LA COSA- 3 (E UN SINGOLARE PERCORSO)

Cammelli La "cosa" continua, e continua anche il Leroy-gate. Considerazioni a margine: i contenuti extra della vecchia intervista al medesimo, non utilizzati un anno fa per Repubblica e postati qui, sono tornati dal blog alla carta : sia con un pezzo della sottoscritta sul quotidiano di oggi (non on line, se volete è scaricabile qui:Download Leroy.doc ) sia con una ripresa della stessa intervista da parte de Il Giornale. Percorso singolare, che magari torna utile per riflettere anche sull’argomento principale.
Ovvero la “cosa”, ovvero ancora  l’inchiesta di Origine  sulla critica letteraria: siamo alla terza manche di risposte alla stessa domanda (la prima, sulla presunta morte della critica di cui sopra). Di domande, ovvio, ce ne sono altre: magari fra qualche giorno fornisco un secondo assaggio.

Jacopo De Michelis
L’annuncio della morte della critica è sicuramente falso, così come lo sono i ricorrenti necrologi del romanzo che si leggono sempre più spesso da un po’ di tempo a questa parte, ma non è del tutto tendenzioso. La critica letteraria non è morta, ma non gode nemmeno di ottima salute. E’ indubbio infatti che da tempo la critica letteraria tradizionale vive una crisi di identità e di ruolo, una delle cui principali cause è contenuta in questa affermazione di Giovanni Petronio: “al critico non interessa il lettore, il lettore comune, quello vero, che compra i libri, li legge, se li rimugina da sé, ne parla con gli amici, si sforza di capirli. Al critico interessano solo i suoi problemi, quelli suoi e di altri happy few”.

Loredana Lipperini

Più che un luogo comune è un lamento ciclico, come altri che attraversano la discussione letteraria (morte del romanzo, agonia delle narrazioni, di Calvino non ne nascono più e via a piacimento). Però: per quanto riguarda la critica così come l’abbiamo concepita fino a questo momento l’affermazione ha una sua ragion d’essere. Se non di morte, credo sia necessario parlare di una profonda trasformazione per quanto riguarda la sua funzione. Con un distinguo: se intendiamo il critico come colui che applica il proprio sapere allo studio e all’approfondimento di un testo letterario a scopo saggistico e didattico, evidentemente non soltanto non si può parlare di una sua scomparsa, ma non è corretto auspicarla. Se ci riferiamo al cosiddetto critico militante, a colui che utilizza quello stesso sapere sui media, ma non per informare quanto per “indirizzare” i lettori (e i cosiddetti lettori comuni, soprattutto) nel ristretto recinto delle letture esteticamente corrette, sento di poter azzardare che questa figura sta perdendo senso. Quando si parla di “passaparola”, e dell’importanza crescente che i lettori danno ai consigli dei propri affini (nel web, alla radio, altrove) piuttosto che a quella sorta di sacerdote laico con cui molti recensori, per primi, si identificano, ci si riferisce esattamente a questo.

Filippo La Porta
 La critica rischia di morire in quanto surrogata dagli uffici-stampa (sempre più aggressivi, invadenti: ti scrivono loro la recensione!) o sepolta nell’accademia. Ma esistono pur sempre critici militanti onesti e intelligenti, da Leonelli a Manica, da Onofri a Perrella, e a tanti altri… Anzi, vorrei sottolineare come alcuni libri di critica usciti in questi anni non sfigurano a confronto con i libri di narrativa: contengono più intelligenza, più immaginazione, vorrei dire più “stile”… Mi aspetto molto dalla nuova critica. Parafrasando poi lo studioso americano Roger Shattuck, che difende l’“innocenza”originaria della lettura contro ogni apparato critico e abuso di teoria”, potremmo dire che i nostri critici appaiono spesso più “ingenui” dei loro confratelli narratori. Mostrano di “credere” così tanto a quelle bugie del tutto gratuite (cioè senza frode e senza danno) che sono le opere letterarie che le trasformano in altrettante verità. Hanno una fede “ingenua” nell’esistenza della realtà (e infatti si propongono di risalire dalle opere alla realtà, per quanto essa sia inafferrabile) e di una ragionevolezza condivisa, che è poi quella – imperfetta, non sempre rigorosa – dello sforzo argomentativo, dell’interpretazione. 

Emanuele Trevi
La critica non è un’aggiunta, un supplemento al gesto artistico, ma qualcosa di connaturato alla produzione stessa delle forme. Non esiste una letteratura così antica e "pura" da non aver prodotto una critica. Omero nell’Odissea "critica" altri rapsodi come lui. Quello che muore sono le forme determinate della critica. Per esempio molti accademici lamentano la crisi della critica o la sua morte perché non capiscono che a morire è il saggio accademico con le sue note e i suoi op.cit. e ibid. e il suo gergo specialistico; o i giornalisti scambiano la presunta morte della critica con il fatto che le pagine culturali dei giornali fanno spesso schifo.

11 pensieri su “LA COSA- 3 (E UN SINGOLARE PERCORSO)

  1. Ricordo che ai tempi del liceo, dopo aver studiato vita e opere dei vari autori, si passava al paragrafo conclusivo: “fortuna critica”. Non c’era autore, nemmeno tra i grandissimi, che a seconda dei secoli non fosse salito e poi disceso, o disceso e poi risalito (si cfr. “le discese ardite/ e le risalite”, Lucio Battisti) sulle montagne russe della critica:-/

  2. Mi sta capitando, proprio in questo momento, di leggere “Guida ragionevole al frastuono più atroce” di Lester Bangs.
    Come direbbero in molti, Bangs non era un musicologo, forse era un critico musicale, sicuramente era una persona che si prendeva la responsabilità delle sue dichiarazioni e spiegava, a mio avviso benissimo, le sue prese di posizione.
    Immersa nella lettura, ho sviluppato un pensiero profondo: “Chi se ne frega dalla critica. Quello che pretendo sono recensioni serie”.
    Voglio qualcuno che abbia il coraggio di scrivere a caratteri cubitali che “the surrender” fa schifo e anche se ha venduto milioni di copie, affermare che prenderlo nel culo congiunge al divino, è una cazzata pazzesca.
    Voglio recensioni serie e non mi importa nulla che a scriverle siano dei critici o dei book-jockey. Non mi interessa il loro libretto universitario, ma la loro serietà, quella, sì.
    E voglio un book-jockey, esattamente come un dj, che passi i suoi pomeriggi in una libreria e non aspetti, seduto alla scrivania, il pacchetto in posta celere.
    E soprattutto voglio che qualcuno mi faccia sentire la passione per quello che sta facendo e non sia solo innamorato del suono delle sue parole.
    E mò, me devo dedicare al mio lavoro di book-jockey. Termine che mi piace molto, perché anche John Peel era solo un dj.

  3. Io, poi, vorrei spezzare una lancia per i vituperatissimi uffici stampa: ma come sarebbe che le recensioni “le scrivono loro”? Chi recensisce il libro si forma un giudizio autonomo che deve necessariamente prescindere da quello che è scritto nei comunicati o nelle alette. O almeno così dovrebbe essere, maledizione.

  4. Infatti… Scusa Filippo, ma se un recensore si limita a “ridisegnare” la scheda dell’ufficio stampa, non è il recensore stesso a trasformare la sua pigrizia in attitudine parassitaria? Poi certo… conoscendo l’invincibile natura parassitaria di certi recensori, gli uffici stampa cercano di scrivere (o di far scrivere…) nel migliore dei modi le schede promozionali.

  5. Secondo me quella di La Porta va letta come un’affermazione paradossale. Perché se non è vero che gli uffici stampa ti scrivono loro la recensione, è vero che a causa di un malinteso senso dell’efficienza alcuni (e sottolineo alcuni: c’è in giro addetti stampa che sono persone squisite e professionisti ammirevoli) ti stanno col fiato sul collo chiamandoti 5 volte al giorno, premono perché il pezzo esca nel primo numero disponibile del giornale, ti mandano copie omaggio di libri non richiesti (e ha ragione Ale C quando dice che i libri, preferibilmente, bisognerebbe comprarseli da sé e non aspettare che li scodelli il postino o il corriere), e quando un pezzo non esce (capita…) ti mandano piccate email. Per non dire poi di certi altri che se gli tocchi il loro autore (e, attenzione, NON in sede critica) ti mandano mail piene di livore. C’è forse un sovrainvestimento culturale di cui gli uffici stampa si vedono fatti carico (mi ricordo che Tiziano Scarpa una volta mi disse che Einaudi ormai ha più addette stampa che redattori…).
    Ciao!

  6. Dal pezzo di Loredana Lipperini:
    “Di qui, il primo libro, Close to the Bone. Di cui Leroy non mi parlò con entusiasmo: “La casa editrice Crown Publishing lo comprò quando avevo 16 anni: raccontava la vita di strada di San Francisco, di Portland, di Seattle, di Los Angeles. Non mi piaceva, non era quello che volevo esprimere. Non aveva humour: ero troppo vicino a quelle esperienze. Avevo bisogno di più tempo per maturare come scrittore. Quindi non scrissi per due anni, poi cominciai a scrivere di quello che sapevo, del West Virginia”.”
    Close To The Bone è un’antologia, non un romanzo, che contiene un racconto di JT Leroy quando ancora si faceva chiamare Terminator. Probabilmente le parole dell’autore facevano riferimento a tutt’altro.
    Che confusione. Che bell’articolo SERIO.

  7. cara loredana, gli uffici stampa sanno che alcuni critici sfogliano e basta.
    soprattutto in testate medio-piccole, o nelle redazioni decentrate dove la figura del critico coincide, a volte, con quella del cronista (redattore culturale) che si occupa, certo, di cultura, ma di un po’ di tutto…

  8. Roberto caro, ho forse nominato la parola “romanzo”? Leroy si riferiva esattamente a quella pubblicazione, mail alla mano.

  9. Piero, sulle mail piccate devo darti molta ragione 🙂
    Sambigliong, sia: ma la responsabilità non è degli uffici stampa, bensì dello sfogliatore.

  10. Alla critica manca solo in buonsenso, che ha perso da parecchio tempo comunque: un fatto vecchio, come il cucco.
    Se dovessi dipendere dalle mie tasche per leggere e criticare, ciccia… nemmeno una recensione per distrazione o assurdo sbaglio. Mi sa che qui si vada cercando la cuccagna, quella che si dovrebbe far manna dal cielo: ma non piove la manna, e la cuccagna è un palo che è unto di olio, peggio di quello inventato da Vlad Tepez. Ed allora lo si rifugge.
    I critici che sfogliano e che recensiscono dalle alette o dalla cartelle stampa li si riconosce lontano un miglio: sgamarli non è difficle affatto. Per quelli che poi non leggono affatto, ancora più facile.
    Se il critico ha letto il libro, ha bisogno di tempo per leggerlo, di conseguenza anche per scriverne positivamente o negativamente. Tutto qui. Un lavoro “artigianale”, da artigiano, quello del critico: che però sta scomparendo per colpa delle logiche di mercato, della pubblicità.
    g.

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