La Buchmesse di Francoforte e l’Italia paese ospite, tra Carosone e ‘O sole mio. Come scrive Paolo Rumiz, “”Non era solo un inconveniente. Era percepibile ovunque nello spazio centrale offerto al mio Paese, ospite d’onore della rassegna, una rappresentazione tendenzialmente da cartolina, un’ambientazione sonora che lasciava poco spazio alla forza della parola nuda. Il tutto con la preoccupazione di riempire gli intervalli tra gli incontri con mandolinate o musiche vagamente sedative, stile sala d’aspetto di un dentista o comunque tali da evitare, con motivi nazional-popolari, eccessivi acuti intellettualistici nei conferenzieri”.
E’ una questione di competenza di chi ha lavorato (male, malissimo, anche prima di Mazza) a uno degli appuntamenti più importanti per la nostra editoria e la nostra cultura? Sì, anche. Ma secondo me entra in ballo anche il concetto stesso di cultura secondo questo governo: perché fin qui, dai tempi del non compianto Sangiuliano, hanno parlato spesso e volentieri di “egemonia culturale” della sinistra senza tirar fuori uno straccio di progetto. Cosa sia l’editoria italiana, cosa si muova nei libri italiani, forse non lo sanno neanche (ma forse non lo sapevano neanche prima). E  non danno alla cultura e alla letteratura in particolare il ruolo che si prende anche suo malgrado: raccontare il mondo, raccontare il sentimento del tempo, anche.
In sostanza: chi ha organizzato e pensato la nostra presenza alla Fiera ha immaginato un invito ad amare l’Italia perché è il paese dove fioriscono i limoni eccetera. I limoni fioriscono pure, tra un diluvio e l’altro: ma c’è molto altro da raccontare. Ancora una volta, volendolo fare. Peccato.

Secondo me, nella discussione di questi giorni sulla Gpa, non dovremmo perdere di vista due cose importanti.
La prima, come anche altri hanno scritto, è che questa è una legge-manifesto, fatta per tener buono l’elettorato di Meloni, esattamente come i decreti anti-rave o anti-cannabis light, o la parte del ddl sicurezza contro le borseggiatrici incinte e i manifestanti. Leggi che servono solo a scoprire i denti e a dire “stiamo lavorando per voi”. Cosa non vera, evidentemente: il dramma è che l’elettorato in questione la scambia per reale e applaude all’illusione.
La seconda è quella che riguarda la discussione nei femminismi, che sul punto si esprimono in modo (giustamente) non unitario. In questi giorni, molte delle mie amiche sono su posizioni opposte alla mia e a quella di altre mie amiche: ma questo è giusto e importante. Perché la forza dell’unione, o sorellanza se vogliamo chiamarla così, è esattamente qui: riuscire a discutere anche partendo da convinzioni diversissime.
Non è certo questa la malattia del drago di cui ho parlato nel mio articolo per Vogue Italia: quella, semmai, ha colpito e non da oggi una parte piccola ma visibile dei femminismi stessi che si intesta una battaglia non tanto per convinzione, o almeno così credo, ma per continuare a esercitare un potere. Chi non gradisce la citazione da Tolkien forse amerà quella di Borges, da La muraglia e i libri: “Lessi giorni addietro che l’uomo che ordinò l’edificazione della quasi infinita muraglia cinese fu quel primo imperatore, Shi Huang Ti, che dispose anche che venissero dati alle fiamme tutti i libri scritti prima di lui”.

In “Staccando l’ombra da terra,” Daniele Del Giudice scrisse: “Le parole, in cielo, nelle procedure del volo, sono parole ad alto grado di responsabilità, parole con conseguenze”.
Ad alto grado di responsabilità. Conseguenze. Ci ripensavo ieri sera leggendo le dichiarazioni della ministra della Famiglia Eugenia Roccella dopo l’approvazione in Senato della legge che rende “reato universale” la Gestazione Per Altri. Le parole sono queste:
“Chi si trincera dietro la retorica dei ‘diritti’ per giustificare la pratica dell’utero in affitto dovrebbe chiedersi perché invece ci sia una rete mondiale del femminismo che sostiene l’iniziativa dell’Italia e considera il nostro Paese un esempio da seguire dappertutto”.
Una rete mondiale del femminismo.
Già l’uso del singolare fa capire in quale ottica si muove Roccella: i femminismi sono plurali, da anni e anni e sempre di più, come è giusto che sia. Ma c’è chi, come la ministra, riconosce come femminismo soltanto quello a cui si sente vicina. Ed è vero che quel femminismo festeggia l’approvazione di una legge sbilenca, e che probabilmente sarà inapplicabile.
Io ricordo bene uno degli ultimi video di Michela Murgia che diceva che dovremmo essere le porte, e non le portinaie. Intendo che bisognerebbe confrontarsi su un tema così grande, che non può essere affrontato a colpi di leggi-manifesto che porteranno solo sofferenza, senza la certezza di essere le uniche a potersi dire femministe.
Ecco. Quante, delle grandi madri del femminismo, ascoltano le giovani? Quante sono disposte a capire quanto sia diverso, e aperto, e innervato della consapevolezza dei diritti? Quante sono disposte a capire che c’è un’altra rete che sta prendendo forma, che ha già preso forma, anzi, e che fa a meno della biologia in favore dell’altra banalissima e gigantesca parola che è amore?
Io vedo anche un’altra cosa in questa rivendicazione del solo e unico femminismo. Il potere. C’è una parte dei femminismi delle madri che non intende cedere un’oncia della propria posizione, e che è disposta ad assumere posizioni illiberali per questo. Come direbbe Tolkien, stanno combattendo Sauron usando l’anello. E questo è un male per tutte. E per tutti.

Sul Telegraph il Ministro della Sanità britannico Wes Streeting parla del problema dell’obesità: problema, dice, perché grava sul servizio sanitario persino più del fumo. Ma non è tutto: “E sta frenando la nostra economia. Le malattie causate dall’obesità inducono le persone a prendersi in media quattro giorni di malattia in più all’anno”.
Dunque? Dunque:
“Oggi annunciamo un investimento di 279 milioni di sterline da parte della più grande azienda farmaceutica al mondo, Eli Lilly, in una collaborazione che comprende l’esplorazione di nuovi modi di fornire servizi sanitari e assistenziali alle persone affette da obesità e uno studio quinquennale nel mondo reale di un trattamento all’avanguardia per l’obesità”. 

In pratica, si offrono punture dimagranti di Mounjaro, un farmaco per la cura del diabete a base di tirzepatide o di Wegovy della Novo Nordisk, per “cambiare la vita dei pazienti e aiutarli a tornare al lavoro”.
Ora. Immagino che nessuno obbligherà i due terzi della popolazione inglese considerata sovrappeso o obesa ad assumere tirzepatide. Ma mi interrogo moltissimo sul controllo dello Stato sui corpi dei cittadini. Mi interrogo soprattutto quando si parla della necessità di renderli efficienti, in modo da non perdere neanche una giornata di lavoro. Mi interrogo quando un farmaco viene considerato efficace a prescindere dalla storia personale del paziente. Non sono un’esperta, non so nulla di medicina. Qualcosina di letteratura, però, la so. E non a caso mi è venuto in mente un romanzo di Dave Eggers, Il cerchio (è del 2013) che prefigurava un mondo “sano” e trasparente grazie ai social network, nel caso.
Mi chiedo perché non se ne parli. Mi chiedo perché non ci preoccupiamo.

Quando si intraprende una discussione, ovunque la si intraprenda (qui, sui social, su carta, in televisione), c’è un problema di cui non ci si rende conto, almeno secondo me. Le parole. Che non si rinnovano, che mancano, che vengono ripetute fino a sbiadire. Parto dalle parole della sinistra: ma non degli esponenti politici di primo piano, bensì dei militanti o simpatizzanti o votanti o quel che vi pare. Sono sempre uguali. Le sento ripetere fin dagli anni Settanta, e allora avevano forse un senso: ma oggi sono automatismi, meccanismi  vuoti, non aderenti al reale.
Grazie al cielo, non sono la sola a rendermene conto. Questa mattina, su Repubblica, è Paolo Rumiz a denunciarlo: “la politica è fatta anche di parole, e fino a prova contraria le parole sono il mestiere di chi scrive. Ebbene, mi accorgo che esiste già di fatto un’egemonia della destra sul piano verbale, un’egemonia tale che i partiti di governo sono costretti a inseguirla penosamente”.
In un accorato intervento su Minima&Moralia, Matteo Nucci ha riproposto il discorso su Gaza. Sull’assenza di parole ancora una volta incisive e corrispondenti al reale su quanto sta avvenendo, con poche eccezioni.
Ci sono quelli che continuano a farlo, certo, da tempi non sospetti: penso a Wu Ming 1 e ai suoi Uomini pesce che stanno arrivando, penso allo stesso Rumiz, penso a Claudia Durastanti col suo non abbastanza compreso Missitalia, penso a chi è consapevole che la lingua è resistenza, qualora la si usi bene. E mi chiedo perché non ci riflettiamo abbastanza, e perché lasciamo andare quel che ci caratterizza da millenni. Perché non curiamo la parola fino a quando, come diceva Emily Dickinson, non comincia a splendere. O, se lo facciamo, lo facciamo per raccontare noi stessi, e non tutto il resto.

Per uno di quei casi che non sono casi, ma che è giusto chiamare sincronicità, escono due articoli quasi contemporaneamente. Il primo è di Simonetta Sciandivasci su Specchio de La Stampa, e si intitola Diventiamo un villaggio capace e degno di crescere i figli di tutti. Il secondo è di Motoko Rich sul New York Times e si intitola I governi possono convincere le persone ad avere più figli? Entrambi dicono una cosa importante: gli incentivi non bastano. Non bastano gli asili nido e i congedi parentali e tutto quello che ancora non c’è e potrebbe esserci: ci vuole qualcos’altro, e quel qualcos’altro è nel nostro atteggiamento.
Sciandivasci scrive una cosa verissima, anche se fa male: il villaggio è ostile alle bambine e ai bambini (lei, giustamente, usa il femminile sovraesteso: io, che non voglio rotture di scatole nei commenti che parlano di questo invece che del contenuto, faccio l’ecumenica, per ora).
E’ vero. Rintanati nel mondo piccolo dove ci sentiamo onnipotenti, bravissimi, intelligentissimi e certamente poco compresi nel nostro fulgore, detestiamo persino le piccole persone, vedi mai ci rubassero aria e, crescendo, ottenessero più riconoscimenti di noi. O dei nostri figli e figlie, che spesso viviamo come nostra proiezione, come coloro che si faranno strada dove noi non siamo riusciti.
Insomma, in ballo c’è non solo il modo in cui vediamo il futuro, ma il modo in cui ci vediamo oggi. E se non riusciamo a vederci plurali, sarà un guaio: e dire che il mondo senza umanità starà meglio, perdonate, è una scusa.

Da ieri mattina provo (quasi invano) a sostenere l’insensatezza dell’ondata di sghignazzo (tutt’altro che intelligente, come lo intendeva Dario Fo) seguito al discorso programmatico del ministro della Cultura Giuli.
Quello che non mi riesce di far capire è che non solo non difendo Giuli, ma che me ne infischio di Giuli, almeno finché non farà qualcosa. Sarebbe il caso, per chi lavora con i libri o nel mondo culturale, di presidiare il territorio, di intervenire sul punto, visto che di punti, dall’intervento sull’editoria o, come scriveva Nicola Lagioia, alle politiche inesistenti del governo sul mondo del libro, ce ne sarebbero parecchi.
Quello di cui non mi infischio è che un discorso non particolarmente oscuro o difficile viene salutato come il manoscritto Voynich, che come è noto è quanto di più enigmatico esista al mondo.
Ben quattordici anni fa Tullio De Mauro ci disse che cinque italiani su cento fra i 14 e i 65 anni non sanno distinguere una lettera o una cifra dall’altra. Trentotto lo sanno fare, ma riescono solo a leggere con difficoltà una scritta. Trentatre non riescono a leggere un testo scritto che “riguardi fatti collettivi”. Un quotidiano, per esempio. Solo il 20 per cento degli italiani, secondo De Mauro (che a sua volta si riferisce a studi internazionali) possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura e scrittura per orientarsi nella società.
Quattordici anni dopo, ho la sensazione che le cose siano enormemente peggiorate. 

Grazie a un post di Giovanni Arduino, sono andata a leggere un articolo piuttosto inquietante, quanto vero, su The Atlantic. Parla degli studenti di Letteratura alla Columbia University. Parla di quanto sia difficile, per loro, stare al passo con i libri che si chiede loro di leggere. Anzi, parla del fatto che non riescono proprio a leggere e non sono preparati a farlo quando iniziano l’università: una studentessa, infatti, confessa che a scuola non le è mai stato chiesto di leggere un libro per intero, ma solo estratti, o poesie, o articoli di giornale.
Sulla sua newsletter, Servizio a domicilio, Giulia Blasi ha scritto una confessione, lo scorso 1 ottobre, dove racconta di non riuscire più a leggere.
Due testi che ci dicono qualcosa di molto simile: la lettura intrapresa per puro piacere è seriamente insidiata. Dalla sovrapproduzione, dalle troppe richieste, dalla distrazione, da quel che volete. Ma sarebbe il caso di pensarci, prima che sia tardi (poi, certo, le storie possono trovare mille strade, e leggere romanzi o saggi potrà anche diventare una faccenda elitaria. Però. Però).

Ci tengo a dire una cosa, e riguarda la presentazione di Morgana-Il corpo della madre di ieri sera a Spazio Sette, con Chiara Tagliaferri, Alessandro Giammei, MP5, Valeria Solarino e tante, e tanti che erano presenti. Michela Murgia, non sembri retorico dirlo, su tutte, perché era presente davvero, con le sue parole e la sua voce e con qualcosa che non è solo ricordo, ma permanenza, non è solo nostalgia, ma riconoscimento e cammino comune.
Questo è quello che volevo dire, infatti: in un mondo spesso soffocante e a volte persino velenoso come quello della letteratura, può nascere e fiorire qualcosa che, banalmente, si chiama amore, ed è fatto di stima reciproca, di obiettivi comuni, di risate e di pianti, e di tutto ciò che si fa quando ci si vuole bene. Si dice così poco, quanto è importante volersi bene. Eppure, è quel che abbiamo.

Oggi pomeriggio alle 18.30 torno a Spazio Sette a Roma per un appuntamento gioioso: presentare Morgana-Il corpo della madre di Michela Murgia e Chiara Tagliaferri. Sarò insieme ad Alessandro Giammei e Valeria Solarino. Ci sarà molto, molto amore.
Approfitto per una nota. In questo ciclo di Morgana c’è anche un capitolo, ed episodio, dedicato a Elena Ferrante, come è giusto che sia. E per una di quelle straordinarie coincidenze (che poi tali non sono), esattamente un 3 settembre di otto anni fa esplodeva il “caso” Elena Ferrante. Ricordate? Fu il momento in cui si apprendeva quale sarebbe la vera identità (e già sulle parole “vera” e “identità” molto ci sarebbe da discutere) di Elena Ferrante. Avvenne con quello che si suol definire “scoop” da parte di Claudio Gatti per il Sole24Ore e altre testate.
L’inchiesta venne condotta con gelido professionismo, come se portare alla luce l’identità di una scrittrice che ha più volte chiesto di non essere svelata, ma di voler continuare a celarsi dietro l’anonimato fosse equiparabile a sbugiardare l’evasione fiscale di Trump.
L’anonimato è una scelta di libertà, il desiderio di non essere giudicata se non per quello che si scrive e non per la visibilità, l’età, il corpo, la postura, le parentele.
I lettori di Elena Ferrante lo sanno. E in otto anni hanno continuato a saperlo: leggete Morgana-Il corpo della madre per capirlo. E, certo, non solo per questo.

Loredana Lipperini
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