Non c’è narrazione in cui non parli del terremoto del 2016. Questa è la ferita, e qui il racconto. A due giorni da questa strana uscita, un brano dal primo capitolo de La notte si avvicina.
Al tempo della botta grande erano fermi sulla curva, davanti all’edicola con la Madonna dell’Uccelletto, e qualcuno, tremando di freddo e di paura, diceva che avrebbero dovuto mettere al suo posto la statua di Sant’Emidio, che protegge dai terremoti come tutti sanno, e non l’immagine di una Madonna, per di più con la pelle scura, solo perché un tempo aveva difeso il paese dalla peste, ma adesso che la peste non esisteva più non serviva a niente, mentre i terremoti, quelli, tornano sempre, avevano appena finito di ricostruire, stavano tirando il fiato dopo la sberla di venti anni prima ed ecco che era di nuovo tutto a terra. Qualcun altro aveva replicato di portare rispetto, e aveva aggiunto che i santi e la Madonna devono rimanere dove la saggezza degli antichi li aveva collocati, e infine aveva ricordato a tutti quello che si era sempre saputo, ovvero che finché l’edicola fosse rimasta in piedi la peste non sarebbe tornata, ed era appunto per quello che la peste stessa non esisteva più.
Era un bene che litigassero, aveva pensato allora Saretta. Litigare portava via i pensieri, li allontanava, almeno per un po’, da quello che era successo, e che dovevano imparare ad accettare: dovevano ricominciare da capo, un’altra volta, ripartendo da quell’alba di cenere e freddo, sulle spalle i mantelli dorati delle coperte termiche, i piedi ghiacciati nelle pantofole che avevano infilato nella corsa notturna, senza riuscire a centrare subito la porta che si spostava per le scosse come al luna park, i bicchieri che scivolavano uno dopo l’altro dalle mensole per infrangersi sul pavimento. Quando i soldati avevano insistito perché si accomodassero sotto il tendone – quello alle loro spalle, quello blu, certo, dovevano ripararsi, il tempo minacciava ancora pioggia -, nonostante tutto erano rimasti davanti alle transenne. Anzi, come se non avessero sentito l’invito, avevano chiesto, con la voce sottile per lo shock, quando sarebbero potuti rientrare a casa, solo un momento, si capisce, giusto per prendere una giacca pesante, un paio di scarpe, e magari infilare in borsa, ma questo non lo dicevano, la fotografia dei figli bambini o quella delle nozze, e già che c’erano recuperare la bustina con l’oro dall’armadio, perché va a finire sempre così, l’esercito ti tiene lontano da casa tua e arriva qualcuno a prendersi quello che ti è rimasto, magari sono pure d’accordo, non c’è più da fidarsi di nessuno.
Questo accadeva vent’anni fa, nel 1988. Il tempo, da allora, si era ingrossato come un fiume, aveva fatto turbinare One in a Million (qualcuno aveva litigato, per quella strofa sui froci e sui negri dei Gun’n’Roses, qualcun altro aveva detto ma no, poi lo spiega, non è che un ragazzo bianco di provincia, lui gli estremisti e i razzisti li odia, senti qui) e People Have The Power, e le correnti avevano trascinato, insieme, il cuore dell’assistente di volo precipitata a Lockerbie che prima di fermarsi batte per dieci minuti dopo l’esplosione dell’aereo e la diretta televisiva dell’esecuzione dei coniugi Ceausescu, trasmessa poi ogni Natale inclusa la maledizione finale di Elena, “andate tutti all’inferno”, e nei gorghi girava e si perdeva tutto il resto, il primo telefonino, la prima ricerca su Internet (sull’albergo in cui morì Janis Joplin), la foto del moribondo con l’Aids, i violoncellisti e gli innamorati, il do sovracuto di Freddie Mercury e le segreterie telefoniche piene dei messaggi dei morti delle torri gemelle.
Quando l’acqua si ferma, e si ferma oggi, ci sono loro, ancora una volta immobili davanti a una transenna, e certamente più vecchi di vent’anni, e adulti con famiglia se allora erano bambini, e certamente qualcuno è rimasto a dormire sul fondo del fiume. Il paese è lo stesso di sempre, una striscia che si allunga fra le montagne, la stessa strada lo percorre da Nord a Sud e i vicoli si arrampicano verso l’alto o scendono fino agli argini, come sempre. E’ facile circondarlo, è facile chiudere fuori chi vuole entrare, ancora più facile chiudere dentro chi vuole fuggire.