LE MADRI, RECALCATI E I DUE LIOCORNI

Fin qui, nel bestiario dellla maternità, avevo scoperto mamme elefante, orso, tigre, pecora e scimmia. Grazie a Massimo Recalcati, il cui articolo uscito il 28 febbraio su Repubblica è riportato qui sotto, ho scoperto anche la mamma-coccodrillo. In attesa che si arrivi per sfinimento alla mamma-liocorno, e che dopo, magari, si lasci perdere il parallelismo animale, solo un paio di considerazioni.
La mamma-narciso, variante contemporanea della mamma-coccodrillo, sembra infilarsi, certo non consapevolmente da parte di Recalcati, nel filone “state al vostro posto”. Un paio di giorni fa Costanza Miriano proponeva il seguente distinguo:
“L’uomo crea la scienza, la filosofia, l’arte ma altera tutto con l’obiettivazione della verità organizzata. Il forte della donna è la generatività, non la creatività. La donna col suo pensiero è il criterio per correggere l’astrazione (e infatti le femmine sono più brave a scuola perché si insegna un pensiero femminile)”.
Ora. Che il narcisismo sia una patologia della contemporaneità è cosa certa. Che la maternità narcisa sia, al solito, fonte di catastrofi che ricadranno sulla  prole, è cosa che va a rafforzare il concetto di Miriano: la mamma è quella che genera, ergo i guai vengono da lei. Alla faccia della miriade di padri e di adulti narcisi in cui ci imbattiamo ogni giorno.
Perché sono le madri a venir prese di mira? Perché, come scrive, l’antropologa francese Françoise Héritier, “Ancora oggi è diffusa la convinzione che la principale funzione sociale delle donne sia quella riproduttiva e domestica. Non si può lottare contro un nemico che non ha volto”.
Basti pensare alla retorica pubblicitaria che circola nell’imminenza della festa della mamma, come quella che gronda dalla pagina Facebook di Procter&Gamble (non ve la ricordate? Meme azzurri con scritta bianca da condividere. Grazie per il tiramisu alle fragole. Ti assicuri che abbia sempre mangiato. Mi hai regalato la vita. Mi hai fatto diventare chi sono. Mi hai sempre protetto. Mi svegliavi cantando. Mi organizzavi le feste di compleanno più divertenti. Sei sempre pronta a sorridermi. Non hai mai chiesto nulla in cambio).
Basti pensare, se si preferiscono i numeri, ai dati del rapporto IARD riportato da Irene Biemmi in Educare alla parità. Dati dove, con non troppo stupore, si apprende cosa i giovani maschi pensano:
-è soprattutto l’uomo che deve mantenere la famiglia (41,8%)
-per l’uomo, più che per le donne, è importante avere successo nel lavoro (46,8%)
-una donna è capace di sacrificarsi per la famiglia molto più di un uomo (65,7%)
-in presenza di figli piccoli è sempre meglio che il marito lavori e la moglie resti a casa a curare i figli (65,8%)
-la maternità è l’unica esperienza che consente la completa realizzazione della donna (47,7%).
La cosa impressionante è che le giovani donne non la pensano molto diversamente. Sul sacrificio le convinzioni femminili superano quelle maschili e vanno oltre il 74%.
La mistica del materno riemerge in un momento in cui le madri,  come scriveva un’altra sociologa,  Anna Laura Zanatta, sono ancora più sole: “proprio perché avere figli non è più un destino obbligato, si rileva un diffuso senso di inadeguatezza, di ansia, di insicurezza di fronte alle responsabilità legate al diventare genitori, percepite, correttamente, come più complesse e impegnative rispetto al passato”. E all’incertezza esistenziale corrisponde una richiesta di sacrificio reale. I dati ci dicono ancora che quasi la metà delle madri ricorre al part time, quasi il cento per cento somma alle ore trascorse in ufficio quelle spese per casa, figli, famiglia, genitori anziani, un quinto delle donne lascia l’impiego dopo la nascita o per scelta o perché licenziata (la maggioranza desidera tornare a lavorare).
E’ come se quella figura naturalmente generativa avesse oscurato tutto il resto, e il resto è moltissimo. Soprattutto per quanto riguarda la minima percentuale di padri che ricorre al congedo parentale:  eppure è questo il punto centrale, perché la rivoluzione dei padri, il modo in cui la loro immagine e il loro ruolo sta cambiando, è stata velocissima, e potrebbe esserlo ancora di più se venisse riconosciuta e sostenuta. Quante volte lo hanno ribadito non solo filosofe, ma analisti economici e sociologi? La parità fra i sessi sarà realizzabile solo quando ci sarà una condivisione assoluta del lavoro domestico e di cura e un adeguamento delle politiche sociali alla nuova condizione delle donne e degli uomini.  Fino a qualche tempo fa pensavo che  la strada fosse ancora in salita. Da ultimo comincio a temere che la stiamo ripercorrendo all’indietro.
Massimo Recalcati su Repubblica del 28 febbraio
Nella cultura patriarcale la madre era sintomaticamente destinata a sacrificarsi per i suoi figli e per la sua famiglia, era la madre della disponibilità totale, dell’amore senza limiti. I suoi grandi seni condensavano un destino: essere fatta per accudire e nutrire la vita. Questa rappresentazione della maternità nascondeva spesso un’ombra maligna: la madre del sacrificio era anche la madre che tratteneva i figli presso di sé, che chiedeva loro, in cambio della propria abnegazione, una fedeltà eterna. È per questa ragione che Franco Fornari aveva a suo tempo suggerito che i grandi regimi totalitari non fossero tanto delle aberrazioni del potere del padre, ma un'”inondazione del codice materno”, una sorta di maternage melanconico e spaventoso.
La sicurezza e l’accudimento perpetuo in cambio della libertà. Sulla stessa linea di pensiero Jacques Lacan aveva una volta descritto il desiderio della madre come la bocca spalancata di un coccodrillo, insaziabile e pronta a divorare il suo frutto. Era una rappresentazione che contrastava volutamente le versioni più idilliache e idealizzate della madre. Quello che Lacan intendeva segnalare è che in ogni madre, anche in quella più amorevole, che nella struttura stessa del desiderio della madre, troviamo una spinta cannibalica (inconscia) ad incorporare il proprio figlio. È l’ombra scura del sacrificio materno che, nella cultura patriarcale, costituiva un binomio inossidabile con la figura, altrettanto infernale, del padre-padrone. Era la patologia più frequente del materno: trasfigurare la cura per la vita che cresce in una gabbia dorata che non permetteva alcuna possibilità di separazione.
Il nostro tempo ci confronta con una radicale trasformazione di questa rappresentazione della madre: né bocca di coccodrillo né ragnatela adesiva né sacrificio masochistico né elogio della mortificazione di sé. Alla madre della abnegazione si è sostituita una nuova figura della madre che potremmo definire “narcisistica”. Si tratta di una madre che non vive per i propri figli, ma che vuole rivendicare la propria assoluta libertà e autonomia dai propri figli.
L’ultimo capolavoro del giovanissimo e geniale regista canadese Xavier Dolan titolato Mommy ( 2014) mostra il passaggio delicatissimo tra l’una e l’altra di queste rappresentazioni della maternità. Per un verso la coppia madre-figlio del film assomiglia alla coppia simbiotica tipica della patologia patriarcale della maternità: non esiste un altro mondo al di fuori di essa, non esiste un terzo, non esiste padre, non esistono uomini, non esiste nulla. È una negazione che il regista trasferisce abilmente in una opzione tecnica traumatica: le riprese a tre quarti — l’assenza di fuori campo, come ha fatto notare recentemente Andrea Bellavita — evidenziano un mondo che non conosce alterità, che non ha alcun “fuori” rispetto al carattere profondamente incestuoso di questa coppia. Ma è l’atteggiamento finale della madre che risulta inedito rispetto alla rappresentazione sacrificale del desiderio materno. Ella non trattiene il figlio problematico (la diagnosi psichiatrica lo classifica come “iperattivo”), ma — seppur contraddittoriamente — vorrebbe liberarsene. Il suo desiderio non è più quello rappresentato dalla madre-coccodrillo e dalla sua spinta fagocitante, ma quello di risultare, come afferma in una battuta finale, «vincente su tutta la linea »; per questo decide di affidare il figlio intrattabile ad una Legge folle che prescrive il suo internamento forzato.
La madre descritta in Mommy rappresenta il doppio volto della patologia della maternità: da una parte l’eccessiva presenza, l’assenza di distanza, il cannibalismo divorante, dall’altra l’indifferenza, l’assenza di amore, la lontananza, l’esaltazione narcisistica di se stessa. Il problema della madre narcisista non è più, infatti, quello di separarsi dai propri figli, ma di doverli accudire; non è più quello di abolirsi masochisticamente come donna nella madre, ma vivere il proprio diventare madre come un attentato, un handicap, anche sociale, al proprio essere donna.
La spinta divoratrice della madre-coccodrillo si è trasfigurata nell’ossessione per la propria libertà e per la propria immagine che la maternità rischia di limitare o di deturpare. Il figlio non è una proprietà che viene rivendicata, ma un peso dal quale bisogna sgravarsi al più presto. Si tratta di una inedita patologia (narcisistica) del materno. Ne avevamo avuto un’anticipazione significativa in altri film, come Sinfonia d’autunno (1978) di Ingmar Bergman e Tacchi a spillo di Pedro Almodovar (1991), o, in una forma ancora più traumatica, in Mammina cara (1981) di Frank Perry, tratto dalla biografia dell’attrice Joan Crawford scritta dalla figlia adottiva che fornisce il ritratto di una madre instabile e totalmente immersa nel proprio fantasma narcisistico.
In essi emerge una rappresentazione della maternità profondamente diversa, ma egualmente patologica, da quella imposta dalla cultura patriarcale. Si tratta di donne che vivono innanzitutto per la loro carriera e, solo secondariamente e senza grande trasporto, per i loro figli. In gioco è la rappresentazione inedita di una madre che rifiuta (giustamente) il prezzo del sacrificio rivendicando il diritto di una propria passione capace di oltrepassare l’esistenza dei figli e la necessità esclusiva del loro accudimento.
È il dilemma di molte madri di oggi. Il problema però non consiste affatto in quella rivendicazione (legittima e salutare anche per gli stessi figli), ma nell’incapacità di trasmettere ai propri figli la possibilità dell’amore come realizzazione del desiderio e non come il suo sacrificio mortifero. Se la maternità è vissuta come un ostacolo alla propria vita è perché si è perduta quella connessione che deve poter unire generativamente l’essere madre all’essere donna. Se c’è stato un tempo — quello della cultura patriarcale — dove la madre tendeva ad uccidere la donna, adesso il rischio è l’opposto; è quello che la donna possa sopprimere la madre.

12 pensieri su “LE MADRI, RECALCATI E I DUE LIOCORNI

  1. “L’ossessione per la libertà, che la maternità rischia di deturpare” “Il rischio è che la donna possa sopprimere la madre” Non capisco di quale mondo sta parlando Recalcati… le donne italiane vorrebbero PIU’ figli di quelli che fanno, spesso vi rinunciano perché le condizioni al contorno rendono la maternità reiterata una cosa che mette a rischio non certo chissà quali mirabolanti carriere, ma la capacità della famiglia di sopravvivere: di pagare il mutuo, di mantenere il primo figlio. E’ questo per me “il dilemma di molte madri oggi”, madri ma anche padri eh.
    “Il figlio non è una proprietà che viene rivendicata, ma un peso dal quale bisogna sgravarsi al più presto” : parlo da profana totale, ma a me questo non sembra affatto la mentalità né lo stile di accudimento dominante o emergente delle donne italiane… né per quel che vedo nella vita quotidiana, né tantomeno nel discorso mediatico. Quindi ribadisco, non capisco a che contesto si riferisce Recalcati.

  2. La ‘madre coccodrillo’ è una figura storicamante presente nella clinica e nella narrazione teorica di Lacan. Nel suo primo insegnamento è la funzione paterna a dover frenare questa sua tendenza all’invasività e presenza totalizzante verso il figlio. Ma non è questo il punto. ll punto è il ritorno, attraverso queste iperboli, di tendenze conservatrici celate dietro argomentazioni cliniche. L’esempio sopra riportato, come lo fu a suo tempo l’assenza dei padre divenuto un mantra, a volte sembra non tenere conto delle donne, delle madri. Quelle ‘la fuori’. Cioè la stragrande maggioranza dei quelle che noi vediamo nelle nostre città, nei nostri studi. A Scuola, o altrove. Già in sè categorizzare nasconde un pernicioso e temibile aspetto: quello di omologare, ( medicalizzare)? dimenticando la lezione principe di Lacan. Non esistono ‘le donne’, ma le donne una ad una. Una per una. In questo l’articolo si muove nella stessa logica di alcune, poche, associazioni femminili-femministe. La ‘radicale trasformazione succitata’, non a caso ritrovata in vari film, risponde alla logica dell’inquadramento generalisitico. Donne narciso che scelgono di non interessarsi nei figli esistono da sempre. Ma un tempo come ora, non sono nè una tendenza, nè una nuova categoria. Sono a volte l’espansione indebita del punto di vista di un analista, che vede come il mondo dal pertugio del suo studio. Sino al punto di credere che il pertugio sia il mondo.Come quel padre assente, la cui argometazione pareva nascondere, tra i desiderata, un ritorno voluto ed implorato. La realtà è inifinitamente piu’ complessa di una o piu’ ‘radicali trasfrmazioni’ che sono sovente il punto nel quale si mira, prendendo , come dice Albers a proposito de La Nausea di JPS, ‘di mira quel punto, e nessun altro’

  3. C’entrerà qualcosa il progressivo ritorno di Recalcati a quel rassicurante cattolicesimo dal quale, negli anni in cui marinava la scuola e faceva il sovversivo, aveva preso le distanze per farsi traviare da Deleuze e Guattari? Misteri (ma anche ovvietà) del lacanismo e dei lacaniani…

  4. Io credo che l’articolo di Recalcati non sarebbe affatto male se non ci fossero alcune questioni. Non credo che sia così tanto reazionario da vedere la libertà della realizzazione di se delle donne contro la possibilità di avere dei figli. E l’incremento di questa forma patologica si anche io la osservo, anche se si materializza per strade personali e individuali che sono molto complicate da spiegare qui. Ma insomma storie personali e fantasmi interni trovano collusioni psichiche perniciose in una svalutazione forte della relazione e della genitorialità in questo paese per entrambi. Però non è così semplicina la cosa, per cui diventi mamma coccodrilla per moda via, ma perchè un assetto patologico trova nella moda le sue parole. Cioè la questione non è solo l’organizzazione materiale del contesto (domande sulle intenzioni delle dipendenti in fatto di gravidanze volte a decidere se è il caso di rinnovare loro il contratto, forme di mobbing al rientro dall’allattamento…. a voja a jobs act)
    Le generalizzazioni sono sempre pericolose, ma sono anche suggestioni legittime. Quando per amor di predicozzo e di seduzione mezzo stampa si preferisce lasciare nell’ombra degli addetti ai lavori le logiche intrapsiche che colludono con i suggerimenti culturali beh allora è chiaro che tutti pensano che stai veicolando un discorso politico con l’alibi della tua formazione. Ma secondo me, se gli analisti parlano sulla stampa devono scrivere di cose analitiche. Se no è meglio che si stiano zitti.

  5. Il livello della mia riflessione sfiora la banalità, ma mi pare importante sottolineare quella differenza di prospettiva che emerge anche nel commento di Costanza. Vale a dire: se Recalcati si fosse limitato a descrivere una sua esperienza come clinico, a raccontare che gli erano capitati una serie di casi di un certo tipo e che – limitatamente a quei casi – gli sembrava opportuno trarre alcune conclusioni, non penso che ci sarebbe molto da (ri)dire. Nell’infinita varietà che tutti i giorni osserviamo nei modi dell’essere madri, padri, figli, amici, cittadini, lavoratori e chissà quante altre cose, ci sta di certo anche il tipo di madre che descrive lui. Il problema nasce quando, in modo esplicito o implicito, chi scrive propone il salto: dal caso individuale, o dalla casistica personale, alla società. Messa in quest’ottica, pare che il problema da lui descritto sia un problema sociale, un’emergenza (nel senso di emergere, non di urgente) del nostro tempo, una forma patologica con cui fare i conti a livello di collettività. Fatalmente, se uno la legge in questo modo, quella riflessione si trasforma in un precetto, una prescrizione per le donne (tutte): non anteponete il vostro narcisismo all’essere madri, ne soffrirete voi, ne soffrirano i vostri figli e ne soffrirà la società. E’ il solito, vecchio problema con cui ci si scorna quando si pretende di identificare le caratteristiche di un gruppo e poi di assumerle a paradigma per tutti i componenti di quel gruppo; forzandoci dentro anche per quelli (o quelle) che non ci si riconoscono. E quindi ritorniamo all’immagine della donna carezzevole e “morbida”, che magari si attaglierà pure a un gran numero di donne, non lo so; ma certo non si può pretendere di imporre a TUTTE le donne. Sì, si chiamano stereotipi, e fanno male a tutti: a chi li subisce e anche a chi li impone, che in fondo ne è a sua volta vittima. Oltre tutto non si capisce su quale base un clinico possa pretendere di estendere una sua osservazione che, in assenza di un serio approfondimento, può essere al massimo un’ipotesi di lavoro.

  6. sono in linea di massima d’accordo con quanto scritto da Maurizio e la posizione di Recalcati mi sembra alquanto superficiale trattandosi di un professionista della psiche. Il ritorno al sentimento religioso può fare così male? Da punto di vista professionale forse sì dal momento che, per ciò che si percepisce, l’aspetto ideologico che lo ha folgorato gli offusca la realtà sulla quale dovrebbe operare con razionalità e si lascia andare a generalizzazioni che sono il vero male in qualsiasi tipo di analisi si affronti.
    Ben venga se le madri riusciranno a liberarsi da quell’alto tasso di oblatività che le ha sempre caratterizzate e trovare un giusto mezzo sia per il bene dei/delle figl* sia per la loro personale vita.

  7. Cara Marcella.
    Il conservatorismo, il cattolicesimo, l’humus religiso, sono parte di tanti uomini. Lo psicoanalista J.A Miller, che ha orgaizzato il lavoro di Lacan, ha scritto quanto sia importante lasciarlo fuori dalla seduta. Essere analista sta essenzialmente in questo.

  8. Qualche volta mi chiedo se Recalcati “ci è o ci fa” perché spesso è dovuto ritornare su sue affermazioni e su suoi scritti per precisarne il contenuto: gli è accaduto quando parlò di assenza del padre e dovette specificare che lui non intendeva affatto esprimere una nostalgia di autoritarismo patriarcale; gli accadde quando parlò di genitorialità e dovette specificare che essa non ha nulla a che vedere con il dato fisiologico-riproduttivo ma con l’atteggiamento di chi “adotta” il proprio figlio (quindi è un concetto aperto a qualsiasi persona singola o in coppia, di qualsiasi genere e orientamento sessuale). Il problema è che queste precisazioni sono sempre venute dopo che il nostro veniva invitato ripetutamente a conferenze organizzate da gruppi cristiani spesso cattolici (ciellini e gesuiti esclusi, non a caso…): da qui i miei dubbi sulla sua buona fede.
    Quanto all’articolo, sarebbe accettabilissimo e interessante se non avesse un limite: del padre tanto ricercato non v’è quasi traccia. Certo, Recalcati potrebbe ribattere che non era il tema del suo articolo e che su quel tema s’è già ampiamente espresso, tuttavia se si parla di maternità non si può tralasciare il ruolo maschile, sia esso surrogato o presente fisicamente. Anche perché magari esistono pure casi in cui i figli sono allevati da uno o due genitori maschi (pensiamo a un divorziato cui è stato riconosciuto l’affidamento dei figli o a un vedovo o a una famiglia omogenitoriale): e allora? Inoltre Recalcati sembra (sembra?) mettere da parte la percezione sociale che “preme” sulla percezione di sé e del proprio nucleo familiare, quindi anche sulle donne e sul loro rapporto con la maternità. Quindi anche sugli uomini e sul loro rapporto con la paternità E CON LA MATERNITA’.
    L’articolo dunque è quantomeno incompleto, quindi insoddisfacente perché lascia dietro di sé troppi non-detti e troppe ambiguità, soprattutto quando viene da un “professionista della mente” così ascoltato e considerato.

  9. Continuo a riflettere sull’importanza simbolica che viene data a “materno” e “paterno” , a questo “binomio binario” che nella mia esperienza non ha alcun senso o quel poco che ha trova sempre spiegazioni sociali, culturali e politiche…”La madre” , narrazione deviante, figura-oggetto di speculazioni! Mai si parla di relazioni, di genitorialità, di figure di riferimento, non sia mai =)
    “La Madre”, il “Padre” ecco come deflettere le assunzioni di responsabilità condivise tra figure di riferimento varie e contesto sociale. Pensare alla “Madre” crea la “Madre”, una sorta di Godzilla mitologica su cui proiettare di volta in volta disagi e difficoltà o superpoteri. Magari offrire sostegno e strumenti per promuovere genitorialità ponderate e condivise sarebbe più utile e interessante che straparlare di “Madre”.
    Inoltre ritorna quindi fortissima la sensazione che l’assunto di un parametro eteronormato non fa guardare oltre al proprio naso. Più mi guardo intorno e più credo che affrontare questo nodo sia fondamentale per il femminismo, ma farlo proprio profondamente, non assumendo cognitivamente la possibilità di omoaffettività/sessualità varie (immagino che fin qui ci siamo tutt*, voglio darlo per scontato).
    Mi convinco sempre di più che è’ il binarismo sotteso all’eteronormatività che offre basi mendaci per qualsiasi rappresentazione psichica si voglia. Se avessimo più madri, quali rappresentazioni psichiche? Necessariamente sarebbero più relative all’umana diversità, stesso discorso per la cosidetta “figura paterna”, con due padri non sarebbe monolitica neanche questa. Forse bisogna ripensare alla relazione ed alle esplicitazioni piuttosto che a simbolici vari e rappresentazioni che -per quanto mi riguarda- risultano un pò stantie.
    Offriamo e costruiamo altri immaginari.
    Una riflessione sulla genitorialità
    http://www.huffingtonpost.it/giuseppina-la-delfa/studi-omogenitorialita-guida-perplessi_b_6752998.html?utm_hp_ref=italy

  10. La tua proposta, rho, è interessantissima e andrebbe percorsa. Il vero problema è che, oltre a scontrarsi con un dato culturale generale che ha fondamenti biblici -quindi altamente binari!-, la tua riflessione sarebbe possibile in un contesto sociale dinamico e realmente giovane; aggiungo pure di aspettative economiche buone. In assenza, è molto più rassicurante tornare sulla “strada maestra” che percorrere altri lidi. Ciò che mi fa essere profondamente pessimista è che le prime e i primi a non voler percorrere strade alternative sono proprio coloro che sono vittime degli “archetipi binari”, come ha riportato Loredana nei dati che ha citato sulla percezione della maternità da parte delle donne (ma nella popolazione omosessuale, per esempio, non è che la cosa sia tanto diversa, eh!); personalmente temo che sia già ampiamente cominciato il “cammino a ritroso”. Con conseguenze distopiche.

  11. Recalcati evidentemente non sa nulla di maternità, si limiti per favore a parlare dei padri dove qualcosina da dire ce l’ha.
    Forse il marketing gli ha detto che “le donne tirano”, siamo le sole lettrici in fondo. Ma non per questo hanno, abbiamo, voglia di farci abbindolare.
    Recalcati, è un appello: si occupi di ciò che conosce, per favore!

  12. “Se la maternità è vissuta come un ostacolo alla propria vita è perché si è perduta quella connessione che deve poter unire generativamente l’essere madre all’essere donna.”
    Sembrerebbe che per l’essere umano non sia una cosa tanto strana, ci sono un sacco di uomini che vedono la paternità come ostacolo alla propria vita (nel senso di realizzazione di sè in una sfera anche esterna alla famiglia), solo che molti i figli li fanno lo stesso, perché comunque poi se ne occupano le madri. Io ne vedo ancora un sacco, e non mi risulta neanche che vadano in analisi… Forse come per i ruoli e le professioni, alcuni assetti mentali o della personalità che prima erano appannaggio maschile ora sono accessibili anche alle donne?

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