Ieri sera, nel bellissimo “Multi” ideato da Lucy sulla cultura con Slow food, ho parlato di storie e di immaginazione e di mito. Contemporaneamente, a Bologna, si svolgevano gli Stati generali dell’immaginazione, sullo stesso tema. Dunque, grazie a Patrick Fogli, comincio a pubblicare gli interventi bolognesi, alla fine pubblicherò il mio.
Comincio proprio con quello di Patrick Fogli.
Jose Arcadio Buendía fonda alla fine del XIX secolo la città di Macondo. Sappiamo più o meno dove si trova. Sappiamo che ha una qualche similitudine con qualcosa che esiste. Ma posso azzardare che in questa sala ci siamo stati quasi tutti.
E abbiamo pianto, sorriso, trepidato, sofferto.
E forse non una volta sola.
Ma Macondo non esiste.
Vicino a Bangor, nel Maine, c’è una cittadina creata dai coloni americani.
Intorno al 1740 tutti quelli che vi abitano svaniscono nel nulla e negli anni molte volte si compiono terribili tragedie, la ferriera che si incendia nel 1906 e muoiono pure un centinaio di bambini, lo sterminio della banda Bradley. Nel 1985 un gruppo di bambini diventato adulto decide di affrontare di nuovo il mostro della sua infanzia e tentare di diventare adulti e ci riesce.
E posso di nuovo immaginare che molti di noi in questa sala siano stati a Derry.
E mi piacerebbe molto aver conosciuto uno di quei ragazzi e battere il diavolo in bicicletta con Bill Tartaglia e in realtà l’ho fatto e rifatto molte volte.
Ma Derry non esiste.
La vita è fatta di viaggi.
E alcuni sono i viaggi della vita.
Uno dei viaggi della mia vita è partito da Nantucket, dalle parti di Cape Cod, a metà dell’Ottocento. Ho fatto quel viaggio su una nave vecchia e piuttosto piccola, tinta dalle intemperie di tutti e quattro gli oceani, con a bordo gente di tutti i tipi e comandata da un uomo senza una gamba.
Cercavamo una balena bianca e più che un viaggio era il racconto di una vita, della vita.
Anni dopo ho rivisto quel capitano sulle tavole di un teatro, per due sere di fila.
Ma per quanto ci potesse essere realtà in quello che ho visto e pur essendo stata avvistata lungo le coste dell’Australia una balena albina, Moby Dick non esiste, Achab non esiste, il Pequod non è mai salpato e io non ho mai fatto davvero quel viaggio eppure l’ho fatto tante volte.
Come ho camminato nel mondo morto e bruciato mentre un padre con un carrello della spesa tentava di portare in salvo suo figlio verso sud, ho attraversato il mondo conosciuto per gettare un anello nel monte Fato e ho sfogliato un vocabolario di elfico e ho tremato di paura davanti a un intellettuale del rinascimento cannibale che suggeriva a una recluta dell’FBI che si desidera quello che si vede ogni giorno, agente Sterling.
Ogni storia inventata contiene una storia vera, ma cosa ve ne fate della verità?
Non la vedete già tutti i giorni?
Cosa ve ne fate del racconto di una vita che potreste aver vissuto o che potreste vivere?
Parlo con voi e parlo con me, provoco voi e me stesso, perché chiunque sia in questa sala, anche chi le storie le scrive, è prima di tutto un lettore.
E il mercato, il demone mostruoso, quello sì davvero reale, siamo noi.
Tutti noi.
Nelle due cinquine dei maggiori premi letterari di questo Paese quest’anno c’erano solo due romanzi.
Due su dieci.
E non sto dicendo che i libri che c’erano fossero brutti, che non valessero, che non avessero meriti e qualità.
Anzi.
Sto dicendo che sta passando l’idea che inventare storie non serva a niente.
Che bisogna attaccarsi al vero a ogni costo. Che vanno bene anche vite famose che non sono la tua (parafrasando), ma se la vita è proprio tua, la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità, allora la sintesi è perfetta. Libro e autore uno sull’altro. La carne dello scrittore coincide con le sue parole e la storia respira e parla davanti a noi, pubblico di lettori, che ci sediamo alle presentazioni o acquistiamo il libro.
Eppure la verità, nel momento in cui si comincia a scrivere, muore.
Alla peggio è sempre la versione di qualcuno. Barney insegna.
E non sto dicendo che non si debba scrivere di verità, io l’ho fatto e altri su questo palco, ma con un motivo ben preciso e quel motivo non può essere che ne abbiamo bisogno, per esempio.
La scrittura professionale non è terapia.
Il mio adorato DeLillo scrive in Great Jones Street che le cose non migliorano perché si semplificano e in fondo non esistono risposte semplici a domande complesse.
Eppure semplicità è la nostra parola chiave.
Tutti noi che siamo saliti su questo palco e tanti che qui non ci sono, se la sono sentita rimbalzare addosso.
Anche dai lettori, eh? Anche da voi. Troppo complicato, troppi personaggi. Troppo. Troppo.
Storie più semplici. Parole più semplici. Aiuta il lettore. Spiega una cosa.
E di nuovo non sto dicendo che si debba essere criptici, se il lettore ti molla la mano, se ne va e non torna più, ma perché avete bisogno di tutta questa semplificazione?
Vedete, fare questo lavoro sta diventando difficile. Forse impossibile. E comincio ad avere la sensazione sempre più frequente che siamo tutti morti e nemmeno ce ne accorgiamo.
O magari si.
La quasi totalità di chi scrive romanzi guadagna meno dell’autista della logistica che porta il libro a casa vostra o in libreria.
E con tutto il rispetto per il suo lavoro, è ovvio.
Abbiamo un problema di promozione enorme, non si sa come arrivare ai lettori, un’editoria che produce troppo, ma si sente costretta a farlo, un giornalismo culturale che forse ha troppo a lungo elogiato libri che non meritavano e ha perso molta credibilità, viaggiamo come trottole per portarvi le nostre storie e cominciamo a chiederci se serva davvero, i social sono un mare infinito dove tutto si tiene e se ogni tanto riesumano un romanzo che ha più di due anni e lo andiamo a cercare in libreria probabilmente non c’è e probabilmente è pure fuori catalogo.
È il mercato, bellezza, dicono.
Siamo il mercato, bellezze, vi dico.
Viviamo in un Paese che non legge. E ora siamo schiavi della semplicità.
Perché la verità di cui vi siete innamorati – dico vi siete perché in questi mesi in cui mi è capitato di parlarne mi hanno scritto in molti dicendo che preferiscono storie vere. Tragedie vere, spesso e volentieri. E ripeto non è una questione di qualità del testo. Solo di contenuto. Tragedie quotidiane, che possono essere capitare a noi, a voi, con cui immedesimarsi è facile o con cui è facile provare l’empatia che arriva quando ci si trova di fronte a qualcosa con cui non vorremmo mai avere a che fare –, quella verità è semplicità.
Dopo di me parlerà Massimo Carlotto, uno dei più grandi scrittori di noir di questa epoca.
Noir sociale, romanzo sociale in senso stretto, per me. Non solo criminale.
C’è un suo romanzo che adoro, Arrivederci amore ciao, che ha 22 anni.
È un romanzo sporco, cattivo, duro, vero – si, vero nel senso della scrittura. Non è semplice. Non è lineare. Non si può leggere con Whatsapp in mano, mentre mescoli il sugo, mentre sbirci una serie televisiva.
Ora pensate al noir di oggi. Pensate a cosa chiamiamo noir. Pensate alla miriade di storie consolatorie, ai commissari di condominio, alla semplicità del già detto e già sentito, ai dramedy, per dirla in televisivo. Pensate alla necessità di un’etichetta da appiccicare a un romanzo, un detersivo non basta, lava i piatti o i pavimenti? Pensate al fatto che è impossibile parlare di fantastico, ma solo se si è nati in Italia, eh? Una realtà così assurda come si fa a raccontarla solo con la verità?
Le vite degli altri sono l’ultimo stadio della semplicità.
Non c’è più bisogno di capire nulla. È la verità. Tutta la verità. Nient’altro che la verità.
Non serve cogliere le sfumature o trovare il dettaglio.
È accaduto come lo si sta leggendo. Ed è accaduto a chi lo sta raccontando.
Più facile di così?
Paradossale in un Paese che usa narrazione come vocabolo portante del linguaggio politico.
Stiamo dicendo che la risposta a una realtà così dura, così crudele, così violenta anche in senso non fisico e un’altra realtà di dolore simile vissuto da altri o un mondo idilliaco in cui i cattivi non la fanno mai franca oppure hanno la semplice schiettezza di rapinatori professionisti che cantano Bella ciao e portano nomi di città.
E ci sta che sia anche così, intendiamoci.
Perché a volte posso leggere anche una storiella facile che mi aiuta a staccare e alleggerisce il peso, o il dramma personale di qualcuno che me lo sa raccontare.
Anche. Anche. Anche.
La differenza fra anche e solo, è quella che esiste fra vivere e morire.
Vedete, a volte mi diverto a ragionare sul futuro.
Mi sembra un buon esercizio per capire il presente. Quando corro mi spacco in due, così ragiono di futuro. Che è meno invalidante.
Ho provato a far scrivere un raccontino a chatGPT.
Una cosa semplice, lineare, due dati di base e via.
Il risultato è accettabile.
In linea con la produzione più semplice che troviamo in libreria.
Da qui a qualche anno, per quella produzione non ci sarà più bisogno di qualcuno che la scrive.
Basterà un editor che colga le esigenze del mercato e sappia usare il mezzo.
Chissà che non accada già. Io credo di sì.
La produzione più semplice, quella lineare, può essere sostituita. Verrà sostituita. Quella più complessa, che ha una voce – cavolo se la voce fa uno scrittore – invece no.
Ma quella più complessa non ha mercato.
E il mercato siamo noi.
Le cose non migliorano perché si semplificano.
Vale per la complessità del presente, per la politica, per la scrittura.
Per le storie. L’immaginazione non è semplice.
Un libro è un Altrove.
È un viaggio.
E un viaggio non deve per forza essere al supermercato sotto casa.
il mercato siamo noi, nessuno si senta escluso e nessuno si senta offeso.
In una splendida storia inventata la popolazione di un paese decide di non votare.
Scheda bianca. Astensione. Il meccanismo si inceppa.
A chi gli chiede di fare un lavoro, Bartleby risponde Preferisco di no.
Certo, anche Bartleby non è mai esistito.
Uno scrittore che vi chiede di astenervi dall’acquisto?
No, di esercitare un diritto. O mi state dicendo che lo fate già, che quello che sta accadendo è quello che volete?
Se non è così, se avete desideri, bisogni, attese non soddisfatte, ditelo, parlate, parlate voi e parlino i librai, che sono quelli che i libri li vendono e consigliano.
Perché il mercato siamo noi. Troviamo un modo. Troviamolo insieme.
Io voglio continuare ad andare a Macondo. Voglio sbirciare nelle fogne di Derry e scappare a gambe levate quando brillano nell’oscurità gli occhi di un pagliaccio che mi invita a galleggiare. Voglio imbarcarmi su una baleniera e imparare l’elfico e guardare un assassino cannibale che disegna a memoria i monumenti di Firenze e accompagnare un padre e un figlio sulla loro strada in un mondo devastato e ostile e affogare i pensieri e i sentimenti nel passaparola innominabile che porta un cuore da un ragazzo che muore a una donna che sta morendo. Ascoltare il silenzio della Fortezza Bastiani. Viaggiare con un frate che si chiama come un investigatore o un bardo alla caccia di un assassino che assomiglia a uno scrittore mentre la Santa Inquisizione caccia le sue streghe e incarna i suoi demoni.
Lasciamoci ancora il diritto di immaginare.
Chissà quante balene bianche ci stiamo perdendo.