L'ANNO DEL GEMELLAGGIO ITALIA-UNGHERIA

Me lo hanno chiesto, dopo la trasmissione di venerdì scorso, e lo pubblico volentieri. E’ un intervento di Péter Esterházy del 2004. Prima però, ricordo che il 2013 è l’anno del gemellaggio culturale tra Italia e Ungheria. Prima ancora ricordo quel che è stato segnalato giovedì scorso sulla richiesta di sospensione spirituale della cittadinanza a tre scrittori ungheresi. E segnalo (notizie si trovano su Nepszabadsag e Kurier) che da parte di alcuni intellettuali austriaci è stata inviata una lettera aperta a  Zoltan Balog , ministro delle risorse umane ungherese, per chiedere libertà di cultura. L’iniziativa è del direttore del Burgtheater di Vienna e nella lettera collettiva i vari artisti esprimono autonomamente il proprio pensiero. Così il premio Nobel per la letteratura Elfriede Jelinek: “Il teatro ungherese aveva fatto molto per l’immagine positiva dell’Ungheria perché finora è riuscito a far vivere nei suoi teatri tutte le potenzialità di un ambiente culturalmente stimolante. Questa è la tradizione che ora viene distrutta da alcuni miopi potenti, che mescolano la cultura con motivazioni nazionaliste. L’influenza della politica sull’arte, le regole ideologiche, la censura fanno perdere non solo le energie feconde di un paese, che diventa così più povero, ma rafforzano tendenze violente contro le minoranze”. Così il regista e sceneggiatore Michael Haneke: “Non si tratta di una questione tra destra e sinistra, la libertà d’espressione e la libertà dell’arte sono valori e diritti universali . Gli stati che ignorano tali diritti oppure li ostacolano con censure esplicite o latenti non possono essere considerati democrazie“. Così lo scultore e fotografo Erwin Wurm: “Vorrei un teatro ungherese che possa liberamente utilizzare le risorse economiche fornite senza dover seguire diktat politici. Perciò chiedo che il governo ungherese cambi il proprio modo di agire e di pensare e che cerchi di avvicinarsi a queste problematiche in modo democratico a illuminato”. . Così il drammaturgo Ewald Palmetshofer: “Preoccupato chiedo, anzi pretendo che il governo ungherese smetta di aggredire le istituzioni culturali che osano opporsi all’ideologia imperante. Il dovere della politica è solo quello di assicurare il funzionamento dei teatri e tenersi lontana da ogni altra questione. Solo le dittature interferiscono nella vita artistica”.
E così, infine, nel 2004, Péter Esterházy (ah, e l’Italia?).
“Quando circa 30 anni fa mi sono guardato attorno per la prima volta nella letteratura ungherese – e non si poteva non guardarsi attorno nella dittatura – ho visto mostruosamente tanta serietà, la serietà falsa fino al midollo del potere, e una tradizione letteraria degna di rispetto che prendeva sul serio soprattutto se stessa, i propri compiti morali, perché forse in una dittatura non si può proprio non prenderli sul serio. Ad ogni modo avevo la sensazione che ciò non corrispondesse alla mia costituzione. In questa plurima serietà non era difficile essere non seri, non seri in modo costruttivo. Deridere la dittatura è in realtà un compito facile. Moralmente triviale, voglio dire: noi siamo i buoni, loro sono i cattivi, professionalmente – be’ , lì un po’ di lavoro c’ è, la maggior parte del quale è teso ad evitare l’ autocommiserazione. Ma tutto sommato è facile, perché deridiamo l’ altro. E infatti era rara la risata, lì, nella metà degli anni Settanta erano ben pochi quelli che ridevano. L’ elogio della pigrizia e della frivolezza. Magari avessimo un vero buon scrittore frivolo. Ma i frivoli sono sempre cattivi, mentre i buoni sono tutti seri. Maledettamente seri, in fondo al cuore sono dei moralisti un poco altezzosi. Sembrerebbe che un piccolo paese come questo possa avere solo scrittori frivoli scadenti o medi, ma mai un vero, coraggioso buon scrittore frivolo. Nei miei momenti ambiziosi questo era il mio desiderio segreto: diventare un vero, coraggioso, buon scrittore frivolo. (~) La serietà naturalmente mi è venuta in mente a causa della serietà del Premio per la Pace. Il premio per la pace dei librai tedeschi. Ai librai io riesco a pensare solo romanticamente. Oggigiorno tutto ciò che è in rapporto ai libri ci piace chiamarlo eccezionale, eroico. E senza speranza. è eccezionale ed eroico scrivere un libro, è eccezionale ed eroico pubblicare un libro. E naturalmente è eccezionale ed eroico vendere un libro; vero, eppure il buon libraio presenta questo vero eroismo come naturale. Cioè non persegue una missione culturale, ma svolge il proprio compito come una persona che ama e capisce il proprio lavoro. Tutti i giorni festa – è la mia romantica immagine di questo mestiere. E quindi da qui, dal “posto della parola”, ringrazio ogni libraio, tutti i librai del mondo, dal Polo nord al Polo sud – a malincuore perfino quelli che non hanno mai venduto nemmeno un mio libro. Cosa che naturalmente disapprovo profondamente e non ritengo un esempio da seguire. Quando più di mezzo secolo fa uomini e donne tedeschi hanno fondato questo premio tutti sapevano ancora con esattezza che cos’ è la pace e che cos’ è la guerra. Non c’ era bisogno di ripensarci, non c’ era bisogno di bandire concorsi per le definizioni più ingegnose, non c’ era bisogno di meditare comodamente se la mancanza di pace avesse la forma della pace o piuttosto la forma della guerra e che la mancanza della guerra sicuramente non avesse la forma della pace – tutto ciò non era necessario, bastava che il corpo, che le cellule ricordassero. A volte il corpo è più saggio dell’ anima. Io non ho conosciuto lo sgomento della guerra, io conosco solo lo sgomento della pace. Sono un figlio della pace, che non ha mai fatto niente attivamente per la pace. Che ogni tanto – è anche una questione di fortuna – ha deriso la dittatura. In momenti ancora più fortunati: ha deriso anche se stesso. Sono nato nel 1950, per così dire post festum. E se volessi farmi un’ immagine su com’ era il mondo nel 1945, cosa significava allora vivere in Germania, com’ era quel miscuglio di caos, mancanza di speranza e puzza di cadaveri, com’ era il freddo spavento senza gioia della sopravvivenza, dal quale si può leggere la natura della guerra, quel sentimento di estraneità e caduta nel peccato – allora sceglierei un autore che di sicuro non ha potuto ricevere il Premio per la Pace: Louis-Ferdinand Céline. Che uomo di merda e che grande scrittore! Céline ci ricorda anche che la letteratura non è autrice di pace, e che la letteratura non può essere utilizzata in modo così diretto – nonostante ci sia continuamente una grande tentazione a farlo: utilizzarla per il bello e il buono, pensarla ponte tra i popoli e le culture, come se due popoli, sulle cui mensole si trovano gli stessi libri, non potessero ammazzarsi a vicenda. A pensare perfino che chi legge è una buona persona. (Per non parlare di chi scrive). Ma la lingua della letteratura non è la lingua della comprensione, bensì quella della creazione. Fare qualcosa dal niente – non è attività da gentiluomini. La letteratura non è un animale domestico, in teoria non è addomesticabile. La letteratura non esiste per i premi letterari. La letteratura non appartiene all’ equità, non appartiene alla tolleranza, è invece della passione, dell’ amore. L’ amore non è una forza di costruzione sociale, non è abbastanza affidabile. La letteratura non è una messaggera di pace; se è messaggera di qualcuno, allora lo è della libertà. E la libertà vuole a volte la pace, a volte la guerra. (~) La lista dei premiati a prima vista mi ha stroncato. L’ avevo guardata male. Perché questa lista non è la lista della vanità, non parla di chi vi è presente e di chi non lo è. Questa lista afferma innanzi tutto l’ esistenza di una simile lista, che non è quindi solo una lista di bestseller, ma è accordo comune, ossia tradizione. Tutto ciò è sempre meno ovvio. Sebbene la lista non dimostri direttamente la presenza di una spiritualità europea, tuttavia ricorda fortemente e autenticamente questa spiritualità. Ed è questo ricordo che rende possibile la scrittura, che mi rende capace di mettere per iscritto una parola. Mi sarebbe difficile spiegare in poche parole perché scrivo – Sandor Petofi e Sartre avevano risposte migliori a questa domanda – ma la possibilità della scrittura è data da ciò. (Traduzione: Dora Varnai)

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