Nell’ultimo numero di Giap!, Wu Ming annuncia la “fase dura” del proprio anno sabbatico: presenza minima sulla rete, concentrazione massima sul romanzo. Leggete qui le motivazioni in dettaglio. Riporto, da quell’intervento, una riflessione che auspico chiarificatrice su cosa significa “raccontare il presente".
Il "presente" escresce, fuori dalla gabbia che lo comprime. Si gonfia ed esonda, spacca le sbarre dell’attenzione.
Cos’è il "presente" e cosa ha a che fare con quello che stiamo scrivendo?
Banalità di base. Il "presente" è la fase che va dal passato molto recente all’immediato futuro, un "tempo della coscienza" che corrisponde più o meno a: le cose che ci accadono di giorno in giorno.
A rigore, tutti gli scrittori raccontano il loro presente, anche quando scrivono di medioevo o di un futuro post-atomico.
Il presente fa irruzione in ogni riga, in ogni scelta linguistica e narrativa, in ogni emozione che si deposita sulla pagina.
Il presente lascia tracce di sé, si racconta tramite l’autore (che è qualcosa di simile a un medium, salvo che il processo non ha nulla di soprannaturale).
Il presente influenza in modo decisivo il modo di raccontare il passato, anche al di là dell’intento allegorico (che può esserci oppure no).
Ogni romanzo si rivolge all’oggi (e al domani, ma questo è un altro discorso), ogni romanzo parla anche dell’oggi.
Non necessariamente chi ambienta un romanzo nel 2005 racconta il presente più di chi lo ambienta nel Settecento, e nemmeno si assume più responsabilità.
La nostra dichiarazione di poetica è sempre stata: raccontare le comunità, soprattutto le comunità in lotta, quel che le tiene insieme e quel che a un certo punto le mette in crisi, raccontare la "teleologia del comune", cioè l’evolversi dello scambio, della condivisione, del mito collettivo.
E’ una narrativa del legame sociale, la nostra. Tutti i nostri libri sono così, ciascuno a suo modo.
Non facciamo romanzi "a tesi", però: anche se volessimo scrivere puri romanzi d’evasione, improvvisando in trance, macinando pagina dopo pagina senza sapere cosa sta per accadere, finiremmo comunque per metterci dentro quello in cui crediamo.
Il passato non è un rifugio. E’ il punto d’origine del presente.
Se vi sembriamo assenti, è perché siamo qui, nell’oggi. Nell’oggi in senso lato, però. Stiamo scrivendo, c’è meno tempo per l’oggi in senso stretto.
(…)
La tentazione sarà di calarci nel vivo delle controversie. In una certa misura lo faremo, ma terremo tale coinvolgimento al *minimo indispensabile*. Faremo solo il necessario per non sentirci degli "imboscati".
Eppure nel frattempo verso un bosco ci muoviamo. Di nuovo "chi va al bosco", il Waldganger, la figura che ci ispirava ai tempi di Luther Blissett. "Il bosco è dappertutto […] Il bosco è nel deserto, il bosco è nella macchia […] "Ma il bosco è soprattutto nelle retrovie del nemico stesso". Nel bosco "sono a disposizione mezzi diversi oltre al semplice ‘no’ da scrivere in una determinata casella" (Ernst Juenger).
Personalmente auspico il momento in cui WuMing1 – ragazzo di enorme talento – cercherà ***da solo***, anziché in tavola rotonda permanente con gli altri cavalieri della corte, e frugando nella sua stessa infanzia e adolescenza, il grande racconto che un giorno ci darà. (Lo so che farei meglio a tacere, ma è più forte di me):-/
In un’intervista rilasciata a Stefano della Casa, parlando del suo film “Fino alla fine del mondo”, Wim Wenders affermò di aver sbagliato i tempi.
La pellicola, girata nel 1992, inscenava il presente in un futuro mediamente lontano. Il futuro rappresentato risultò obsoleto nel giro di pochi anni, facendo scadere il racconto nella banalità.
L’autore disse che non avrebbe mai più utilizzato ambientazione fantascientifiche nelle sue storie e consigliava, a chi voleva cimentarsi nel campo, di utilizzare futuri prossimi o molto lontani.
William Gibson, nel documentario biografico “No Maps for These Territories”, dichiara che, dopo la nascita di figli biondi, procreati da un nero diventato bianco che ha sposato la figlia del Re del rock, il lavoro di uno scrittore di fantascienza sociale è diventato più difficile.
Ale C, scusami, ma non sono del tutto d’accordo: Dick è ancora attualissimo, anche se molti suoi scenari sono stati raggiunti. Il segreto della sua longevità stà nei contenuti e non nell’ambientazione.
Gibson, che all’epoca ho amato molto, ha esaurito molto presto le cartucce che aveva a disposizione e “Fino alla fine del mondo” era un filmetto anche allora.
Già. “Fino alla fine del mondo” è una cazzata, pura e semplice. Come è una cazzata inqualificabile “Al di là delle nuvole”, firmato con Antonioni, vera e propria circonvenzione d’incapace operata per co-regia.
Peccato, perchè Wenders, quando non “sberlina nel cielo” o non si fa scrivere le sceneggiature da Bono Vox (buono quello!) sa essere, a mio avviso, un grande fotografo d’immagini in movimento.
Alberto non devi scusarti, hai ragione.
Riportando quelle dichiarazioni non volevo entrare nel merito dell’opera degli autori. Volevo solo dire che rappresentare il presente, con un certo tipo di ambientazioni, è un terreno minato. A mio parere un vero percorso di guerra.
Ale C, quel scusami era una forma di cortesia. 🙂
Capisco il tuo discorso, ma non credo si possa discernere la scelta dell’ambientazione dalla qualità dell’opera tutta.
Secondo me Wenders lancia un fumogeno imputando la debolezza di quel film a un’ambientazione che è diventata obsoleta dopo pochi anni.
Vediamola così: se scrivi di “eventi” legati alla tecnologia e qualcosa di questo si avvera, allora passi per profeta, se non si avvera niente passi per una visionaria, ma tutto questo succede solo se gli “eventi” di cui scrivi sono degni di attenzione.
Se costruisco un solido e interessante mondo futurista con tecnologia “possibile e vicina” e dentro ci scrivo le paranoie di un adolescente che non scopa per via dei suoi brufoli, allora puoi star certa che nessuno se lo fila (a meno che non ci metto dentro le sue fantasie… 😉 ).
Se, invece, nella stessa ambientazione ci metto lo stesso adolescente (anche con i brufoli) che viene assurdamente torturato dalla polizia perché stava partecipando a una manifestazione di protesta contro un accordo internazionale (tra le major e i governi “liberi”) che prevede la censura dei testi di tutte le canzoni pop e rock, allora si che l’interesse si desta. E non mi allontano neanche troppo dal presente…
Alberto: scrivilo subito quel libro!!!!
Gianni, per 100.000 euro ti cedo i diritti sulla trama.
;-))
ps: cmq ci faccio un pensierino.
Voi due, anzi tre: scrivetelo e non pensateci troppo.
Si, bhe, però io lo sto scrivendo veramente…
Adesso dovete rivelare le fonti del plagio
Avevo anche un bel titolo e sottotitolo
“Gioco alla palystation ma senza satisfaction.
Se squilla il cellulare faccio un po’ di conversation.
Se arriva in celerino sfoggio l’i-poddino”
bel tentativo Ale, peccato che Gianni mi abbia già fatto il bonifico dei centomila sul mio conto alla Popolare di Lodi…
“Se arriva in celerino sfoggio l’i-poddino”?
allora sei morta se non riesci anche a tirare fuori in tempo anche il certificato d’autenticità degli mp3!
😉
troppi “anche” 🙂
Alberto, scordatelo. Per 100.000 euro io sono pronto a diventare omofilo (cioè a prenderlo… vabbe’, hai capito…) 😉
Stiamo parlado di REALTA’
di un giovane “puro” dei nostri tempi…
Mp3 acquistati, con certificato?
Eresia!
Attendo sviluppi sulla reazione del celerino, io.
Loredana, non vorrai mica che ti anticipiamo tutto il libro, no?
Certo che sì!
dovrai aspettare perchè sto contrattando con Gianni, in privato.
😉
Buongiorno…
Alberto, ho un’idea per il trailer…(Gianni, poi ti spiego)
Di passaggio: “Ogni romanzo si rivolge all’oggi (e al domani, ma questo è un altro discorso), ogni romanzo parla anche dell’oggi.”
(Wu Ming)
Qualcuno qui chiedeva (peraltro a me, che non c’entravo nulla, ma la penso come WM)- sono passati secoli-commento – in cosa consistesse il valore politico di una scrittura: non è detto che una scrittura abbia alcun valore politico se impugno la penna nel bel mezzo di una battaglia, invece del fucile: è il rivolgersi al “qui ed ora” che fa della scrittura una scrittura politica. C’è anche un motivo banale…chi spera di intervenire sul passato è folle, chi spera di intervenire sul futuro può ben illudersi, a ragione o a torto, ma deve pur sempre illudersi oggi (me la cavo con una battuta)
Un insegnante di storia dell’arte a scuola spiegava che il nostro modo di ‘vedere’ i capolavori del passato non era certo quello delle persone che li videro nascere. Non avremmo potuto leggerli allo stesso modo neanche volendo o simulando. Questo è vero anche per chi scrive ambientando nel passato o nel futuro: si opera al presente e per il presente con linguaggi e temi che sono ‘leggibili’ oggi. Le cose che si scrivono/dicono non sono neutre nè rispetto al presente nè rispetto al nostro porci in relazione a esso (chiamatela politica, se volete). Non possiamo fare altro, ha ragione Ivan che lo si voglia o no.
Besos
“palla al balzo”: spettatrice, c’era un volta un sogno piuttosto diffuso, era così diffuso che se ne faceva dottrina: l’occhio lucido e neutrale rispetto ai fatti, alle opinioni, alla storia, alla morale. Era un qualunquismo di stampo borghese, e durò poco persino presso la borghesia del tempo: fu sufficiente accorgersi che non vendeva (se uso “borghesia” in senso stretto è ovvio il contesto storico). Non sono molto convinto della verità di alcuni mottetti, e la storia come magistra vitae un po’ mi disgusta, perché i più grandi insegnamenti sarebbero grandissime ipocrisie; le storie a tesi, narrazioni a tesi, sono spesso stupide e noiose; ma la non-neutralità di cui parli (che correttamente equivale al valore politico) è la necessità del giudizio, e ogni storia è sempre morale (si intende: qualcuno mostra qualcosa in un certo modo, e in quell’esibizione è compreso il giudizio dell’uomo, a volte anche il giudizio storico).
(Per inciso, non potrei trovare meno assurde le parole di Massimiliano Parente, leggi su)
“Un insegnante di storia dell’arte a scuola spiegava che il nostro modo di ‘vedere’ i capolavori del passato non era certo quello delle persone che li videro nascere”
Vero. Ma aggiungi un’altra questione, forse più interessante.
Arte è un termine vago, molto soggetto alle mutazioni epocali, se non ti dispiace porto un esempio che secondo me riesce comodo per tutti (assodato che qui, per un tempo imprecisato, la Scuola di Francoforte era a piè di ogni discussione): Odisseo, Ulisse, chiamalo come vuoi.
Ulisse è l’uomo giusto che viene aiutato dagli dei, è il marito infedele dei siparietti amorosi, un maschilista di successo, è il protoborghese della “dialettica dell’illuminismo”: chi è, cos’è?
Ulisse è un personaggio con una storia, a suo modo “esemplare” (per quanto la sua confidenza con Atena e compagnia fosse superiore alla media), in cui, prima ancora dell’autore, è il personaggio stesso che costringe al giudizio.
Il lettore è “costretto” tanto quanto lo scrittore.
Nel caso di Ulisse, persino a “giudicare l’uomo”, prima ancora di “un certo uomo” (e difatti l’epica è epica, per dirla con una tautologia)
(IMO)