Cinque anni fa, Giovanni Arduino e io scrivevamo “Morti di fama”. Non me ne vorrete se posto qui l’incipit. Perché in cinque anni siamo andati molto, molto più avanti di quanto potevamo allora presagire.
NB: da domani a lunedì il blog non sarà aggiornato: sarò con Fahrenheit a Più Libri Più Liberi, come ogni anno.
Marta ha uno slogan, “una pubblicità che si crede una persona”. Prima di trovare la frase giusta, a dare il benvenuto ai visitatori del suo canale YouTube era una citazione da Machiavelli: “Ognuno vede quel che tu pari, pochi sentono quel che tu sei”. “Pensavo che fosse un modo tagliente – ci racconta – per dire che quella che vedevano non sono io”. Era il 2009: i capelli di Marta erano azzurro cielo con le punte fucsia e, invece del cappottino rosso con cui arriva al nostro appuntamento, indossava shorts scozzesi e occhiali a forma di cuore. All’epoca, quella che gli oltre due milioni di fan osservavano e commentavano mentre mangiava cupcake al limone non era Marta, ma la sua creazione, o per meglio dire il suo prodotto: Barbie Xanax, una delle più popolari web celebrity italiane.
Un prodotto, certo: perché Barbie, e Kiki, e Vicky e Clio e i vostri amici su Facebook, ma anche i vostri vicini di casa, ma anche voi che leggete e gli stessi autori di questo libro sono le versioni ridotte, ridottissime fino a essere identificabili con un solo individuo, dei vecchi brand-universo. Era il 2000, questa volta, e Naomi Klein raccontò quei brand, mettendoci in guardia, in No logo: ma in tredici anni siamo andati avanti, e non ci basta più desiderare di entrare – e alla fine entrare davvero, perché sottrarsi è difficile – nel meraviglioso universo di consumi promesso dallo swoosh di Nike e dalla mela di Apple. Tredici anni fa il baffo e la mela erano segni di riconoscimento, marchi incisi nella mente e a volte sulla pelle dell’acquirente: segni che erano chiavi per il paradiso, funzionali non solo per vendere scarpe e computer ma per creare un’appartenenza che ci rendeva felici di comprare quelle scarpe e quei computer per diventare membri della stessa vastissima élite.
Siamo andati avanti, sì: oggi il prodotto da vendere siamo noi. Non più le nostre parole, la nostra musica, le nostre fotografie: e nemmeno, semplicemente, la nostra faccia e il nostro corpo. Nel momento in cui siamo su Internet, rilanciamo tweet, rispondiamo alla domanda retorica di Facebook “come va oggi?”, postiamo un commento su YouTube, persino mentre apriamo la gmail di Google siamo, insieme, promotori di noi stessi e veicolo pubblicitario. Meglio ci promuoviamo, più le aziende saranno interessate a contattarci per promuovere anche i loro prodotti: in cambio, quasi sempre, di un piatto di lenticchie.
Siamo davvero andati avanti. Il No logo è diventato Me logo, un incubo in cui milioni di persone si trasformano in brand di se stessi: si esibiscono in battute che non fanno ridere, e che proprio per questo attirano visite su YouTube (se lo fa lui posso farlo anche io), si mettono lo smalto, cucinano biscotti, cantano, ballano, fanno sesso, dipingono, fotografano e scrivono. Purché tutto quel che fanno sia sempre più facile, purché venga incontro a chi guarda o chi legge. “Nella maggior parte dei casi – dice Marta – chi ti segue e ti commenta vuole semplicemente diventare come te. Famoso, secondo la loro idea. E più ti adula più vuole sostituirsi a te. Per questo vuole che tu ti renda simile. Un giorno sono stata rimproverata perché usavo parole troppo auliche: è saltato fuori che la parola “difficile” era “chirurgico”. Quello che ti si chiede, insomma, è abbassare sempre il livello. Solo così non sei minaccioso. Solo così puoi dire, tra le righe, che sei dalla parte della fama per caso, e che i tuoi fan possono prendere il tuo posto quando vogliono”.
Avanti, decisamente. Anche nel marketing, la parola d’ordine è un vecchio acronimo degli anni Sessanta, KISS, che sta per Keep it Simple, Stupid!, Falla semplice, scemo. Rendi il tuo testo, il tuo video, il tuo messaggio, quasi elementare, perché chi sta in rete (e non solo) non ha tempo, perché adocchierà solo le prime righe o ascolterà le prime parole prima di cliccare su “chiudi”. Nabisco, la ditta che produce i biscotti Oreo, ha capito come si fa: durante un incontro del Super Bowl si è verificato un black out (dunque, addio spot inseriti nell’evento televisivo). Il “Social media team” dell’agenzia 360i (quindici persone fra cui copywriters, pubblicitari, creativi di ogni sorta “allenati a reagire a ogni situazione in meno di dieci minuti”) si mette al lavoro e Oreo lancia il tweet “Power out? No problem. You can still dunk in the dark” (Manca la corrente? Nessun problema. Puoi ancora segnare al buio). 16.000 retweet e 6000 preferiti in pochi minuti.
Farla semplice significa, per esempio, diminuire le parole: da anni, in interviste e articoli, Tullio De Mauro cita la ricerca internazionale All (AdultLiteracyandLife Skills) sullo scivolar via delle competenze linguistiche. Per quanto riguarda l’Italia, il 5 per cento degli adulti è totalmente analfabeta, il 33 ha un possesso della lingua decisamente limitato e la maggioranza non è in grado di comprendere fino in fondo gli articoli di un quotidiano. “Solo una percentuale bassissima di italiani è in grado di orientarsi nella società contemporanea, nella vita della società contemporanea, non nei suoi problemi”, dice De Mauro. Dunque, ai sempre più rari lettori si forniscono storie il più possibile simili a quelle che quei lettori (che sono quasi tutti anche scrittori) stanno scrivendo. Lo sanno benissimo gli editori e soprattutto lo sa molto bene Amazon: basta uno sguardo alle classifiche degli ebook e si trovano misteriosamente in testa, nonché “consigliati dai lettori” ponderosi volumi fantasy autopubblicati su Youcanprint e tutti premiati con il massimo dei voti (cinque stelle) e decine di recensioni che ringraziano l’autore o l’autrice per il dono che li ha turbati, sconvolti, emozionati, daccene ancora. Vere? False? Probabilmente false: come molte di quelle che appaiono, sempre per quanto riguarda i libri, su aNobii. O, se passiamo al settore ristorazione e ospitalità, su TripAdvisor. O sui blog che parlano di cibo, di moda, di make up, di videogiochi, di fumetti, di prodotti per la prima infanzia, di detersivi. Lo vedremo più avanti. Quel che conta, però, è che il messaggio passa: falla semplice, e sarai premiato dal gradimento altrui.