L’idea dei Pro Vita presenti nei consultori non solo non è nuova, ma è già realtà. Posto qui un articolo uscito per L’Espresso a marzo. Che tristezza.
Ogni anno, un paio di mesi prima dell’8 marzo, i manifesti di Pro Vita e Famiglia anticipano le mimose e fioriscono sui cartelloni, sulle fiancate degli autobus e ovunque ci sia spazio disponibile. Ogni anno, o quasi, schiaffano in faccia alle passanti un embrione roseo con le manine protese, e un invito a pentirsi: lo slogan 2024 è “9 biologi su 10 mi riconoscono come un essere umano. E tu?”, in precedenza fu “Potere alle donne? Facciamole nascere”. La variante più macabra, in tempo di femminicidi, è stata quella con una morta vestita di bianco con una mela accanto, e l’esplicita evocazione della strega cattiva: “Prenderesti mai del veleno? Stop alla pillola abortiva RU496”.
Non so se quelli di Pro Vita si siano chiesti se i loro manifesti abbiano mai convinto una sola donna a non interrompere la gravidanza, ed è probabile che abbiano lo stesso effetto che le telefonate spam dei gestori di energia hanno sui disgraziati utenti: nullo. Non si cambia gestore e non si cambia idea, si dovrebbe supporre. C’è una differenza: per le telefonate moleste esiste (anche se non funziona) un registro delle opposizioni. Per i manifesti di Pro Vita, no.
Né, forse, dovrebbe esserci: le leggi devono poter essere criticate, esattamente come non era giustificabile, diversi anni fa, la richiesta di censura nei confronti del pamphlet di Costanza Miriano, Sposati e sii sottomessa. Non è con la strada del divieto di affissione che si può contrastare l’effettiva violenza di Pro Vita e di tutte le innumerevoli associazioni no-choice che, grazie all’attuale governo, si annidano nei consultori. Come al solito, bisogna trovare una contronarrazione efficace, che in parte già c’è, e prima ancora bisogna ascoltare le giovani donne.
Che sono diverse dalle loro madri, per il semplice fatto che le loro madri hanno vissuto la clandestinità dell’aborto. Le madri sono cresciute con il senso di colpa inflitto da Lettera a un bambino mai nato di Oriana Fallaci, le ragazze si imbattono nei meme antiabortisti che mostrano una donna senza testa, solo cosce nude che sostengono prima il test di gravidanza, poi un’ecografia e infine una pupetta con cuffia rosa. Le madri leggevano, trepidanti, il Manifesto delle 343 scritto da Simone de Beauvoir, dove le donne francesi si autodenunciavano (rischiando: il manifesto viene pubblicato nel 1971 su Nouvel Observateur, e meno di 30 anni prima, il 30 luglio 1943, la Francia aveva ghigliottinato Marie-Louise Giraud, 39 anni, per aver aiutato 27 donne ad abortire). Le ragazze leggono L’evento di Annie Ernaux, soffrono con lei per il dolore e l’umiliazione del suo aborto clandestino, ma probabilmente si rispecchiano nel sollievo che Ernaux esprime, perché forse le giovani donne di oggi sono più libere dal peso della vergogna rispetto alle madri, le quali, credenti o meno, sentivano puntato su di loro il dito vendicatore di un dio geloso.
Semmai, come ricorda Ilaria Maria Dondi nel suo Libere di scegliere se e come avere figli, uscito per Einaudi, dicono che non è l’aborto il trauma, ma tutto il resto. Ovvero, l’ascolto del battito cardiaco fetale, che la solita Pro Vita vorrebbe imporre per legge, e l’ignobile trafila a cui sono sottoposte: “donne lasciate a lungo in attesa sul lettino in metallo con indosso solo il camice, a porte aperte, battute infantilizzanti sulle conoscenze contraccettive e umilianti lezioncine sommarie di educazione sessuale, fotografie di bambini bellissimi sulle scrivanie di ginecologhe e ginecologi, che le brandiscano per raccontare quanto anche per loro all’inizio sia stata dura”.
Ammesso che su quel lettino ci si arrivi, perché sono note le percentuali sugli obiettori e la corsa a ostacoli per abortire con la pillola, laddove le Regioni governate dalle destre fanno di tutto per rendere l’interruzione di gravidanza una pratica difficile da ottenere. “Non vogliamo toccare la 194”, ripetono ministre e governatori mentre svuotano la legge. Un po’ come la polizia di Stato che assicura di voler garantire “il massimo esercizio della libertà di manifestazione” lasciandosi dietro le teste rotte e le dita sbriciolate dei ragazzini di Pisa e Firenze.
Ma le giovani donne sono diverse dalle madri. Fanno i conti con altre insidie e altre fragilità: come racconta benissimo Sara Marzullo in Sad Girl, uscito per 66thand2nd, sanno che il dolore non è più personale e segreto ma condiviso (e può persino essere capitalizzato, se lo si sceglie), e semmai sono in cerca di un modo per scrivere il sé “senza che sia un atto di self-help, per rendere politica la prima persona”, e vogliono esprimere il desiderio e non solo la rabbia, e provano a spezzare i modelli, infiniti, che vengono loro imposti.
Infine, hanno una cultura della contraccezione molto più alta delle madri: anche se ancora gli effetti collaterali della pillola sono sgradevoli, il contraccettivo orale maschile sembra la pietra filosofale degli alchimisti (siamo sempre sul punto di metterlo in uso, da decenni), e un’educazione al corretto uso del preservativo è di là da venire.
Parlare e presidiare. E’ l’unico modo per rispondere ai manifesti che anche quest’anno incombono sulle donne. Magari dicendo chiaramente che sì, l’aborto è la soppressione di una forma di vita, ma che la volontà della donna prevale, perché il corpo è il suo ed è sua la scelta, e che costringerla a una gestazione non voluta è il pilastro su cui si è retto il patriarcato per diecimila anni. E che soltanto la contraccezione e il diritto di abortire in sicurezza lo hanno scardinato. E che non si torna indietro, nonostante.