Sono, come molti di coloro che leggono per professione, sconcertata e travolta. In queste settimane escono moltissimi libri, e molti di quei libri li attendevo, e di molti altri sono curiosa. Ma non riesco a leggerli, per quanto occupi ogni interstizio temporale con un libro in mano. E continuo a chiedermi: come si fa? E continuo a rispondere chi mi contatta via mail che appunto non ho tempo, certa di non essere creduta.
Un anno fa ho scritto questo articolo per la Stampa. Non cambia una virgola, se non il numero delle pubblicazioni che è aumentato di parecchio. Per quanto proseguiremo così?
Una delle contraddizioni più interessanti del nostro tempo riguarda le giovani persone, e dunque anche chi esordisce sotto i trent’anni. Da una parte è indiscutibilmente vero che l’editoria punta non poco sui primi libri: oltre sessanta esordi nel 2023, e il calcolo è parziale perché altri se ne aggiungeranno. D’altro canto, però, non sembra che la critica letteraria nutra sufficiente interesse nell’analizzare quegli esordi: è semmai la comunicazione (giornalismo culturale, blogger, uffici stampa) a fornirli di articoli, copertine, foto di gruppo. Ed è il sistema editoriale a dedicare loro collane o di case editrici (ACCĒNTO, fondata da Alessandro Cattelan, diretta da Matteo B.Bianchi e I Pavoni, diretta da Teresa Ciabatti per Solferino), o, in alcuni casi, a premiarli (Bernardo Zannoni, fresco vincitore del Campiello).
Forse è questo il punto su cui concentrarsi nella discussione intrapresa qui a proposito del destino della critica letteraria: la quale, a mio parere, non è in via di estinzione né in crisi di autorevolezza, a meno di non vincolare la sua ragion d’essere allo spostamento di copie vendute. Su quelle, è vero, incide poco: il che potrebbe persino essere un bene, se alla critica attribuiamo, come dovrebbe essere, non il compito di far vendere, bensì quello di contestualizzare, di ampliare lo sguardo su un testo mettendolo in connessione con altri, di rinvenirvi lo spirito del tempo.
Il caso dei giovani scrittori, dunque, è esemplare: molto corteggiati e molto raccontati nelle cronache, meno nelle critiche, e a volte invisi ai colleghi più anziani. Quando è stata resa nota la lista degli esordi 2023, un raffinato scrittore come Filippo Tuena notava, su Facebook, “leggo le anticipazioni dei romanzi che usciranno nel 2023. Ma possibile che nessuno o quasi arrischi novità dal punto di vista della struttura? davvero la narrazione non trova modo di aggiornarsi?”. La diffidenza preventiva, in effetti, aleggia spesso sugli esordienti: come se sui loro libri gravasse la scarsa voglia di innovare, il conformarsi a trame già sperimentate con successo da altri, l’abbandonarsi a un linguaggio piano e, per usare un termine dell’urbanistica, gentrificato. Salvo, però, riconoscere a fatica quella stessa innovazione quando si presenta.
In altre parole, è vero che le case editrici cercano voci nuove: e ci mancherebbe altro, perché quello è il loro mestiere. E’ vero che il modello del libro di successo ha spesso il suo peso su chi esordisce. Ed è vero anche che, in molti casi, quelle voci nuove vengono rapidamente lasciate da parte se non soddisfano le aspettative di vendita: con poco danno economico, suppongo, perché gli anticipi per un esordio non sono altissimi. Ma è altrettanto vero che resta difficile che ci si accorga del valore di almeno alcune di quelle voci. Soprattutto perché è difficile vederle.
La questione reale non è la perdita di autorevolezza della critica in favore dei comunicatori o degli influencer e il suo limitarsi alla recensione amicale. E’ la difficoltà di svolgere qualsiasi ruolo causa eccesso di produzione. C’è un dato interessante che è stato fornito a fine anno: le prime edizioni dei libri sono aumentate del 13,5 per cento, le seconde (e successive) diminuiscono del 18,4. Il che fa dedurre che la vita dei libri si abbrevia ulteriormente. Il che fa dedurre anche che la questione della critica non è disgiungibile dalla possibilità di scegliere di quale libro parlare: e fra settanta-ottantamila novità l’anno è quasi impossibile. E qui entra in ballo il discorso del recensirsi fra amici su cui si soffermava Piero Dorfles su queste pagine: a costo di rischiare l’accusa di ingenuità, penso che a volte si recensiscano i libri di chi si è già letto perché è difficilissimo trovare gli altri. E’ un problema, e non piccolo, e neppure nuovo: ma si sta aggravando. Come può il lettore professionista assolvere al suo compito nell’oceano di titoli che si trova davanti? A volte, banalmente, sceglie la via più semplice: l’autore già conosciuto.
A questo si aggiunga il peso che grava su tutti, esordienti e no, nella corsa al libro di successo. Si dirà che tutti desiderano il best-seller, e non da oggi. Ma non come negli ultimi tempi, che vedono moltiplicarsi gli sforzi per concepire il romanzo determinante. Sforzi dolorosi, continuativi, fatti non solo di scrittura ma di relazioni e strategie che, si ritiene, faranno di quel testo un best-seller. Dovrebbe essere noto da tempo che non funziona così. I best-seller sono quasi sempre stati casuali: semplicemente, un libro che arrivava nel momento giusto e su, cui, certo, si concentra l’intuizione e poi lo sforzo promozionale di un editore. Negli ultimi tempi è accaduto con I leoni di Sicilia di Stefania Auci e, in misura per ora diversa, con Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi. E, prima ancora, con i libri di Zerocalcare. Né Auci né Zerocalcare hanno peraltro lasciato l’editore, all’epoca non gigantesco, dove hanno conosciuto quel successo, e hanno fatto molto bene, perché il famigerato secondo libro, quello pubblicato con una major, raramente risulta felice.
Dunque forse bisognerebbe tirare il fiato, ricordare che la vita di un libro è imprevedibile, come molti sanno, e scrivere con l’anima in pace. Bisognerebbe anche che la critica avesse più spazi per esprimersi e per fare il suo lavoro, che, ripeto, non è quello di far vendere, ma quello di analizzare. Bisognerebbe, infine, placare le aspettative generali. Perché se si continua così, gli scrittori a inseguire il libro che vende tantissimo, gli editori a dover vendere tantissimo quel libro, i librai a dover basare le prenotazioni su quel che si è venduto, mentre noi tutti, lettori e scrittori, continuiamo ad annaspare tra novantamila titoli l’anno, si implode, semplicemente. E anche in tempi brevi.