Repubblica anticipa oggi parte dell’intervento di Michela Murgia in Parola di donna curato da Ritanna Armeni. Ve lo riporto.
Ho avuto la sfortuna di nascere quando il movimento delle donne non era più raggiungibile dalla mia posizione geo-anagrafica, se mai lo era stato. Negli anni ´80 l´eco delle voci femministe che invocavano rispetto e diritti si era già attenuata, mutando in discorsi complessi dentro stanze al di fuori delle quali lo si sarebbe udito in misura via via sempre minore.
La mia generazione intanto cresceva altrove, in un´altra ansa del tempo, attraversando la contraddizione senza riconoscerla. (…)
L´Italia era preda di una crescita economica ubriacante, che imponeva l´equivalenza tra vita e attivismo. Aprirono le palestre, perché il culto dell´efficienza aveva bisogno delle sue chiese. La produttività professionale divenne principio di senso, sfociando in arrivismo. Il benessere smise di essere uno stato dell´anima e divenne una merce acquistabile; la gioventù e la bellezza si scoprirono valori etici e il consumo assurse al rango di scopo finale dell´orgia sociale che fu quel decennio. Quella narrazione di mondo, benché profondamente mortifera, non aveva né poteva avere modelli di rappresentazione per la morte, se non in alcuni filoni di controcultura di nicchia. Il femminismo, se aveva riflettuto di morte, non ce ne aveva lasciato eredità. Restavano solo le collaudatissime traduzioni sociali degli imprinting religiosi del cattolicesimo, per i quali la morte è la conseguenza di una colpa ontologica. Una colpa, a voler essere precisi, tutta della donna.
(…) Per la donna c´era anche un´esplicita condanna a vita, alla vita, quella altrui a costo della propria, in una riproduzione compulsiva senza risparmio né possibilità di scelta. È stato così per secoli, finché le lotte femministe non hanno fatto a pezzi l´icona della donna fattrice. Gli anni 80 tradussero questo risultato civile in una rinuncia alla riproduzione tout court, perché la manutenzione ossessiva di sé sembrava già più che sufficiente.
Il debito ancestrale femminile non si può tuttavia eludere così. Aver stabilito che il dare la vita è una scelta e non un obbligo non cancella la colpa: la donna che non dà la vita resta in ogni caso un´addetta obbligata ai suoi aspetti problematici, quelli che più strettamente confinano con la morte: la malattia, la vecchiaia, la fatica e il dolore. È della natura femminile prendersi cura, dice la vulgata dell´unico paese d´Europa dove la donna è un ammortizzatore sociale; ma è solo un altro modo per ribadire che i difetti della vita sono i confini stessi della nostra colpa ontologica, l´unica che non sarà dimenticata in una civiltà che dell´oblio di sé ha saputo far cultura. Se dunque non vogliamo dare acriticamente la vita, occuparci del suo limite non solo è oblazione dovuta, ma va vissuta con l´aggravante paradosso di «non poter morire» a nostra volta, giacché non ci è permesso consumarci con dignità mostrando il nostro tempo. Non possiamo neanche invecchiare. Per questo di una donna che non nasconde i suoi anni si dice che sia «poco curata», rivelando come la «cura» in un mondo come il nostro non sia altro che la negazione del limite. L´uomo, il maschio, muore e lo sa; lo ha imparato da secoli di narrazioni che lo vogliono laicamente eroe, o religiosamente martire. (…) Ma per la donna la morte non è un luogo vivibile in prima persona, perché è ancora lo spazio della cura di qualcun altro. Nessuno ci ha raccontato che moriremo, ma solo che vedremo morire tutti. Dalla madre del crocifisso all´ultima delle vedove algerine, l´unica morte frequentabile è quella altrui, ai cui piedi piangere dolorose. Dopo aver lottato per non farci obbligare alla vita, la prossima battaglia sarà riprenderci la morte, la nostra.
Io do’ un’interpretazione del tutto diversa del mito dell’Eden: il serpente è stato un benefattore perchè ci ha dato la conoscenza del bene e del male, Eva ha fatto benissimo a mangiare il frutto proibito e ad offrirlo ad Adamo altrimenti avremmo “viaggiato una vita da scemi” come canta De Andrè in Un blasfemo. Il vero peccato sarebbe stato non mangiarlo.
@paolo
Non mi sembra di aver dato alcuna personale valutazione di merito sul risultato del libero arbitrio. Potrei pensarla come De Andrè o come mia nonna. Non cambia nulla.
Una notazione: “l’accudimento della malattia e della morte” sono state da sempre affidate alle donne, cui spettava la gestione dei corpi di chi era morto/a in vista della sepoltura, almeno nelle culture che io conosco (occidentali e mediterranee), e in questo senso l’autrice ha ragione. Forse proprio oggi le cose stanno cambiando, dato che tra coloro che prestano assistenza professionale o volontaria a malati/e e morenti ci sono anche uomini. Per quanto mi riguarda, mia madre, per sua fortuna, è morta in casa propria, ed il suo accudimento post-mortem è stato agito da tre donne, forse non è un caso. Per quanto riguarda invece i modelli culturali esemplari di morti femminili, è vero che le manifestazoni di tali modelli in età moderna/contemporanea rimandano per lo più alla sfera privata (opera, romanzo) e sono pochi gli esempi di morti a valenza “civile” o “pubblica” o “politica”, se volete, a cominciare dall’esempio “alto” di Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordato da Paolo. Il fatto è che, se anche ce ne sono altri, e molti altri, questi esempi non sono stati valorizzati, non hanno funzionato da modello, o no? Mentre riamane ben saldo lo stereotipo della morte eroica (in senso civile, politico) per i maschi. Per quanto riguarda “morti di sante e martiri donne”, la loro funzione a partire dalla tarda antichità e dal mediovo, in rapporto agli “exempla” costituiti dalle “morti di santi e martiri uomini”, bisognerebbe studiarsela. Interessante, ma di primo acchitto direi che in questo campo gli elementi “sessisti” coesistono con gli elementi “paritari”. Ciao a tutte e a tutti 🙂
@paolo 1984: vedo adesso il tuo ultimo commento, direi che la pensi come molti “padri della chiesa”, per i quali l’atto di Eva è stato una “felix culpa”, che avrebbe permesso all’umanità di dotarsi della facoltà di distinguere il bene dal male, e di dare avvìo al processo della “salvezza” dell’umanità. Dante la mette in paradiso, come vedi sei in compagnia. Ma qui siamo fuori tema :).
Trovarmi in compagnia dei Padri della Chiesa, per un agnostico tendente all’ateismo come me, è alquanto inaspettato. Comunque ti ringrazio, paola, per le informazioni.
@Paola
a me risulta che le confraternite della morte erano composte solo da maschi, che l’accompagnamento religioso (cattolico) era gestito da uomini e che uomini erano i medici. Dove le hai trovate – lo dico senza polemica, è proprio una domanda domanda – tutte ste donne prese ad occuparsi dell’altrui morte?
“uomini erano i medici”
anche qua mi piace ricordare una eccezione, quella delle mulieres salernitanae, le Dame della Scuola Medica di Salerno, il primo istituto medico d’Europa, istituzione culturale del Medioevo che, caso raro e forse unico, non era controllata dalla Chiesa e secondo molti prima università d’Europa o comunque antesignana delle università moderne.
Anche le donne potevano frequentarla e la frequentavano come studentesse e insegnanti, tra le Mulieres Salernitanae vi sono Trotula de Ruggiero, Rebecca Guarna e Abella Salernitana. Le informazioni su di loro sono poche, di Trotula c’è anche chi mette in dubbio la storicità, ma l’esistenza della Scuola Medica di Salerno e il fatto che fosse aperta anche alle donne è comprovato.
@barbara, io parlavo del ruolo delle donne di accudimento del corpo di chi è morto/a, del cadavere, per dirla meglio. Anch’io ho pensato ai “fratelli della buona morte”, ma li ho subito esclusi appunto perché non si occupavano della manipolazione materiale del cadavere, ma di altri aspetti “istituzionali”, che riguardavano la celebrazione di un funerale “valido”, corteo funebre, sepoltura, orazioni etc. etc. per coloro lche non disponevano di mezzi tali da permettere la celebrazione di un funerale “degno”. Il prete, poi, si colloca ad un livello istituzionale ancora più elevato e smaterializzato. E certo che uomini erano i medici, ma qui stiamo parlando della morte, non della cura. Grazie Paolo :), ma gli esempi che citi, e il fatto stesso che si possano contare sulle dita di una mano, dimostrano che le donne ai piani alti, per lo più, non potevano accedere.