Devo dire grazie. Un grazie dal profondo dell’anima a Carlotta Vissani, che ha scritto questa storia per voi. Una storia per le mamme, e anche per chi madre, o padre, non é. Perché bisogna parlare, e raccontare, che non esistono le madri tutte d’un pezzo, mai scalfite dal dubbio e dal dolore. Nessuna madre, nessuna donna, nessun uomo, è un diamante puro: siamo, tutti, scalfibili e scalfiti.
Fuori e dentro dall’ospedale è notte. Tutto tace, ma ogni cosa si muove. Nel cuore dell’edificio in cui si muore, simbolicamente, e si rinasce, in cui nascete/nascono, si sente qualche vagito sommesso che odora di colostro, mamme che passeggiano lente e smarrite, capita, nei corridoi. Con una pancia iper visibile oppure appena svuotata. Ma camminano, pensano forte, si domandano che cosa accadrà domani perché l’oggi se ne sta già andando. E nel nuovo giorno sarà tutto diverso. Pensano a quando rivedranno il volto del proprio bambino o immaginano, ché c’è pochissimo tempo, quando si troveranno su una barella a spingere con ogni forza, energia sovraumana, per sentirsi dire ‘vedo la testa’.
Io sono appena arrivata. Mi hanno assegnato un letto. Ho poche cose con me. Le tue tutine micro, il mio pigiama. I molti libri letti, i molti forum spulciati. Ora tutto mi sembra non utile, diverso da dire inutile. Saluto due mamme esauste ma con un’espressione dolce dipinta sul viso. Mi dicono: è nato qualche ora fa, è nato ieri. E tu? È a termine? I fagottini avvolti dentro un lenzuolino, dormienti. Il rooming-in fa bene, dicono. Sarà vero? È tantissima fatica anche per voi, piccolini. Carrelli minuscoli a contenere i vostri corpi solo apparentemente fragili. Ma siete cento Ercole in peso minimo, cinque pacchi di pasta da mezzo chilo su bilancia precisa. Io ho la mia pancia a farmi compagnia. Mia figlia è ancora dentro di me. Tra poco sarà fuori. Il dolore che impiega e sopporta una donna, ovunque nel mondo, per espellere la vita e separarsi, ricongiungersi alla vita stessa, è immenso. Sono seduta, sono pesante, espansa, ascolto i battiti, il tuo cuore veloce. Stavo mangiando una fetta di torta alle pere, era tutto il giorno che giacevo sul divano guardando Il pranzo di Babette. L’ho visto due volte. Poi ho sentito la prima contrazione. Sono stata ferma, ho taciuto. Ho cenato da mia suocera, ho visto una scia discreta di sangue uscire dal luogo nascosto che da nove mesi non conosce il termine ciclo perché l’unico ciclo di vita sei tu. Ho fumato una sigaretta prima di dire a mio marito di prendere la macchina. Non si deve fumare in gravidanza. Ma io ho fumato uguale. La torta di pere a metà sul tavolo, la forchetta sporca di briciole. Erano le 21.50, diceva l’orologio a parete. Per me il tempo ha subito una sospensione magica. Ero serena, nove mesi di gioia. Nessuna nausea, nessun dolore. Solo tanto esercizio fisico, una dieta equilibrata. Ti cercavo da tempo. Dentro di me hai pulsato, ti sei evoluta, ti sei spostata, ti sei agitata, ti chiamavamo Bisciola, la mano di mio marito sulla pelle, la senti? È nostra. È di se stessa. Hai respirato, mangiato, defecato, urinato. Dentro di me. Hai fatto tutto quello che dovevi fare. Lontano ma vicinissima che più vicina non si potrà mai più.
Voglio l’epidurale, la chiedo dopo avere sofferto senza un fiato per ore su un lettino isolato, in una camera piccola. Sono fortunata. Posso vivere il mio travaglio con discrezione. Devo per forza stare male all’estremo per dirmi madre modello? Hai scelto l’ora ideale, pare. Come se dovessi nascere solo tu, questa notte. Mi assopisco, come drogata, mi ridesto. È ora. L’ago non lo sento. Affonda, me lo dicono, ma io non conosco più il termine dolore, neanche quando mi trascino a fatica dentro ad una doccia asettica. Ma l’acqua è calda, mi scioglie, ti scioglie, e ti parlo. Ti dico: coraggio. Ci sei quasi. Mamma è qui con te. Trascorro una delle ore più belle della mia vita. Anestesia completa, so che mi stai chiamando, ma io prendo solo forza per il dopo. Quando la tua testa spunta, e l’epidurale è ormai un ricordo, la mia ostetrica mi dice ‘sentirai il fuoco, brucerà, spingi forte, ogni contrazione tre spinte’. Alle sei del mattino sei uscita da me. Il tuo corpo minuscolo, dotato però di una energia soprannaturale, sulla mia pancia macchiata di sangue. Non hai pianto. Ti hanno percossa. Allora hai urlato, già oltre me.
In quel momento, mentre i tuoi 50 centimetri e i tuoi 3 chili scarsi si adagiavano su di me, ho pensato che non ce l’avrei fatta. Ogni certezza è crollata. Ogni speranza, ogni sicurezza. Ogni idea di essere di acciaio. Io ero argilla che non si modella neanche sotto la mano più esperta. È cominciato il mio, e il tuo, calvario. Inadeguatezza, lacrime, sensazione di impotenza. Medicarti la ferita del cordone, quella cosa che faceva di noi un’unica entità, sembrava l’impresa più grande del mondo. Non potevo farlo da sola. Ho chiesto aiuto. Ho chiesto aiuto a un Dio in cui non ho mai creduto per oltre 120 notti. Perché tu non dormivi. Perché tu sentivi che io stavo male. Ho pensato cento e mille volte: che cosa ho fatto? Voglio tornare indietro. Io non ti voglio. Tu mi stai uccidendo, io non sono capace di volerti bene, io non posso curarti. Io desidero che tu non esista, torna da dove sei venuta. Le telefonate, poche, alla mia più cara amica di sempre: non posso, fallo tu per me, qualcuno lo faccia per me, voglio sparire, eclissarmi. Voglio non essere mamma. Voglio non dovermi prendere cura di te perché non so come fare. Perché non riesco a dire che questa cosa è la più bella del mondo. A me pareva la fine di tutto. A 72 ore dalla tua nascita scrivevo un articolo sulla fecondazione artificiale. Eri nella carrozzina, sempre sveglia, agitata. Con una mano scrivevo, con l’altra ti cullavo. Ma io volevo scrivere. Solo che tu volevi essere accudita. Non volevi riposare. Tu eri la prova vivente che dentro di me qualcosa si era rotto e andava riparato. Ma non si sanava. Ogni giorno un delirio. Ogni giorno la certezza che non ti amavo abbastanza. Ogni notte la punizione peggiore. Eppure tante donne dicono di stare per anni senza dormire e non ne fanno una questione. Tu invece sei diventata la mia malattia, la mia assenza di parole, la mia immobilità costante, il black out nella mia testa. La mia morte di mamma. E quando ho capito che avevo bisogno di aiuto non era troppo tardi, era solo tardi, ma era ancora possibile. E allora ho urlato aiuto, ho preso le mie medicine, salvifiche (nel mio specifico caso), ho chiesto un supporto essendo totalmente priva di una basica rete famigliare, ho chiesto a mio padre, che sta dove non noi siamo ancora, di darmi una spinta. La risalita verso la luce, che poi arriva se solo la si vuole, è lunga, faticosa, a molti sconosciuta. Ma si può fare. Dicendo a noi, donne, che non siamo onnipotenti. Che noi siamo esseri fragili, forti e complessi, stupende, un universo incredibilmente bello anche quando allo stremo, anche quando ci tremano le gambe e gli occhi si chiudono pure se vogliamo stare sveglie. Ma scalfibili. Diamanti impuri. Che essere mamma è un dono immenso, specie se pensiamo a chi non ci riesce per destino o genetica. Ma siamo piccole, tanto, come neonate, e grandi. E capita di vedere un vuoto che sa di nero. A tutte le mamme che hanno visto l’abisso, lo hanno subito o lo hanno superato, come non so, ma in tante riescono, da sole o con un supporto reale, dico non abbiate paura. Create una rete. Parlate. Pretendete ascolto e supporto. Essere mamma è la cosa più incredibile e, potenzialmente, devastante, che possa accadere, accadervi. Tacere, farsi minuscole, è la punizione peggiore che possiate infiliggere a voi stesse. Se aprite la bocca, una, due, cento volte, qualcuno vi ascolterà.
posso dire che ho pianto? Posso?
perchè è quello che ho provato anche io, e che provo anche adesso.
“Create una rete.” scrive Carlotta. “Se aprite la bocca, una, due, cento volte, qualcuno vi ascolterà.”
Ha ragione da vendere.
In questi anni abbiamo polverizzato il sociale. Quello che aveva fatto uscire dalla clandestinità l’aborto. E che ora è tornato, nei fatti, clandestino. Senza che nessuno protesti.
http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/inchiesta-italiana/2013/05/23/news/aborti_obiettori_di_coscienza-59475182/
Se l’avessi letto otto anni fa avrei pianto anch’io lacrime amare e rabbiose. Testardaggine, mancanza di sonno insieme alla voglia di sentirmi onnipotente furono un miscuglio velenoso per l’anima… Anche noi abbiamo chiesto un minimo aiuto.
Unisco il mio grazie a quello di Loredana.
Grazie Carlotta.
Cara Loredana, questa pagina è molto bella e ringrazio te per averla pubblicata e l’autrice per averla scritta. Mi sembra però, senza nulla togliere al suo valore, che sia rivolta alle sole madri. La figura del padre non è presente e chi non è madre si sente dire che il ‘non esserci riuscita’ l’ha privata di un dono immenso. E’ davvero così, per tutte? Abbracci.
Cara Rita, è vero. La figura del padre manca. Non certo perché non abbia il suo peso. Ne ha molto. Può averne molto e può non averne affatto. Per me, all’inizio, confrontarmi con mio marito non è stato semplice, temevo di deluderlo. Nonostante cercassi di spiegare a parole quello che mi sentivo dentro e addosso mi ha sempre guardata con gli occhi fuori dalle orbite dicendomi con sincerità ‘io non capisco, io non riesco proprio a capire’. Adesso comprendo che era smarrito tanto quanto me. Poi è anche vero che un padre può soffrire immensamente per la mancanza di un figlio. Tanto quanto una donna che desidera restare incinta e non ci riesce. Comunque non volevo tacere la figura del papà. Che considero fondamentale. Forse perché ho amato tanto il mio e perché, sempre più spesso, incontro padri presenti e dolcissimi, attenti e premurosi. è che, quando stai male così, ti senti sola. anche se non lo sei per davvero.
Grazie a Loredana per lo spazio che mi ha concesso.
Un saluto.
Come uomo non potrò mai provare il sentire una vita che mi cresce nel ventre, e forse è per quello che non esiste un daddy blues.
Però, di solito, i figli si fanno in due, e la responsabilità deve essere divisa, deve essere comune. La rete fra mamme di cui parli è necessaria, e credo che vada rinforzata con una rete di madri e padri (nonché una rete fra noi padri per crescere nel nostro ruolo).
Non per togliere spazio alle madri, anzi, ma anche noi siamo importanti. In fondo siamo noi che decidiamo il sesso del nascituro, no?
Grazie per questo bello scritto.
Cara Carlotta, grazie della risposta e delle tue parole belle e sincere. Senz’altro un aspirante genitore che non riesce a diventarlo vive una frustrazione – uomo o donna che sia. Mi domando se sulle donne, oltre alla mancata soddisfazione di un desiderio personale, non gravi una pressione sociale più intensa. Ma forse mi allontano dall’argomento… e soprattutto non ho ancora letto l’ultimo libro dell’autrice di questo blog, che credo risponda a questa e altre domande… corro a procurarmelo! 😉
Un caro saluto a te, e un abbraccio.
Gianni: a parte che a me l’obiezione di coscienza quando sei ginecologo sembra paradossale. Ma questa può essere una mia idea. Forse poco rispettosa nei confronti della libertà che la legge concede. Certo mi dico che se sei ginecologo (e hai scelto tu di esserlo) dovresti rispettare la donna, con le sue scelte, in quanto essere umano pensante e dotato di libero arbitrio. è come se un chirurgo che detesta il fumo si rifiutasse di dare cure a un malato di cancro ai polmoni causato, presumibilmente, dal fumo. Sembrano i discorsi del bar ma calzano. Possiamo condividere o meno l’aborto. Magari, intimamente, posso capire di più l’aborto per malformazione accertata. Un po’ più che l’aborto di una donna adulta che non ha preso delle precauzioni e sapeva benissimo di non avere alcuna voglia o intenzione di restare madre. Ma il giudizio andrebbe comunque sospeso. In ogni caso se c’è una legge, faticosamente raggiunta, che lo permette non vedo perché si debba tornare indietro. E non vedo perché si debba tornare indietro tacendo. se 8 ginecologi su 10 sono obiettori significa che 8 donne su 10 che desiderano abortire si sentiranno giudicate, messe alla gogna, private di un diritto. costrette, nella peggiore delle ipotesi, ad agire clandestinamente rischiando la vita. ecco, detto questo, cosa si può fare?
Rita, non ti allontani per nulla dall’argomento. Proprio perché la pressione sociale è fortissima. e io credo e temo che la depressione post parto spesso nasca, anche, dalle aspettative sociali e dal mito della madre perfetta e multitasking, sempre felice, sempre attiva. Pronta a fronteggiare qualunque incombenza tra pannolini, scartoffie, diete, pilates, coliche (dell’infante), notti insonni e telefonate a raffica. Naturalmente con un mega sorriso stampato sul volto. Non sempre va così. Il tema è fondamentale. Loredana lo spiega molto bene nel suo ultimo libro, infatti. Baci e abbracci. Ora non intaso più il blog coi miei commenti!
Non mi vergogno a scrivere che sto piangendo. Piango perché riconosco tanto di me in quello che hai scritto e che allora, quando l’ho vissuto, mi sembrava indicibile e incredibile. Grazie.
Grazie, Carlotta, per aver reso esplicito quello che tanti di noi hanno vissuto. E’ che genitori (madri, padri) non sempre si nasce. Io e mia moglie, almeno, non siamo nati tali e nei primi mesi abbiamo fatto una fatica enorme a resettare le nostre vite attorno ai due piccoli tiranni che pure avevamo cercato con tanta ostinazione, sfidando la legislazione italiana e la fisiologia umana. Eppure ricordo come un incubo i primi sei mesi di notti quasi tutte in bianco, con le coliche quotidiane devastanti che duravano dodici ore di uno e l’insonnia dell’altro, e la mia rabbia (proprio questo era: rabbia) accompagnata dall’imprecazione “ma chi me l’ha fatto fare”. E i primi giorni non capivo, proprio non capivo, il baby blues di mia moglie, mi sentivo un alieno per non essere capace di amare quelle due creature che sollecitavano la mia attenzione con la brutalità di cui sa essere capace un neonato. Parlarne con persone consapevoli fu un sollievo per entrambi. E poi capimmo che in realtà proprio attraverso quel devastante lavoro di cura stavamo sviluppando il massimo amore per i nostri bambini: un amore che è passato attraverso il corpo innanzitutto, fatto di contatto, manipolazione, consolazione e mille altre interazioni. Va smitizzato, l’arrivo di un bambino. E’ un fatto stupendo, ma anche una tale devastazione del proprio assetto di vita che all’inizio non è facile né l’adttamento, né rapportarsi con quel nuovo te stesso che dovrai diventare, come genitore.
Quando vedo le pance prossime al parto e il sorriso ebete e inconsapevole sul volto dei futuri genitori, mi dico: non sanno cosa li aspetta!
E ovviamente ce l’ho avuto anche io quel sorriso ebete.
Smitizzare, parola chiave. E anche accettare quel che viene per come viene, se ci si riesce (col secondo figlio è decisamente più facile!).
la prima notte a casa con la mia oggi adorata pupa l’ho pensato anche io: cos’ho fatto! non ce la posso fare! è la prima volta che lo leggo così, nero su bianco!
bello. grazie carlotta
Non abbiamo avuto nessun sorriso ebete, avevamo visto le facce degli amici neo genitori…, eppure che strazio, che stravolgimento, che litigate feroci!
Che dire di piu’? Meraviglioso. Anche io papa’ di due pulci catturate per il rotto della cuffia (e del conto in banca) in una stanza d’ospedale Belga. Maledicendo molti dei miei concittadini che se ne erano andati in vacanza il giorno del referendum. Quanta rabbia nel cercarli. Quanta rabbia nell’affrontare i mesi dopo. Arrivati li’ gia’ esausti dopo 3 anni di ricerche. Con le facce stravolte… e la gente che ci chiedeva “Ma non siete felici ?”. Si, certo, ma non lo siamo in modo “ebete”. Lo siamo in modo complesso. Come e’ complesso lo stomaco di uno che fa’ su’ e giu’ sulle montagne russe. Ed allora, si, smitizziamo la gioia di diventare papa’ e mamma. Che rimane una stupenda avventura. Ma che come tutte le avventure e’ piena zeppa fino all’orlo di quello che Carlotta ha tanto bene descritto. GRAZIE!
è brava carlotta, poi da quando è madre secondo me scrive ancora meglio.
Sergio: mi hai detto una cosa bellissima. Grazie.
Grazie Carlotta per questa testimonianza preziosa.
Ne faremo tesoro, la gireremo a tutte le nostre mamme, è una lettera terapeutica molto forte, di quelle che lasciano il segno e toccano tutte.
Grazie a Loredana e alla sua grande sensibilità in materia.
un grazie di cuore da mammechefatica.it
una testimonianza splendida, feroce e preziosa, tanto più autentica quanto sofferta. Che esprime tutta l’unicità e la difficoltà dei mille momenti che seguono e si susseguono all’essere diventata madre, forse una condizione mai acquisita in maniera serena. Grazie, di cuore, anche da parte mia che mi affaccio per la prima volta a questo blog, e che ho trovato nel confronto e nel dialogo con donne e uomini intelligenti tutto il sostegno di cui ho avuto bisogno nel post parto. Mai tacere, mai sentirsi stupidi o incapaci nella propria debolezza, il silenzio e (l’auto) censura sarebbero la vera e unica sconfitta.