sembrano calati sulla scena di un mondo quasi familiare, riconoscibile. I campi della morte, le deportazioni, l’orrore: tutto scolorisce dietro le tinte pastello. Lasciando un retrogusto inquieto e la certezza che no, il rosa non s’addice al ricordo della Shoah”.
Non so se ci siano temi a cui il rosa si addice, e nemmeno cosa intendiamo davvero per rosa o romance che dir si voglia. Che, però, ci sia una crescente e in apparenza inarrestabile tendenza editoriale al costringere nello schema sentimentale qualunque genere, dall’avventura al fantastico allo storico, è dato di fatto. La domanda, facile (“perché?”) otterrebbe una risposta altrettanto facile (“le donne sono in numero maggiore fra i pochi lettori italiani e le donne VOGLIONO leggere storie sentimentali”). Dunque, il desiderio della lettrice va assecondato, rendendo esplicito quella che un tempo era esperienza implicita e personale della medesima. Nel 1984, così scriveva infatti Natalia Aspesi:
“…qualunque cosa leggessi, io ne cavavo, appassionatamente, quasi esclusivamente, il rosa: dentro il famoso schema di “lettura a più livelli”, io sprofondavo subito nel più basso, o nel più vistoso, o magari anche nel più vero. Così leggevo quella che dagli esperti veniva considerata addirittura letteratura classica, sentendomi a posto con la mia coscienza: ma saltando nervosamente ogni descrizione di paesaggio, ogni approfondimento storico, sociale, emotivo, senza afferrare lo stile letterario, la scrittura poetica: anche I Promessi sposi riuscii a leggerlo come fosse stato Un inverno d’ amore di Luciana Peverelli. Stendhal, Flaubert, Balzac, Dickens, raccontavano a me solo storie d’ amore; passavo le notti a leggere La fiera delle vanità, mai sazia dell’ intrigante Becky e della dolce Amelia, anche se la suprema delizia erano Jane Eyre, Orgoglio e pregiudizio e Mansfield Park, perchè per Charlotte Brontë e soprattutto Jane Austen, nei romanzi e nella vita, la massima aspirazione era il matrimonio, con uomini sempre più ricchi e nobili di loro; e quel che non era riuscito (o riuscito tardi e male) alle autrici, coronava invece le speranze delle protagoniste, e quindi anche le mie“.
Posto che sia così per tutte, un problema esiste: perché lo spostamento del centro narrativo dal racconto storico (anche terribile, come nei casi citati da Loewenthal) alla chiave sentimentale rischia di banalizzare e infine di vanificare il contesto e di renderlo solo uno sfondo intercambiabile. Non importa se sto leggendo di campi di sterminio o di streghe adolescenti, a contare sono il lui e la lei destinati a incontrarsi.
E qui, di nuovo, si apre il discorso sulla domanda e sull’offerta: mi rendo conto che chi sceglie di pubblicare determinati titoli risponderà “non siamo snob, diamo alle lettrici quel che desiderano”, e che il discorso sull’induzione dei desideri (se inondo il mercato di titoli rosa, è molto facile che prima o poi quei titoli verranno acquistati) si avvita su se stesso. Ma viene voglia di dar ragione ai tecno-apocalittici che, con un sorriso serafico, sostengono che questi sono i sintomi della prossima autodistruzione del sistema così come lo abbiamo conosciuto fino a oggi.
Peccato, però.
Penso anch’io che la salsa amorosa che diluisce lo sterminio, la shoah, sia fuori posto, più che altro perchè nessuno di noi sa veramente cosa significò vivere in un campo di concentramento. Qualunque ricostruzione dei sentimenti amorosi provati mi suona falsa. E vale per i sentimenti amorosi quanto per altri. Francamente lascio le parole a chi quella realtà ha vissuto. Farne uno sfondo è rischioso perchè se dell’una (l’amore) sappiamo qualcosa, dell’altra (il lager) possiamo onestamente immaginare pochissimo.
La Aspesi parla credo di una esperienza comune, che può accadere però per tanti altri temi o filoni, che ognuno insegue e ritrova nei libri, in certi periodi della vita.
Quandi si ha intelligenza e talento e rispetto per la complessità delle cose, si possono fare molte cose difficili e non immaginabili. Può starci persino una trama romantica nei campi di sterminio. E’ un’operazione delicata e difficile, ma ci ha provato per esempio Martin Amis parlando di Gulag, con un effetto parzialmente riuscito, ma mi ci giocherei qualsiasi cosa, incomparabilmente meglio di questi casi citati. Se io sono eticamente pulito, se io so di poter manterene un’intenzionalità pulita verso la correttezza storica, non è certo l’amore a essere irrappresentabile.
L’immoralità invece, lo stupro e la strumentalizzazione della vicenda storica si dimostrano con l’incompetenza, la mancanza di talento, l’imprecisione, le stronzate, l’incapacità di rappresentare il come potrebbe essere l’amore in un contesto di morte. Perchè in un contesto di morte l’amore è il gancio che ti tiene attaccato alla vita per il mento, e te lo fa sanguinare, rendendoti grato di essere vivo, e facendoti desiderare di morire. L’amore in tempo di morte, è tu in un campo il compagno in un altro, e doversi chedere se sarà schiattato e come. E cosa è meglio quando ti torturano. Il problema non è il tema ma il come. ORa io faaccio fatica a vedere il concetto di letteratura di genere sganciato dal concetto di mercato, per me tendono alla fusione e sono per principio distante. Ma certo è che quando il premio è il mercato e l’obbiettivo è il plot garantito da un canone, scrivi male.
Sento anche io che sia una stortura tingere di rosa un passato che di roseo non ha nulla. Credo siamo di fronte all’ennesima scelta di cosa dare in pasto al target preferito degli editori: le donne.
Le donne sono quelle che leggono di più e, a quanto pare dalle statistiche di vendita, se non contengono tinte rosee i libri noi donne non li leggiamo. Parlo in generale del pubblico pagante, nessuno qui si senta offesa.
Parliamo di lettura, non di letteratura. La lettura è business e l’unico modo per vincere sul mercato è indovinare bene i bisogni dei clienti.
Non credo ci sia da tirare in ballo l’induzione dei desideri, perchè se fosse così basterebbe indurre desideri diversi. No, non è Simcity, le donne da sempre e per sempre vogliono leggere di inconsolabili lamenti, amori disperati e soffice sesso.
La letteratura è altra cosa, non c’entra niente coi soldi, è un lusso che gli editori non possono permettersi.
Non so, Levi, Pahor, Salamov, o Spiegelmann, cercano di raccontare, tra l’altro, cosa succede alla tua umanità in posti che fanno di tutto per togliertela… L’amore ci potrebbe stare, quindi, a buon diritto. Però se l’obiettivo è solo fornire una love story strappalacrime, il risultato può essere davvero vomitevole e di un cinismo raro.
Ho letto, in una recensione del film “Venuto al mondo” (ambientato in Bosnia durante la guerra), queste parole:
“C’è una legge della narrativa ferrea come quella di Newton. Se non l’avete mai sentita nominare prima è perché mi è venuta in mente ora. Per un autore, la scelta di usare uno sfondo forte come per esempio l’Olocausto crea un debito morale che è direttamente proporzionale sia al peso di quella tragedia nell’immaginario collettivo sia alla distanza culturale e personale tra l’autore e i fatti raccontati. ” (http://www.internazionale.it/recensioni/cinema/2012/12/14/venuto-al-mondo/)
anch’io credo che la storia d’amore in un campo di sterminio ci potrebbe stare se la sai raccontare (Carlo Lucarelli scrisse un racconto thriller ambientato ad Auschwitz, “L’uomo col vestito a strisce”, e sulla Shoah hanno girato anche delle commedie: non solo La vita è bella, ma anche Train de vie, che personalmente preferisco)..poi per dire se sia banale o no o scritta male bisognerebbe leggerli sti libri, ovviamente. (di recente mi pare che Andrea De Carlo sia riuscito a scrivere un romanzo, Leielui, incentrato su una storia d’amore di ambientazione contemporanea senza scadere nella banalità o nel trito) e certamente ambientare una love story in un contesto come quello di un campo di sterminio pone allo scrittore qualche problematica in più.
vorrei concentrarmi su una cosa che ha scritto la Aspesi: lei in ogni romanzo vedeva la storia d’amore e fin qui ok ma perchè considerare questo livello come “il più basso”? Scusate se mi ripeto, ma io ho letto 22/11/’63 e Storia dell’assedio di Lisbona sopratutto come bellissime storie d’amore e non ho mai avuto l’impressione di abbassare il livello di King o Saramago nè la storia d’amore mi ha impedito di apprezzare l’approfondimento psicologico, lo stile, l’affresco storico (presente in entrambi i romanzi sia pure in maniera molto diversa). E tralascio di parlare del modo banale e questo sì riduttivo e ingiusto in cui la Aspesi ha liquidato Charlotte Bronte e Jane Austen. Ma forse io sono strano, dato che non considero “basse” nemmeno le commedie romantiche (ma col cinema sono assolutamente onnivoro)
Se si parla di arrembaggio editoriale alla Shoah e di romanzi rosa vuol dire che ci si riferisce ad uno sfondo che si suppone scelto per opportunismo, altrimenti il discorso della Loewenthal non avrebbe senso.
Ecco, ‘cosa succede alla tua umanità in posti che fanno di tutto per togliertela…’ come dice Francesca, almeno al livello di quanto accadeva nei lager, mi sembra molto ma molto difficile raccontarlo con le parole di chi non lo ha vissuto (non impossibile, certo, almeno nei termini che dice Zauberei).
non posso fare a meno di ricordare quello che ha scritto Primo Levi in “I sommersi e i salvati”: non dimenticare che i campi di sterminio erano campi “di sterminio”, e chi potrebbe raccontare cosa sono stati veramente, gli unici veri testimoni sono coloro che non sono sopravvissuti … Trovo orribile voler provare a raccontare una storia d’amore in un lager, asservire la tragedia al proprio narcisismo di scrittore o all’industria editoriale. non sono molto diversi film come “la vita è bella” o “il bambino con il pigiama a righe”. “train de vie” non è semplicemente una commedia, è un film visonario e surreale, e proprio per questo “dice” quello che non fa vedere.
ricordo anche “Il dolore” di M.Duras, il racconto straziante di chi aspetta il ritorno dei deportati dopo la fine della guerra – il ritorno del “suo” deportato – e vede tornare un uomo segnato per sempre.
Io leggo una doppia forzatura. La prima forzatura cerca di sfruttare dal punto di vista commerciale due grossi filoni “la tragedia” e il romance. Svuotando in parte la prima di tutta una serie di significati e fatti per “addolcire” il contenuto e lo stile con la retorica e l’immaginario del romanzo rosa che dovrebbe rimanere invece lettura di evasione. Solo alcune penne sono riuscite in passato a raggiungere questo intento e certamente non erano spinte da richieste editoriali e di mercato. Per non scomodare gli altissimi penso ad esempio al libro e al film The Reader.
La seconda forzatura, magari la vedo solo io, ma questa invasione rosa del romance sembra dettare quali dovrebbero essere i gusti e le letture delle donne in maniera stereotipata e superficiale. Come se in un’ideale libreria gli editori creassero un ipotetico reparto donne fornito quasi esclusivamente di sfumature di grigi, romanzi rosa, libri di cucina e consigli domestici e manuali della mamma perfetta.
Ripeto quasi esclusivamente per fortuna esistono le eccezioni.
Chissà come mai quando una commedia ci piace diciamo che “non è semplicemente una commedia” ma “è più di una commedia” e pure quel romanzo/film non è “semplicemente un horror” o un thriller, un fantasy o una love story, un romance no, è sempre “di più” perchè senza quel “di più” ci vergogneremmo a dire che ci è piaciuto. Train de vie è una commedia poetica, visionaria, surreale, amara e l’essere “commedia” non è un “di meno”. Scusate l’OT.
mmmh. La Spielbergschidlerizzazione di ritorno, quindi?
Esempio tipico di banalizzazione di un periodo storico, annacquandolo con un amore sghembo, è “Dove finisce Roma” di Paola Soriga, mediocrissimo agglomerato di pagine.
Per il resto, concordo sul fatto che non esiste incompatibilità di temi: dipende sempre dal “come” li si tratta. Un autore bravo parla anche di “rosa” nella tragedia senza perdere di qualità. Un autore scarso no.
Alla fine si tratta di discussioni oziose, a mio parere: esistono solo libri brutti o libri belli.
se la qualità dei romanzi in questione fosse la stessa del noto film di Spielberg non sarebbe male (a parte il fatto che letteratura e cinema sono linguaggi troppo diversi, non so fino a che punto sia corretto fare paragoni), anche se dovendo scegliere Il pianista di Polanski mi è parso più toccante,
Col rischio di risultare molto naive, propongo una riflessione. Riflessione che NON è circostanziata, perché io questi romanzi sentimentali ambientati in campi di concentramento non li ho letti e quindi non so rendermi conto delle loro qualità né posso dire se il livello sia uniforme o se qualcuno di essi spicchi, in qualche modo.
Su questo blog nei mesi scorsi si è spesso discusso della forbice che si è attualmente creata fra letteratura ‘alta’ ed elitaria e letteratura meramente commerciale e ‘di genere’, di come questa forbice sia stata parzialmente eliminata per quel che riguarda il noir italiano (penso a Lucarelli ma anche ad autori come Massimo Carlotto con il suo Perdas de Fogu, solo per citarne uno) ma risulti tuttora infinitamente aperta per il ‘rosa’.
La mia domanda è, perché invece di un ‘abbassamento di livello’ un romanzo sentimentale che sceglie come ambientazione storica il campo di concentramento non puo’ invece innalzare in qualche modo il genere letterario e portare alla riflessione un pubblico che magari da queste tematiche resta normalmente distante? Decidendo che questa è una ambientazione tabu’ per una trama sentimentale, non ricadiamo anche noi nelle temibili regole del romanzo rosa di Leonora Forneris? (sempre sia lode a Stefania Bertola).
Premetto che sottoscrivo totalmente le riflessioni della sempre puntuale Zauberei e di Francesca Violi: la scelta di usare un campo di concentramento come ambientazione, porta enormi responsabilità, si ha un grande debito etico nei confronti del periodo storico e il campo non puo’ mai essere solo sfondo ma deve permeare del tutto la storia, perché altrimenti il rischio di pornografia emotiva è enorme.
A rischio di suonare molto ingenua, pero’, non riesco a non vedere questo tipo di ambientazione come una grandissima potenzialità che non deve per forza essere persa. Quando a suo tempo lessi Maus e ne parlai con un mio conoscente, costui commento’ che si trattava di un fumetto ‘inutile e all’acqua di rose’ e che dopo Levi non si poteva che tacere sui campi di concentramento. Ecco, io non sono d’accordo. Innanzitutto, perché oltre che alla Storia raccontata dai sopravvissuti (perché ahimé i sommersi non possono che tacere), mi interessano le storie di coloro che il campo non lo hanno vissuto ma si ritrovano a rimettere assieme i pezzi della vita distrutta di qualcuno che ha vissuto l’orrore in prima persona. E, come seconda ragione ma non seconda per importanza, è inevitabile che ora che la generazione di uomini e donne che hanno vissuto sulla propria pelle l’Olocausto sta scomparendo, qualcun altro debba prendere in mano il testimone. Devono farlo solamente gli storici o possiamo augurarci che ci pensino anche gli scrittori e i registi popolari, perché il ricordo rimanga vivo anche alla base?
Onestamente non riesco ad augurarmi che non ci siano romanzi rosa ambientati nei campi di concentramento, se ben scritti e rispettosi della verità storica. Mi augurerei invece che ce ne fossero molti di piu’ (come anche molti piu’ noir, horror etc) ambientati negli anni di piombo, tanto per far si’ che qualche adolescente possa apprendere durante una lettura d’evasione che no, la strage di Bologna NON è frutto del terrorismo rosso (tanto per dirne una). Il programma scolastico di storia alle scuole superiori molto spesso non arriva al nostro passato piu’ prossimo, giunge solo poco oltre la seconda guerra mondiale – se la letteratura popolare potesse fungere da cuscinetto a questo iato, non sarebbe per nulla male.
Mi permetto di segnalare un piccolo libro uscito in questi giorni (Mattioli 1885), per la prima volta pubblicato in Italia: Un anno a Treblinka, di Y. Wiernick, polacco rimasto un anno a Treblinka e sopravvissuto (uno dei pochissimi) alla rivolta del 1943. Una cronaca terribile, scritta nel ’44 e tradotta in inglese nel ’45. Lunga vita agli editori che si adperano per perpetuare la memoria senza cedere alle lusinghe del mercato.
Prendo spunto dal commento di Barbara F, e riapro il filone con tanto ritardo, solo per precisare che La figlia dei ricordi di Sarah McCoy, pur parlando _anche_ di storie d’armore, di sicuro _non_ è ambientato in un campo di concentramento. In effetti, nessuna delle due protagoniste – doppia linea temporale che poi s’intreccia – è nemmeno una sopravvissuta. Una è tedesca e ha vissuto nella Germania di quegli anni, per poi trasferirsi negli Stati Uniti, e semmai attraverso il suo racconto si vive uno squarcio di quella realtà con gli occhi di una ragazzina “ariana”, come il pericolo di chi nascondeva un ebreo, tanto per fare brevi esempi.
Mi è parso giusto specificarlo per via del tono assunto dalla discussione.
Chiedo scusa se riprendo il discorso e spero che nessuno me ne voglia.
Voglio solo illustrare in due parole l’argomento del libro che ho tradotto, La sposa di Auschwitz, e non perché l’abbia tradotto io e quindi debba difenderlo a tutti i costi, ma semplicemente perché ne conosco meglio di altri ogni riga.
Il rosa qui è pressoché inesistente. Rabbia, rabbia, e poi ancora rabbia: questo il tema di fondo. Rabbia nei confronti dei tedeschi e di chi sapeva ma non ha mosso un dito, rabbia verso gli stessi ebrei che vendevano ai tedeschi i propri fratelli con l’illusoria speranza di essere risparmiati, e rabbia verso Dio per averli abbandonati. E, infine, solo il desiderio di abbandonarsi alla morte come unica via di salvezza.
Pamela Cologna