MARTIRI, EROI, VINCENTI: COME SI VORREBBERO I GIOVANI

Questa mattina ho letto il nuovo exploit di Marco Ugo Filisetti, direttore dell’Ufficio scolastico regionale delle Marche, sul 4 novembre: una lettera inviata a tutti gli studenti oggi, anniversario della fine della Prima Guerra Mondiale. Com’è noto, un massacro. Questo uno dei passaggi, diciamo, così, pregnanti:

“Quei giovani di allora ci insegnano ad essere altro, non con le declamazioni ma con le opere, con l’esempio, a fondare il nostro impegno sull’adempimento del dovere, sino a farsene martiri e per questo ad essere coraggiosi come lo furono Loro. Quell’immane conflitto ci ammonisce sul valore della pace fondata sulla Giustizia, affinché non sia un protocollo animato dal rancore, dall’odio, dallo spirito di vendetta. Siate consapevoli di come l’Italia sia nata con il dono della vita reso dai suoi figli che per questo continuiamo a sentire presenti, con il timore di non essere all’altezza del loro insegnamento”.

Qualcuno, in questi giorni, ha scritto che è in atto una campagna contro i giovani di questo paese: dagli sgomberi alle norme anti-rave fino all’idea di una scuola, da quanto è dato capire, che faccia di almeno alcuni di loro dei “vincenti”, qualunque cosa possa significare questa parola che ci accompagna ormai da decenni, e che ha già fatto parecchi guai, e altri ne farà.

Non sarò qui a tessere lodi del passato: il passato è aguzzo, e bisogna sfuggire alle trappole della memoria quando coinvolge la nostra stessa vita e la nostra giovinezza. Però, ho ritrovato un articolo che ho scritto per Repubblica nel 1993, ventinove anni fa. Parlava di centri sociali e uscì sulle pagine culturali. E mi chiedo, quanto meno, se oggi sarebbe possibile. Tutto vostro.

“Nelle periferie cittadine, tornate ad essere ghetto dopo la fine delle grandi utopie di trenta anni fa, appare e scompare un disegno: lo si può scorgere sui muri di fabbriche abbandonate, di scuole in disfacimento, di vecchie case, di capannoni deserti. E’ un semplice cerchio attraversato e infranto da un fulmine. Ed è il simbolo dei Centri sociali occupati, sorti nelle metropoli grandi e piccole d’ Italia negli ultimi quindici anni e, oggi, nuovamente e clamorosamente oggetto di cronaca e dibattito politico dopo il braccio di ferro milanese sul più antico di essi, il Leoncavallo. Il significato di quel disegno è ambiguo come la storia e la filosofia dei Centri: il fulmine rompe il cerchio, spezza i confini della prigionia urbana. Ma c’ è una seconda interpretazione, dove il cerchio non è la società istituzionale, la società adulta a cui si oppongono i giovani e i quasi giovani dei Centri, bensì proprio l’ isola chiusa e orgogliosa in cui si coagula quella seconda microsocietà, autonoma, gelosissima della propria indipendenza, legata al proprio territorio: ma pronta a collegarsi con le altre isole dell’ arcipelago. Chiusura e apertura. Tra i due opposti cresce e prolifera il grande ibrido dei Centri sociali. Nati e moltiplicati a velocità impressionante dal 1984 a oggi: venticinque a Roma, quattordici a Milano, sei a Firenze, cinque a Bologna, tre a Catania. E ce ne sono ad Alessandria, a Voghera, a Udine, a Torino, a Foggia: ognuno con una molteplicità di proposte simili e diverse che vanno dai servizi sociali al teatro, dai fumetti ai libri bianchi contro la droga, dall’arte visiva alla musica.
Nati dalla fine dei sogni, dal collasso della politica: nati per creare una zona franca che consentisse di non scegliere obbligatoriamente tra l’ emarginazione e il riflusso proposti dagli “orribili Ottanta”. E cresciuti secondo una logica che sembra l’ attuazione di quanto predicavano i teorici del situazionismo, il movimento di Guy Debord  alla cui base c’ era lo “spiazzamento”, la ricreazione di un ambiente contemporaneo rivisitando elementi del passato. Dal passato antichissimo della civiltà viene il concetto di piazza come luogo d’ incontro che è alla base dei Centri e che si propone come alternativa alla piazza elettronica della televisione: e della classica piazza di paese conservano, riveduti e corretti, i luoghi canonici, i veterinari, le scuole, il ristorante, il barbiere (magari con nomi fantasiosi, come il romanissimo “Da Capoccetta arifatte la frangetta” di Forte Prenestino).
Ma dietro la filosofia dei Centri c’ è anche il vecchio concetto di espropriazione come rivendicazione proletaria, e che qui si traduce in un nuovo linguaggio culturale che sul furto è fondato. Furto dello spazio, anzitutto: quelle case, quelle fabbriche, quegli asili sono luoghi morti perché abbandonati, ma hanno un proprietario, pubblico o privato che sia, ed è l’appropriazione illegale che contribuisce a dar loro una funzione nuova. Furto visivo: i graffiti, che sono una delle espressioni artistiche legate ai Centri, fioriscono su muri e negozi che appartengono ad altri, trasformandoli in altro. Furto della musica: il rap italiano, la musica delle “posse”, è costruito su una base campionata, rubata, cioè, da produzioni altrui e rimontata in modo originale. Posse è una parola che indica le formazioni musicali “aperte”, con la possibilità di rimescolarsi di volta in volta, del rap italiano. Ha un’ origine curiosa, che affonda le radici nell’ epopea del West: posse era il gruppo degli uomini di legge che usciva a caccia di banditi. Allo stesso modo con cui la cultura afroamericana riesce a trasformare la parola “bad”, cattivo, in un aggettivo che indica approvazione (“bad”, per esempio, è un buon disco), quelli delle posse sono diventati i buoni. Il fenomeno delle posse è enorme e ha dimostrato la sua forza nella capacità di creare un circuito di produzione e distribuzione indipendente: dischi realizzati con pochi soldi, vendita nei negozi specializzatissimi, grande successo nazionale di formazioni locali, addirittura dialettali, come Sud Sound System. E nasce, in Italia, da un episodio che si apparenta quasi al Karaoke. Si chiamava “Ghetto Blaster”, ed era una serata organizzata ogni primo sabato del mese presso l’ Isola nel Kantiere di Bologna, con palcoscenico e microfono messi a disposizione del pubblico. E il “microfono rotante”, la voce data a chiunque lo desideri, è prassi consolidata anche nei concerti di oggi. Chiusura e apertura, ancora.
La fisionomia dei Centri è simile e diversissima da quelle delle altre culture giovanili. In comune c’ è il grande “No”, l’essere contro. Diversi sono i mezzi con cui l’ antagonismo si attua: e che sono spesso mutuati proprio dal territorio nemico, dalle sue tecniche di produzione e riproduzione. I Centri usano armi a doppio taglio: la tecnologia, il computer, il video, tutti gli armamentari da Grande Fratello che appaiono ancora negli incubi degli apocalittici, diventano strumento di controinformazione grazie ad una rete che unisce Centro a Centro, una specie di efficientissima casella postale telematica. E in questi templi della trasversalità può entrare di tutto: l’ impegnatissimo che continua ad opporsi ai media con la stessa ostinazione dei punk che si tagliuzzavano con le lamette ai convegni sulla cultura giovanile. E il disimpegnato che, semplicemente, condivide e ama la stessa musica. Per la prima volta, sembra, una generazione è unita da un linguaggio, anziché da una bandiera.”

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