LA COMUNITA’ DI CHI LEGGE, IL DIRITTO DI CRITICA E QUALCHE PROBLEMA COLLATERALE

Ieri sera ho fatto una cosa che non si deve fare: sono intervenuta in un gruppo dedicato ai libri perché un’utente ha detto che non riesce a leggere King in quanto noioso, mentre i film tratti dalle sue opere non lo sono. Scava scava, è venuta fuori la solita questione del “vende troppo”. Riscava che ti riscava, qualche altra utente ha detto che non l’ha mai letto perché non le piace. “Non si deve per forza leggere i libri per conoscere un autore”, ha aggiunto. Mi fermo qui.
Il proliferare di questi gruppi, che è senz’altro cosa bella e utile, pone anche un bel po’ di questioni. E’ ovvio che ognuno ha i suoi gusti, e ho amiche e amici di grande cultura che si farebbero tagliare, se non un braccio, i capelli pur di non leggere King (quando la scelta è a prescindere,  ripeto di avere qualche problema: bisognerebbe leggere anche le cose che riteniamo lontane da noi, ma questo fa parte del regno di Utopia). Però mi colpiscono due cose: il pregiudizio su chi vende (è il bis di quanto è avvenuto, in altri termini e con maggiore risonanza, sull’incoronazione de L’amica geniale di Elena Ferrante da parte del New York Times) e, in modo più sottile, la facilità con cui si scambia, appunto, il gusto con il canone. E sorvolo su come e chi compilerebbe il canone medesimo.
Una decina di anni fa, per esempio, ci sorprendevamo dei giudizi su aNobii e sui social di lettura, dove si bocciava impietosamente La fattoria degli animali di Orwell («trama praticamente inesistente, libro pesante e noioso») o La montagna incantata di Thomas Mann («Mio Dio, succederà mai qualcosa in questo libro?»).
I lettori e le lettrici, ebbri di libertà, sovrapponevano tranquillamente l´io scrivente all´io leggente: “lo scriverei meglio” sembrava il non detto (a volte esplicitato) di molte critiche.  Oppure si improvvisavano editor. Commentatrice sul Ritratto di Dorian Gray: “Ha un buon soggetto ma è scritto in modo insopportabilmente lezioso”, o su L´amante di Lady Chatterley: “In alcuni punti estremamente inappropriato, come se ci fosse qualcosa fuori posto”.
Un bene o un male? Di sicuro, qualcosa di molto diverso rispetto al passato: laddove, nel bene, prende spazio un “noi” che include non solo il singolo o singola, ma la comunità di lettura in cui ci si muove, e addirittura, come diceva Enrique Vila-Matas, fa emergere la figura del lettore attivo, che “non si limita a consumare il libro ma lo completa”. E sicuramente rivendica per sé il diritto a non “consumare” un libro come una busta di patatine, che è cosa che dalla comunità leggente troppo spesso si vorrebbe.
Ma c’è anche il male. Che non è tanto il non riconoscere l’autorevolezza della critica (sorvolo anche su questo perché è faccenda lunghissima), ma  il non accettare i propri limiti. Non è che King (o Musil, o chivoletevoi) sia brutto, è che non fa per te.  Inoltre, a forza di mettere in primo piano gli utensili e di decidere quali passaggi andrebbero cambiati, l’emozione passa in secondo piano. E cosa è mai un libro (non ho scritto romanzo, attenzione) se non ti emoziona, nel senso più ampio del termine?
I libri, secondo me, sono una dichiarazione di libertà, una speranza nei confronti del futuro, come dice Margaret Atwood: chi scrive è ottimista perché immagina che qualcuno leggerà, nel tempo presente e futuro. Pretendere che quella libertà coincida con il sé è sicuramente legittimo e altrettanto sicuramente pericoloso. Ma questo, come è noto, non riguarda solo i libri.

 

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