Tirata per la giacchetta (anzi: per il caschetto), da Palmasco e, nei suoi commenti, da Herzog, nonché resa meditabonda dall’orgoglioso quasi-manifesto di Strelnik , torno sulla questione, peraltro annosa, del linguaggio dei blog, cui si è in effetti solo accennato nella discussione di Galassia Gutenberg (sì, a volte le sedi deputate mostrano i loro peraltro inevitabili limiti: e viceversa la possibilità di proseguire in rete la discussione medesima mostra i vantaggi della blogosfera).
Dunque: sostenere, come ho fatto e continuo a fare, che non esiste una diversità linguistica nei weblog significa sostenere, più precisamente che non esiste uno stile comune. E’ che è giusto che sia così.
Facciamo un esempio. Dieci anni fa, in virtù della famigerata antologia Gioventù cannibale, si parlò giustamente di una nuova ondata di scrittori: ma, almeno i più accorti, non si riferirono tanto ai contenuti (il presunto pulp) che, se non vado errata, erano semmai un pretesto. Quanto al comune intento e alla comune prassi utilizzata da quegli stessi scrittori nello scardinare il linguaggio letterario fino a quel momento dominante innestandovi lingue che venivano da altri luoghi non letterari (televisione, cinema, fumetti) e reinterpretandole, rivivendole letterariamente.
Esiste qualcosa di analogo nei blog? No, e non può esserci. Per un banalissimo motivo: i blog sono talmente numerosi da poter parlare di intenti comuni solo per isole ristrette e indubbiamente felici di affini che si riconoscono come tali. La scrittura di Personalità Confusa, citata a Napoli da Jacopo De Michelis come espressione squisita di scrittura blog, non somiglia a quella, per dire, di Hotel Messico, nè quest’ultima è avvicinabile a quella di Margherita Ferrari. Nè, immagino, intende esserlo. Eccetera.
Cosa unisce queste scritture necessariamente diverse? Il loro essere aperte, la possibilità, data, sì, dal mezzo,di modificarsi, evolversi, crescere insieme a chi le legge e le commenta. Che, attenzione, è fatto di enorme importanza, ed ha indubbiamente una valenza fin rivoluzionaria: ma non intacca l’uso, personale, che ognuno fa del linguaggio stesso.
Il punto è che questo, a mio avviso, è un vantaggio, e non, come qualcuno può aver creduto, una penalizzazione. L’antagonismo caro a Herzog e a Strelnik, la forza dell’intelleguale, sta anche nella diversità stilistica di chi usa, con linguaggi anche lontanissimi, lo stesso mezzo. In questi casi, il non essere riconducibili ad un manifesto è un punto a proprio favore, nel momento in cui si tende comunque a ricondurre ad un unicum le scritture legate al web. Come mi sembra avvenga, a giudicare anche dal lungo articolo di Enzo Golino apparso oggi sul quotidiano a proposito delle “scritture frenetiche” della rete, a partire dal libro Il parlar spedito. L’italiano di chat, e-mail e SMS di Elena Pistoleri.
Ps. Ho una quinta domanda per Tiziano Scarpa: nell’articolo di Golino, e nel saggio, si cita la proposta, che risale a qualche anno fa, di trovare un nome italiano per “e-mail.” La mia memoria è fallace, o ne parlasti proprio tu, in una puntata di Lampi?
E se l’influenza che la blogosfera genera nella scrittura avesse a che fare con l’improduttività e con la sua originaria irriducibilità a un fine economico?
Se fosse – ANCHE e specialmente – l’essere /la Rete, i blog) ancora un posto essenzialmente caotico e libero a generare un tipo di scrittura che, rispettando l’originalità del singolo autore – la allarga e la contamina continuamente con una serie di altri che condividono la stessa esigenza comunicativa e che per di più lo fanno anche sincronicamente?
Il discorso di heteronymos sull’ordine del discorso di Foucault mi trova pienamente d’accordo, se non entusiasta.
Il discorso su Max Aub, il labirinto e la scrittura l’ho poi ripreso nel blog -chè qui veniva fuori un commento chilometrico
e son quasi le due di notte…
Salut!
Lo strumento, il mezzo influisce sulla natura del pensiero. Più precisamente: determina il sorgere aurorale del pensiero; la voce, la scrittura, l’immagine agiscono in maniera circolare, autoreferenziale.
Esattamente come quando si utilizza come strumento, mezzo, la meditazione, alcune forme di meditazione, dove l’oggetto di meditazione fa da appoggio. Occhio, mano e orecchio sono collegate allo strumento. Nella meditazione è tutto il corpo lo strumento.
E’ un’illusione questa separazione tra l’interno e l’esterno. Ma c’è una montagna di letteratura su questa roba.
Ho già tentato due volte di inserire un commento, e qualche maligna divinità me l’ha impedito. Perciò, al volo:
caro effe, la parola è sempre attraversata dal potere, che è per essenza diseguale. Questa diseguaglianza appartiene dunque ad ogni regime di discorso, compresa la libera chiacchierata orale (o il dialogo platonico nell’agorà). D’altronde, se così non fosse, che ce ne facciamo di una parola impotente?
(Qui vedo che Foucault sta entrando in forze, e perciò bastano queste tre righe).
Quanto ai miei studenti: io faccio il prof. ‘democratico’, figuriamoci: ci gioco pure a calcetto. Ma per quanti sforzi faccia, la cattedra non se ne va (e dire che in molte aule, a cassino, le cattedre non ci sono proprio!).
Distinguerei tra potere e dominio della parola. Certamente la riflessione di Foucault, di Derrida, di Wittgenstein, come quelle di Deleuze in Millepiani sulla grammatica e la semiotica, come nel suo saggio su Bergson sono molto importanti sull’uso della parola. Da quando la democrazia è entrata nelle Università nel 68, il sapere si è annacquato, ha perso autorevolezza e ciò che presupponeva il 68 dentro le Università, cioè rendere una cultura più intima, non è accaduto. Di fatto l’ Università non ha mai avuto un tale compito eversivo, già sarebbe tanto se fornisse nozioni ed esempi di applicazioni. Dopo il 68 è venuta meno pure nei confronti dei fondamentali. L’introduzione della democrazia toglie indipendenza al docente pari a quella del magistrato e distrugge quella gerarchia esclusivamente fondata dalla cooptazione dei docenti. Sono invece favorevole per un uso più aggiornato ai tempi del sapere, a un uso moderno della maieutica e a molte altre cose didattiche.
Sulla base del mio lavoro, posso dire che la situazione universitaria attuale in Italia è desolante, per non dire penosa. Recentemente il sociologo del lavoro De Masi si è anche lui pronunziato in tal senso.
Caro Effe, se ora punti alla differenze fra scrittura di blog e altre scritture, sfondi una porta aperta: ho già scritto che su questo sono assolutamente d’accordo con te e in disaccordo con la nostra gentilissima ospite, che non si decide a chiudere questi commenti. Il mio punto di disaccordo riguarda invece l’uguaglianza in parola che tu difendi, difendendo la parola ‘intelleguale’. Mi permetto allora una piccola (e qui approssimativa) analogia: in democrazia il potere è certamente più diffuso che in un regime autocratico, tutti possono votare ed essere eletti, ma la composizione del Parlamento (e quella delle carceri) ti dimostra che questa uguaglianza di principio ha carattere solo procedurale e non sostanziale (e lo dico da ‘riformista’ convinto, convinto cioè che la democrazia sostanziale sia una chimera: benché utile come chimera). Così anche lo strumento blog è il più democratico che c’è (ma lo è anche il mercato editoriale, in principio): tutti possono scrivere. Ma non c’è bisogno di SIAE, FNSI, o FIEG o non so cosa (ho indovinato le sigle?) perché il blog assuma una fisionomia reale diversa da quella formale.
(Zambardino non diceva che ci sono i blog ‘istituzionali’?). Se il potere della parola è diffuso, e sparpagliato al punto che non vi siano blog sui quali io e te ci incontriamo, non vedo quale sia poi il suo potere (cara Lipperini: e così ti ridipingo emissaria del potere!!). Con ciò, non nego che la fisionomia che la mappa dei blog è più mobile e cangiante di quella del mercato editoriale. Ma una fisionomia reale c’è (se non c’è, i blog non servono).
(Quasi quasi, sotto il titolo del mio blog, metto la dicitura: questo blog è tenuto da un eminente studioso di filosofia dell’Accademia)
P. S. Ho lasciato da parte l’altra questione, del potere che il titolare del blog conserva in quanto del blog è appunto il titolare, ma di questo un’altra volta, se vuoi (e se qualcuno non si stufa).
Azioneparallela, prima che la scrittura specifica del tuo commento venga specificata altrove, e con essa la mia risposta:
non solo non discordo, ma moltiplico: la parola in rete ha molto potere, anzi, è l’unico soggetto del potere.
Non è mai neutra – non lo è neppure altrove, ma qui si assume le proprie responsabilità, si dà forza o debolezza.
Altrove, è il nome dell’autere, è il rapporto di proprietà che egli ha con la sua parola (simboleggiato dal codice a barre) che la giustifica o la condanna.
Altrove la parola è desautorata, mentre qui è presente a se stessa.
L’altra differenza è che in rete il potere della parola e un potere diffuso e non monopolizzabile.
Non è differenza da poco.
Trovo infine che tutti i commenti di questo thread, compresi gli ultimi, siano di estremo interesse.
Chi ha detto che lo spunto di Galassia Gutenberg non è servito?
Vi dico la mia opinione.
Credo che il tuo neologismo, effe, crei più equivochi di quanti ne risolva. Intelleguale infatti sembra alludere a una condizione permanente di chi è qui: coloro che usano l’intelletto E sono eguali.
Ma esso invece a ben vedere, come tu giustamente fai notare, si riferisce solo alla soglia, al punto di partenza, che è aperta, liberamente attraversabile (anche se non proprio da tutti – digital divide – né soprattutto da tutti allo stesso modo). Tale apertura (tale possibilità libera di accesso uguale per tutti) è un presupposto, una precondizione (è come dire “blog”, col che non si è ancora detto nulla, però).
Come precondizione, l’essere liberamente attraversabile non esaurisce la totalità del “contenuto” di questa soglia, né estende tale uguale libertà a ciò che accade dopo, ma solo all’atto dell’attraversarla (non al detto o ai suoi motivi, solo all’atto di poterlo dire).
Quello che tu descrivi è meglio detto in una frase come questa: ciò che nella stampa dal punto di vista dell’autore è un punto di arrivo (la pubblicazione) – che quindi può o no essere raggiunto – qui è un punto di partenza – e quindi è raggiunto per definizione.
In quanto punto di partenza, tautologicamente, esso indica chi c’è: se sei così è perché hai pubblicato (postato); e quindi certamente incornicia “l’al di là” di quella soglia, ma tale “dopo”, che è ciò che ci importa, si presenta secondo la “sua” natura, che è “l’aver liberamente pubblicato qui e l’aver ancora da pubblicare”, e quindi più precisamente come: “l’aver cura non necessariamente libero di ciò che si è detto in modo non necessariamente libero, e ancora si avrà da dire allo stesso modo”, con tutti gli effetti di retroazione noti e relativi alla struttura dell’ambiente in cui è stato detto (che non è lo stesso della stampa e quindi agisce e retroagisce diversamente, costituendo i suoi soggetti in modo differente: discorso lungo e già fatto mille volte).
Nello specifico del rapporto parola potere “qui dentro”, faccio solo un appunto per brevità: il punto che io sospetto non è che sia più o meno diffuso, ma che non ammetta raccolta, o maggioranza, ma solo minoranze (e per motivi strutturali che riguardano la rete) il che ne altera la natura e il “movimento” in direzione di un’ineffettualità di fondo. Ma minoranze, segnalo solo, non significa affatto “uguaglianze”, anzi è probabilmente l’opposto esatto.
Dato che Effe è certamente capace di (re)interpretarsi da solo, mi limito a dire grosso modo cosa intendo io per “intelleguale”.
Ebbene è quasi un uovo di Colombo: vi è chi esprime le proprie idee ed è ascoltato solo se riconosciuto come “intellettuale”; e vi è chi, invece, ottiene attenzione solo perché le sue idee sono considerate interessanti. E quest’ultimo è per me, in buona sostanza, “l’intelleguale”.
Detto in altro modo: da un lato, al pensiero dell’intellettuale è conferito a priori e quasi automaticamente una certa autorevolezza; dall’altro, il pensiero è spogliato di ogni riferimento biografico capace di condizionarne in qualche modo l’ascolto, e che può quindi essere recepito più liberamente per quello che è, e non per quello che ci si attende che sia.
Vi è poi l’ultima frase che l’Herr ha posto tra parentesi che a me interessa in modo particolare, e che qui ripropongo:
“la forma relazione/segue dibattito è morta, e contraddice l’intellegualismo del blog. Si propongano altre strade.”
Ecco: che si propongano altre strade. Appunto.
No-no-no-no (scritto con stupore ed un po’ di sbigottimento): b.georg non ci siamo capiti. Parli di cose diverse, e che non ho né scritto, né pensato. Ma deve essere stata colpa mia. Metto quindi in conto di potermi non essere spiegato bene.
Scusami però se, per evitare di essere ancora una volta così clamorosamente equivocato non chiarisca meglio il mio pensiero. Preferisco aspettare un po’. Magari aspetto anche che tu rilegga quello che ho scritto e non quello che non ho scritto (l’esperto che parla a vanvera? il docente che accende il pc? la cattedra assegnata in base agli accessi?la dittatura che imbavaglia i geni?).
Di che parliamo, giusto. Tu dici “bah…”, io dico “boh!”, questo lo posso dire.
Dici: “vi è chi esprime le proprie idee ed è ascoltato solo se riconosciuto come “intellettuale”; e vi è chi, invece, ottiene attenzione solo perché le sue idee sono considerate interessanti. E quest’ultimo è per me, in buona sostanza, “l’intelleguale””
bah…
non sarà un pochetto populistico, no? e generico? Di che parliamo? Dell’esperto che va in tv a sproloquiare? Ma se confondiamo la chiacchiera pubblicitaria col sapere non ne usciamo più.
diciamo invece che vi sono spazi cui si accede tramite pratiche particolari (ad esempio, per insegnare all’università devi aver fatto il dottorato, pubblicato un certo numero di cose, fatto un concorso, tendenzialmente esserti fatto un discreto culo sui libri decisamente superiore all amedia ecc ecc); e altri spazi cui si accede tramite altre pratiche (per parlare qui dentro devi saper usare un computer, saper scrivere e così via). E va piuttosto bene così, direi.
Con tutto il brutto dell’università clientelare che abbiamo, francamente non mi fiderei di un docente che come unica competenza specifica avesse di saper accendere un pc. E come lo stabilisco che “dice cose interessanti”? Lo metto ai voti?
Guardo gli accessi? Oltre i 1000 al giorno cattedra assicurata? Allo stesso modo, qui dentro sono ben contento di avere a che fare con “intellettuali”, che nella loro competenza specifica hanno cose da insegnarmi.
Perché conta se le mettono a disposizione, non una fasulla idea di uguaglianza che non c’è mai.
Ascoltare chi dice cose interessanti poi non è impedito da nessuno: trovi che ci sia una dittatura che impedisce ai geni di parlare? Boh, io semplicemente non vedo tanti geni in giro.
Nè essere liberi di dire è garanzia dell’interesse di ciò che si dice, come spesso proprio noi dimostramo.
Mi sembra che b.georg sintetizzi bene: si azzerano gli ostacoli alla pubblicazione di “contenuti personali” espressi da una élite (vedi digital divide). Ok, todos caballeros. C’è un piccolo side effect: al crescere del numero di blog sembra tendere a zero anche la probabilità di essere letti, per lo meno con continuità. Ma, come è noto, non è esattamente così. Il magma che chiamiamo blogosfera (termine che designa semplicemente una collezione: l’insieme dei blog) tende a strutturarsi, a raggrumarsi attorno a dei concentratori (hub/blogstar: numero di links e di accessi come misura dell’autorevolezza), cuore di instabili comunità di affini. La sensazione è che questa struttura tenda a rafforzarsi, cioé che sempre più difficile sia per un newcomer diventare una blogstar. Per imporsi (i.e. per farsi leggere) dovrà non solo scrivere in continuazione (non necessariamente bene), ma anche studiare strategie di marketing sempre più raffinate, oltre a impegnarsi in una competizione stressante con suoi pari per richiamare l’attenzione della blogstar e farsi commentare/linkare.
Ho descritto un po’ cinicamente la situazione, ma pensare che la blogosfera sia realmente il luogo delle pari opportunità, in cui ci si conquista lettori in base alla forza delle proprie idee o alla qualità della propria scrittura, be’, lo trovo francamente poco realistico.
Mi son persa il mittente della sollecitazione a mettere un punto fermo ai commenti di questo post: non è cosa facile. Per ora, leggo, e penso.
caro Poeta b.georg,
in verità l’ogetto più interessante della discussione è la specificità della scrittura in rete, mentre la figura dell’intelleguale è un sotto-addentellato.
Ma non si lascia un’osservazione senza controsservazione, e così.
Io credo che l’intellettualismo sia un presupposto, ovvero una patente (dici bene, nel tuo esempio: dottorato, concorso ecc)
L’intellegualismo è invece una controprova: non pubblichi perché hai la patente (non ho mica discusso il fatto che sia o meno meritata), ma perché hai voce.
Non ti si ascolta perché hai titolo, ma perché dici cose (se queste cose non raggiungono l’obbiettivo non ti ascolterà, ma sol per questo).
L’intellettualismo è un “prima”, l’intellegualismo è un “durante” possibile solo in rete.
Che poi gli esisti dell’azione intellegualistica siano diversi a seconda degli autori, è ben chiaro, ma quel che conta è la democrazia delle possibilità.
(e, vivaddio, il mondo gira anche grazie ai non-geni)
gentile effe
la specificità è tema interessante, non a caso se ne parla da tempo.
oddio, non so se è un bene ricominciare sempre da capo argomentando pro o contro posizioni già digerite e magari accantonate, ma forse è inevitabile. 🙂
Riguardo al tuo termine, non posso che ribadire la critica: ti riferisci a un fatto incontestabile (qui pubblicare è un presupposto e non un risultato – il che peraltro è un buon ribaltamento della tua analisi della stampa e dell’intellettuale per come l’hai detta nel tuo ultimo commento) ma presenti imo questo fatto erroneamente con un titolo “etico” (uguaglianza), estendendo come caratteristica decisiva per descrivere la figura di chi lo fa ciò che invece è solo una soglia tecnica (che come tale incornicia sì la soglia e il dopo soglia ma non ne fa il contenuto).
Così però ci si impedisce di cogliere alcune specificità proprie della scrittura in rete, che pare sia ciò che interessi. Dicendo che “si ascolta perché dice cose (interessanti)” si dice infatti in certa misura l’evidenza, che peraltro vale ovunque, certo non solo in rete (nel caso della stampa c’è solo una soglia più alta per poter parlare, che è del resto superata, allo stesso modo, “se ciò che dici è interessante” o se “ciò che sei è interessante”, non diversamente da ciò che accade in rete, con tutti gli addentellati di utilitarismo, gregarismo, convenienza, cordate ecc ecc: la favola che in rete si emerga solo per il valore è pari a quella secondo cui in editoria si stampa solo chi ha titoli ma non ha valori, ed è populismo puro in entrambi i casi: la verità è che si pubblica chiunque, a prescindere vuoi da titoli e vuoi da valori, e che la rete è struttura, che nulla ha da dire sull’etica dei comportamenti individuali, che infatti emergono nella loro “mostruosità” molto megio qui che altrove).
Dicendo in quel modo, inoltre, mettendo assieme “uguaglianza” di partenza e “merito” di arrivo nello stesso termine, democrazia delle possibilità e meritocrazia, si finisce a mio parere per restare in superficie, applicando a questo spazio categorie e dinamiche di “maggioranza” proprie della stampa che si vorrebbe così eliminare, e si esclude dallo sguardo proprio la specificità della scrittura in rete, che fa capo invece all’affinità, come legame (lo dico un po’ alla cazzo, ma mi scuserai, rivango cose di due anni fa) tra corpo della scrittura “virtuale-potenziale” e sua capacità individualizzata di e-movere cioè di rispecchiarsi in un movimento comune e significativamente tautologico, e tramite essa dà forma alla struttura per minoranze mutevoli e all’ineffettualità del movimento di potere che risulta.
Eccellente b.georg,
do fiducia alla tua interpretazione del mio pensiero, ma qualcosa lo stesso non mi torna.
Se ancora si discute(rà) di questi arogmenti suppongo sia perché c’è ancora molto da dire, mmh? (o propendi per un difetto di memoria?)
Quella che chiamo democrazia delle possibilità non è affatto la soglia tecnica (che democratica non è, escludendo tutti coloro che non accedono alla rete), ma l’esito del dopo-soglia.
In altri ambiti c’è un forte senso di proprietà, di possesso della parola, che vale – o non vale – in base a quel possesso (apprezzo o disprezzo quel’intellettuale sulla scorta di un pre-giudizio, perché le sue parole sono fortemente connotate dalla sua identità).
Se pensate che anche in rete le parole valgano per via di chi le scrive, suppongo possiate essere in grave errore.
Le parole, DOPO la soglia della pubblicazione, sono davvero tutte eguali, e valgono o non valgono per se stesse ( e mi piace molto la condotta “aggregazionista” di Granieri, che evidenzia i post presentandoli spesso orfani di firma)
Credo infne (infine?) che in rete non sia davvero applicabile nessuna dinamica di maggioranza; si parlava un tempo di infiniti centri con relative periferie, e di come ogni centro fosse periferia di un altro centro.
Così mi pare sia.
mica male queste discussioni in luoghi ineccessibili 🙂
sì, credo anch’io che se se ne parla è perché non si può farne a meno (un lato di tutta la Bpalla è proprio la sua “autoreferenzialità” come si diceva con brutta parola: “esperimento di sé su di sé da infiniti lati e verso infinite direzioni”).
penso infine che io sono solo più moderato, non così distante: non penso insomma che si legga “l’intellettuale” solo per il nome, né credo che si legga “l’intelleguale” solo per il merito, e penso che pensare entrambe le cose possa costituire quel sottile schermo di ideologia (anche ideologia “positiva”, intendiamoci) che fa da pre-giudizio nell’osservazione dello “specifico” di cui discutiamo (che sia uno specifico rispetto ad altri ambiti, anche questo lo credo, che lo specifico vada detto in quel modo, non lo affermerei, però).
Il tema connesso della “proprietà” che citi è anch’esso assai interessante (due note veloci: l’autore non è mai Autore assoluto e onnipotente nemmeno nella stampa – non è mai in-dividuo, ma punto di incrocio e snodo di alterità, come vide bene ad esempio manganelli – e qui tale disseminazione è messa in atto “tecnicamente”; che poi un certo delirio proprietario non sia estraneo alla Bpalla, lo dimostra la poco onorevole levata di scudi sul caso Libero, dove si è riusciti a far passare per “rivendicazione di libera circolazione del sapere” la mera difesa del proprio copyright :-))
Caro Poeta, più questo thread scivola nell’oblio, e più mi piace sentirne l’eco, come in un palazzo ormai semivuoto.
Il caso di Libero è interessante, ma non credo sia stato un problema solo di copyright; il misfatto riguardava, per quel che ne so, la manipolazione proditoria dei testi, e l’inserimento dei post in un contento che non si può proprio definire no profit.
Che in rete l’autore sia ontologicamente espropriato della parola – più che nel caso a stampa – lo dimostra, credo, anche l’utilizzo quasi assoluto dei nick, che non sono solo messaggi (importanti), ma anche un atto di rinuncia all’Autorità, in cambio, se e quando è raggiungibile, dell’autorevolezza (non negherò che questo fa molto intelleguale)
Non illudetevi: non siete caduti nell’oblio 🙂
dannazione, anche i blog hanno orecchie